Sono segni di debolezza, di
disagio, d’incapacità derivata dalla non abitudine a dover rendere conto delle
proprie affermazioni. Ma non saranno questi i principali ostacoli alla ricerca
della verità, anche in ambito storico, cioè non sarà l’interpretazione
ideologica della storia d’Italia, ma l’assenza della ricerca della verità
stessa, a tutti i livelli, e quindi anche a livello della ricerca storica, a
rappresentare nel futuro il maggior problema nella ricerca di una corretta
lettura della storia d’Italia. Questo disinteresse per la verità è una malattia che s’insinua senza far
rumore nella coscienza, a cominciare dalla risposta sul senso ultimo della
vita, per estendersi poi agli altri livelli, ovviamente quello storico non
escluso. «Vivi senza pensare al perché, e passa oltre, dopo aver goduto il più
possibile» afferma questa concezione della vita dominante nella cultura
odierna, che cerca di spegnere sul nascere ogni domanda sul significato
personale dell’esistenza e quindi, a maggior ragione, sull’importanza di un
comune sentire che leghi fra loro gli abitanti di uno stesso territorio, a
cominciare dal senso del proprio passato.
Contro questa forma di
nichilismo è necessario combattere. I lettori dei libri che mettiamo in
circolazione non sono numerosi soprattutto a causa di questa cultura
dominante. Bisogna trovarne di nuovi, aiutarli a comprendere l’importanza della
verità per la loro vita, far loro capire l’importanza dello strumento-libro e
anche la bellezza della lettura. Venti anni fa, quando il nostro Istituto
storico non avrebbe potuto nemmeno esistere per mancanza di materiale a
disposizione, vi era forse una superiore disponibilità alla ricerca. Oggi,
libri, convegni, incontri, siti di ricerca cominciano a raggiungere un numero
significativo. Noi continueremo a segnalarli. Chi ci legge, ci segnali i suoi
amici o conoscenti, potenziali lettori o comunque interessati a leggere e a
ricercare. Di questo vi ringrazio fin da ora.
più
nota altresì, con un termine ampiamente viziato dal punto di vista semantico e
di uso largamente strumentale, come il «Risorgimento» d’Italia.
Potrebbe sembrare una
vicenda ormai lontana nel tempo, su cui si è posata la polvere degli anni, e
nuovi, più incalzanti e gravi accadimenti della storia del nostro paese possono
far pensare che sia poco utile soffermarvisi. In realtà il Risorgimento non è
un momento di secondaria importanza della storia italiana, perché in esso si è
formata l’Italia contemporanea, si è creata una condizione politica e morale
nella quale — almeno nelle sue strutture portanti e pur con tutti le evoluzioni
sopravvenute dall’Unità ai nostri anni — siamo ancora immersi. Come è noto —
tanto dal dibattito in corso nell’opinione pubblica quanto dalle argomentazioni
degli studiosi —, non pochi dei «nodi» politici e sociali dell’Italia attuale
affondano le loro radici proprio negli anni della costruzione dello Stato
unitario. Se si vuole affrontarli, dunque, non si può non «rivisitare» questa
epoca.
Più in particolare, il
periodo in cui s’inserisce la vicenda di cui il volume tratta è quello
dell’esordio, dei primi vagiti, di questa dinamica di formazione dell’Italia
contemporanea: il periodo della dominazione francese e napoleonica in Italia.
In questi anni, che potrebbero apparire ancora più lontani e «superati» dagli
avvenimenti, per esempio, del 1848-1849 o del decennio 1860-1870, in realtà,
sulla spinta della «nazione sorella», la Francia, vengono poste premesse
decisive per il successo della operazione unitaria e modernizzatrice del
paese, come pure già emergono linee di pensiero e di azione — tanto favorevoli
quanto contrarie alle mete evocate — che si svilupperanno più tardi.
La Rivoluzione francese
Che cosa vuol dire che
l’Italia attua — o subisce — una Rivoluzione «alla francese»? Come è noto — ed
è sicuramente noto a chi ha presente il modello di filosofia e di teologia
della storia contenuto nel fondamentale volume del prof. Plinio Corrêa de
Oliveira (1908-1995) Rivoluzione e Contro-Rivoluzione
—, la Rivoluzione «francese» segna l’apertura di una «epoca» nuova — per dirla con Joseph De Maistre (1753-1821) —, un salto di qualità, un «cambio di paradigma», un paradigm shift come direbbero gli
scienziati anglosassoni, che segna il trapasso da una condizione sociale e
politica che ormai convenzionalmente, almeno a partire da Charles-Alexis
Clérel de Tocqueville (1805-1859), viene detta «antico regime» a una condizione
nuova, marcata dal passaggio della modernità, dell’ethos moderno, dall’ambito semplicemente culturale a quello
della società politica.
