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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


18 novembre 2008


Obama «santo subito»?


L’ «avvento» sembra essersi compiuto e l’«epifania» è ormai prossima: dal 20 gennaio 2009 Barack Hussein Obama sarà presidente degli Stati Uniti d’America. Ma il «messia» è già stato annunciato lo scorso 4 novembre, e da allora pastori e sovrani, questi ultimi più o meno «Magi» – e, fra gli uni e gli altri, i nuovi messaggeri, gli «angeli» del nostro mondo, gli operatori della comunicazione di massa, altrimenti detti giornalisti –, non cessano di tributargli solenni omaggi.

Dopo aver contemplato il «presepe», tuttavia, è il caso di fare qualche riflessione. È solo un primo tentativo – e per certo: siamo in attesa di tanti fatti che dovranno accadere – per iniziare a capire gli eventi che ci hanno visto stupiti spettatori.

La maggioranza che ha scelto Obama è imponente. Persino superiore a quella, pure assai significativa, che aveva eletto Bush nel 2004. E lo è sia nel conto dei voti «elettorali», cioè del numero di Stati e conseguentemente di grandi elettori conquistati, sia in quello del voto popolare, cioè della cifra assoluta dei voti ottenuti in tutto il territorio federale. Vien fatto di chiedersi, allora e anzitutto, il perché di un simile rovesciamento dei rapporti di forza tra repubblicani e democratici. Tale domanda – se pure può avere risposta certa e univoca e non problematica – ne postula implicitamente un’altra, e cioè di quale natura sia il voto dato ad Obama.

Il neo-presidente, se è qualcosa, è certamente – quanto, ancora non lo si sa bene, ma i primi segnali non sono incoraggianti – un liberal. Termine che è meglio non tradurre – e men che meno va tradotto letteralmente con «liberale». Infatti, negli Stati Uniti ha un senso che può essere reso comprensibile da noi con «radicale» in riferimento alle questioni – issue in America – per così dire antropologiche, quelle che concernono il nascere, il morire, i rapporti tra i sessi, la famiglia, i processi della generazione e l’educazione. Mentre, in riferimento alle questioni socio-economiche e del correlativo ruolo dello Stato e del governo centrale, esso definisce una propensione piuttosto dirigista, distributivista e statalista, sebbene non si possa giungere a parlare di socialismo, idea e parola che stroncherebbero qualunque carriera politica al di là dell’Atlantico. Insomma, e grosso modo, un liberal è un uomo di una sinistra, più o meno spinta, che ingloba tanto il radicalismo libertario, che però da noi è tendenzialmente «liberista», quanto la prospettiva «sociale», che privilegia il ruolo del governo centrale, della spesa pubblica, della leva fiscale per distribuire la ricchezza, e ha come modello il welfare state.

Ma è stato ugualmente liberal il consenso di cui ha goduto? La Right Nation (1) ha allora smesso di esser tale? È difficile – forse presuntuoso pretenderlo – dare una risposta decisa. Si può, tuttavia, iniziare almeno un’analisi, sulla base di dati oggettivi.

Lo stesso giorno delle elezioni presidenziali si sono svolti nei vari Stati dell’Unione numerosi referendum. Tre di questi riguardavano il matrimonio. Si chiedeva al popolo di California, Arizona e Florida se volesse codificare nella costituzione dello Stato che il matrimonio può essere contratto solo da un maschio e una femmina. Insomma, lo scopo della consultazione era di opporre un invalicabile argine costituzionale, piuttosto che al potere legislativo, alla tracimazione giudiziaria verso il cosiddetto «matrimonio» tra omosessuali. Tutti e tre i quesiti sono stati approvati. Con largo margine in Florida (62% contro il 38%, con quasi due milioni di voti di vantaggio) e in Arizona (56,3% contro il 43,7%, con duecentosessantamila voti di vantaggio), con margine minore in California (52,3% contro il 47,7%, con oltre mezzo milione di voti di vantaggio). In due di questi Stati, California e Florida, Obama ha prevalso sul suo concorrente repubblicano. In particolare, in California nettamente (60% contro il 37,4% di McCain), ma buona parte del suo elettorato – nonostante le forti suggestioni liberal, provenienti dall’apparato propagandistico democratico e dai mass media – si è espresso contro il cosiddetto «matrimonio» gay: settemilionicentoquindicimila i voti ad Obama, cinquemilionicinquecentoquarantaquattromila i voti pro gay; quattromilionitrecentosettantatremila i voti a McCain, seimilionisessantottomila i voti a favore della verità sul matrimonio. Così, sostanzialmente anche in Florida.

