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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


23 luglio 2008


Don Ciotti e la mafia


Don Luigi Ciotti ha recentemente dichiarato il proprio «profondo disgusto» per quella parte della Chiesa che è in Sicilia che, secondo una recente ricerca, avrebbe un atteggiamento «ambiguo e pilatesco» nei confronti della realtà mafiosa (1).

Senza voler entrare nel merito della ricerca e dei suoi risultati, l’espressione di don Ciotti – sacerdote che da sempre lamenta la mancanza di mitezza della Chiesa nei confronti di coloro che essa giudica erranti a qualsiasi titolo –, proprio perché tutt’altro che mite, induce a porre una domanda e poi ad una conseguente riflessione.

In primo luogo, vien da chiedersi perché, mentre si prova «disgusto» per un confratello debole nei confronti della mafia, non si esita a collaborare con chi in altro modo pure attenta alle basi della convivenza civile. E questo modo è lo sforzo di rimodularla sul fondamento di un’antropologia radicalmente alternativa a quella naturale e cristiana e perciò causa d’innumerevoli e esiziali disordini esistenziali e sociali, senza dimenticare il perdurante riferimento a ideologie che hanno dato sufficiente prova della loro natura antiumana, prima ancora che anticristiana, avendo lasciato dietro di sé autentiche cataste di vittime.

La domanda porta con sé una conseguenza logica, quale che sia la risposta che ad essa si voglia dare, e perfino negandole l’ammissibilità. Il «disgusto» provato da don Ciotti, che sia bene o mal diretto, testimonia che vi sono cose che non si possono tollerare. Rende manifesto che il relativismo ha un limite. Prova che il male c’è, può essere designato e individuato, e che con esso non sono possibili compromessi di principio (magari un po’ di misericordia pastorale, sì, don Ciotti). Rimane il problema di tale designazione. E forse sarebbe utile per non sbagliare – e gli errori in questa materia rischiano di avere conseguenze dannose molto gravi – tener conto della lezione di una ragione pubblica che trasmette l’esperienza e la sapienza maturate e verificate in millenni di storia. E per un cristiano, sarebbe perfino il caso di tener conto di uno dei punti più alti di questa ragione pubblica, e cioè del magistero della Chiesa. Così, non mancherebbe di collocare problemi, pericoli e mali sociali nel loro effettivo ordine gerarchico, e non secondo le sue personali preferenze…

Perciò all’imbecille di turno che dovesse ravvisare in queste poche righe la volontà di minimizzare il fenomeno mafioso e addirittura di «coprire» ogni forma di tiepidezza connivente quando non complice nei suoi confronti, rispondo in anticipo che ovviamente mi basta il decalogo – senza dimenticare il magistero «diretto» del servo di Dio Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in Sicilia (2) – per pensare della mafia e dei mafiosi tutto il male possibile. Ma questo non m’impedisce di pensare anche che peggio, molto peggio della mafia – cioè di un organismo parassitario che dai margini della vita sociale la infiltra e ne sugge il sangue, ma contro la legge – è l’opera di chi vorrebbe sconvolgere il diritto e il costume naturali per ricostruire la società senza e contro Dio autore della natura (e così inevitabilmente contro l’uomo, secondo l’immortale insegnamento dello stesso servo di Dio Giovanni Paolo II, di recente ripreso da Benedetto XVI). La mafia è certamente un incubo, ma neppure paragonabile all’incubo nichilistico (3) della «nuova morale» – inversione soggettivistica della morale tradizionale fondata sulla verità dell’uomo, sulla sua autentica natura –, che trasforma il delitto in diritto e codifica le pretese dell’io desiderante, autentico principio e fondamento, quest’ultimo, della società moderna.

Forse è piuttosto la tiepidezza verso queste tendenze del nostro tempo che dovrebbe suscitare il disgusto di don Ciotti, e non solo il suo. E poiché il relativismo distruttivo che ne è la scaturigine è il risultato della desertificazione spirituale di popoli che furono cristiani, a un sacerdote – e a tutti gli uomini di buona volontà –, dopo il disgusto, dovrebbe venire voglia di prendere sul serio con entusiasmo l’appello alla nuova evangelizzazione, che è stato il leitmotiv del pontificato woytiliano. Il che significa semplicemente tornare a parlare di Gesù Cristo e del suo Vangelo, della sua buona notizia. E chissà che così, ri-evangelizzando, non capiti pure di aiutare i cuori induriti dei mafiosi a convertirsi sul serio. Ma pare, purtroppo, che questo modo di fare anti-mafia non sia molto popolare dalle parti di don Ciotti e dei suoi sodali…

Giovanni Formicola

Note

(1) Cfr. Vittorio Grevi, Quando la mafia è troppo devota. Cosa Nostra e il controverso legame tra uomini d’onore e Chiesa, Corriere della Sera, Milano 20 luglio 2008.
(2) Cfr. Giovanni Paolo II (1978-2005), Visita pastorale in Sicilia (8-10 maggio 1993), in particolare, Omelia in occasione della concelebrazione nella Valle dei templi di Agrigento, del 9-5-93 (http://www.vatican.va/ holy_father/ john_paul_ii/ homilies/ 1993/ documents/ hf_jp-ii_hom_19930509_agrigento_it.html).
(3) L’espressione è del filosofo della storia e della politica Eric Voegelin (1901-1985), cfr. E. Voegelin, Anni di guerra. Per una comprensione dei conflitti nel sec. XX, a cura di Gian Franco Lami, trad. it., Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2001, p. 170.





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