Dunque, parte dell’elettorato di Obama, nello stesso giorno, ha respinto una issue tipicamente liberal, e si è espresso in sintonia con la Right Nation. È innegabile che non se ne può trarre alcuna conclusione frettolosa, ma davvero non sembra che il consenso ad Obama sia integralmente liberal, almeno in California e Florida, che tuttavia non sono propriamente Stati «minori». Con questi tre, sono trenta gli Stati dell’Unione in cui il «matrimonio» tra omosessuali è stato respinto dalla maggioranza della popolazione. E non si segnalano inversioni di tendenza.

E allora, se non con un’improvvisa mutazione in senso liberal della Right Nation – di cui sembrano mancare gl’indizi –, come spiegare, o almeno provare a farlo, il travolgente consenso per Obama, che comunque non ha di molto modificato la geografia politica delle contee americane, nella stragrande maggioranza ancora «rosse» – che è il colore dei repubblicani –, ma purtroppo le meno popolose, come risulta dalla rappresentazione grafica che segue (tratta da http:// www. washingtonpost. com:80/ wp-srv/ politics/ interactives/ campaign08/ election/ uscounties. html).

Per iniziare l’analisi del trionfale successo di Obama, non si può prescindere dallo straordinario risultato della sua raccolta di fondi per la campagna elettorale, che le ha dato un inusitato vigore: settecento milioni di dollari, il doppio del suo rivale – che è sembrato davvero debole, quasi rassegnato, nella sua risposta –, una cifra mai raggiunta prima da nessun candidato. Una cifra che gli ha consentito di mandare in onda – fatto senza precedenti – «a reti unificate» un megaspot pubblicitario della durata di mezz’ora e dal costo stratosferico, in cui si muoveva e parlava come se fosse «già presidente» una settimana prima delle elezioni. Integra tale dato quello relativo al sostegno dei mass media, e di tutta una serie di «poteri forti»: quasi totale. Ma indulgere troppo su questi pur rilevanti fattori per spiegare solo in forza di essi il risultato delle elezioni presidenziali americane, significherebbe cadere nello stesso errore dei commentatori nostrani che attribuiscono i successi di Berlusconi alla sua ricchezza e al suo controllo sulle televisioni.

Altro sicuro fattore del successo di Obama è il recente manifestarsi – le sue origini sono certamente remote – della crisi, che è piuttosto finanziaria che economica, ma che sicuramente ha avuto, ha e avrà riflessi sull’economia cosiddetta reale. È quasi naturale che l’uomo comune toccato nel portafoglio e spaventato per l’avvenire suo e dei suoi figli tenda, da un lato, ad attribuirne la responsabilità al governo in carica, e dall’altro a preferire le politiche protezionistiche, distributiviste e più «assistenziali» che usualmente si ritengono proprie dei democratici. Ma anche questo è un fattore che spiega qualcosa, se si vuole anche molto, ma non tutto.

Va poi messa nel conto una certa fisiologica «stanchezza» per uno stato di guerra che coinvolge il Paese oltreoceano, in teatri remoti e poco noti all’opinione pubblica, come l’Iraq e l’Afghanistan, da oltre sette anni. «Stanchezza» acuita – o almeno non combattuta – per il fatto che la minaccia terroristica sul suolo patrio non è più avvertita come immanente, e la lotta contro di essa non appare più una priorità. A ciò si aggiunga la tradizionale propensione «isolazionista» della destra americana, e si comprende come tutto questo possa aver spinto anche dei conservatori a votare Obama, o comunque a non votare McCain, imputando ai repubblicani il perdurare di una guerra non più sentita.

Non è da sottovalutare, poi il contributo del voto delle minoranze etniche – sempre meno tali –, in particolare i neri e gl’ispanici, che hanno avvertito Obama come «uno dei loro» per ovvie ragioni e si sono mobilitate come mai: per una verifica basterà controllare l’esito elettorale nelle contee a maggioranza nera o ispanica, anche con un’attenzione particolare al dato della partecipazione. Questa mobilitazione, tanto reale quanto assai importante, è rivelata dal fatto che non è stato tanto McCain a perdere voti rispetto a quelli conseguiti da Bush, bensì Obama a migliorare nettamente il risultato di Kerry nel 2004. Nemmeno è da trascurare l’enfasi sulla «novità» e il cambiamento: una riedizione della rerum novarum cupiditas, che periodicamente prende le società e gl’individui. Tale condizione psico-sociale è stata abilmente sfruttata da Obama, che ha puntato su una certa enfasi e – aiutato da stampa, televisioni e internet, nonché dal grande entusiasmo dei suoi sostenitori – ha assunto i toni messianici che oggi tanto influenzano i giudizi più che su di lui sull’«evento», cui sono stati attributi caratteri epocali.

Questo elemento introduce a quello che a mio avviso è stato decisivo, e segna in modo non totalmente e non prevalentemente liberal il consenso ad Obama (altro – ovviamente – è il discorso sulla tonalità che assumerà la sua presidenza).

Tutti gl’istituti di sondaggio hanno rilevato che stavolta la maggioranza di coloro che si dichiarano «religiosi», in particolare cattolici e protestanti evangelical, ha votato il candidato democratico, contrariamente a quanto era accaduto soprattutto nell’ultima elezione presidenziale di Gorge W. Bush. E ciò nonostante la dichiarata e netta posizione pro choice, cioè favorevole alla libertà d’aborto volontario – nonché al finanziamento della ricerca sulle cellule staminali embrionali e all’eutanasia – del candidato democratico. Che si è spinto fino al punto di affermare che non vorrebbe che sua figlia, per un errore, «fosse punita con un figlio». Si può azzardare l’ipotesi che tale consenso «religioso» – certamente decisivo, posto che riguarda il comportamento elettorale di almeno il 40% della popolazione statunitense, che dichiara di praticare una religione – sia stato motivato dal fatto che un presidente di colore, oltre a compiere il processo dell’integrazione razziale, riscattasse, quasi redimesse, la nazione americana dal suo peccato originale, dal suo scelus: la schiavitù e la segregazione razziale. Ed è noto che fin dall’inizio sono state motivate religiosamente, e organizzate in ambito religioso, tutte le iniziative e le imprese contro tali scelleratezze. Appare perciò plausibile che il voto delle persone religiose si sia, piuttosto che semplicemente orientato, addirittura mobilitato per Obama, atteso anche il fortissimo carattere simbolico della presidenza negli USA, che consentirebbe di parlare, come si parlava di «corpo del re» (2), di «corpo del presidente» per dire l’unità mistica della nazione, che è una componente indiscutibile della coscienza civile della stragrande maggioranza degli americani.

È per certo solo un’ipotesi, o per meglio dire un possibile modello interpretativo su cui lavorare. Ma non mi sembra poco plausibile pensare che Obama abbia beneficiato di un voto «mistico». Un consenso che – a fronte della possibilità di trovare finalmente una forma di lavacro per un senso di colpa, fortemente avvertito soprattutto dalle coscienze religiosamente formate, peculiare della nazione americana – ha trascurato le posizioni talvolta persino estremamente liberal del candidato democratico, privilegiando l’occasione di eleggere finalmente «monarca» d’America un uomo di colore, e così compiere un ciclo – i neri negli USA dalla schiavitù alla presidenza di una repubblica che somiglia molto a una monarchia, elettiva e a termine, ma che di tale istituzione ha tutta la forte carica simbolica – e riscattare la nazione dal suo scelus originario.

Ripeto, è solo un’ipotesi. Però, se fosse fondata, allora potremmo dire che anche nel consenso ad Obama si rivela la Right Nation – della quale è essenziale la componente religiosa –, o almeno che essa non è in ritirata, ma ha solo sbagliato candidato.

Giovanni Formicola

Note

(1) Cfr. John Micklethwait e Adrian Wooldridge, The Right Nation, trad. it. La destra giusta. Storia e geografia dell’America che si sente giusta perché è di destra, Mondadori, Milano 2005.
(2) Cfr. Ernst H. Kantorowicz (1895-1963), I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, Torino 1989.





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