Se la società
pre-rivoluzionaria — alla cui origine stava la cristianità medievale — era
fondata ancora su un ethos religioso
ampiamente istituzionalizzato, sulla tradizione come contenuto e come metodo,
sulla famiglia — luogo primario della formazione e della tradizione — come
modello dell’autorità sociale e politica, e sui diritti dei corpi sociali,
il mondo che nasce con il 1789 è invece un mondo incipientemente secolarizzato,
laicizzato e strutturalmente individualistico. Preparato a lungo sul piano dei
costumi e della cultura dall’individualismo religioso protestante, dal
naturalismo rinascimentale, dal libertinismo settecentesco, dall’intellettualismo
razionalistico militante e anti-tradizionale degli enciclopedisti e dei philosophes, diffuso in tutto il mondo
dalle logge massoniche e dalle «società di pensiero» — come le definì il
grande storico cattolico francese Augustin Cochin (1876-1916) —, questo
passaggio fu attuato per la prima volta in maniera compiuta — tralascio ogni
accenno alla cosiddetta Rivoluzione americana — in Francia nel breve volgere
di tempo che va dal 4-11 agosto 1789, quando vennero abolite le istituzioni
«feudali», al settembre 1792, quando viene proclamata la Repubblica democratica
e centralizzata, cui seguirà immediatamente l’esecuzione del re Luigi XVI
(1754-1793) di Borbone e della regina Maria Antonietta d’Asburgo (1755-1793).
La Rivoluzione italiana e il Risorgimento
Se in Francia l’avvento
della modernità politica è un fatto tutto sommato autoctono, anche se non del
tutto spontaneo, in Italia — come in altre nazioni europee — l’analogo
mutamento inizia e si afferma a opera di agenti esterni, e conosce altresì
tempi ben più lunghi — almeno una ottantina di anni, se assumiamo il 1870 come terminus ad quem — , nonostante il trend favorevole alla Rivoluzione in
tutta Europa e in Occidente in generale.
L’agente principale, il fattore
che da noi avvia in maniera irreversibile il processo, è la Francia
post-rivoluzionaria, nel suo duplice aspetto di Repubblica «giacobina» — negli
anni dal 1792 al 1799 — e di regime neo-monarchico imperiale, su entrambi i
quali domina il genio straordinario di Napoleone Bonaparte (1769-1821). E
questo «motore» che avvia e fa percorrere le prime tappe alla Rivoluzione
italiana è, nel suo decisivo esordio, una conquista militare, una conquista che
inaugura un periodo in cui la Francia dominerà strategicamente e politicamente
sulla Penisola, un periodo destinato a durare, se si considera l’esperienza
murattiana, fino oltre Lipsia e Waterloo.
So bene che sulla «questione
nazionale», ossia su come è stata ottenuta l’unità italiana e a che prezzo, vi
sono diverse opinioni e diversi orientamenti, e non mi addentrerò su questo
terreno. Mi preme unicamente, in questa sede, spostare il fuoco dell’attenzione
su questo primo momento del progetto unitario e modernizzatore, perché vi è la
tendenza a sottovalutarne l’importanza, mentre in realtà — ripeto — proprio in
questi anni vengono poste definitivamente le basi per quanto seguirà.
Prima della conquista
franco-repubblicana, nella seconda metà del Settecento, l’Italia ha già
conosciuto importanti mutamenti dell’ordine antico nell’epoca del cosiddetto
«dispotismo illuminato», a opera dei sovrani italiani, già incipientemente
«infrancesati». Ma ha conosciuto solo sporadici fermenti rivoluzionari e una
presenza di gruppi di agitatori politici autoctoni alquanto tenue. è invece
l’«evento-invasione» quello che determina la definitiva messa in moto della
Rivoluzione italiana.
Come tutte le realtà nuove,
anche la conquista militare e le prime esperienze di «Rivoluzione italiana»,
vengono accolte con tre atteggiamenti fondamentali — ciascuno dei quali
tollera, come ovvio, non poche sfumature —: l’accettazione entusiastica;
l’indifferenza spesso opportunistica; ma anche la reazione, l’opposizione e la
resistenza, con la contemporanea affermazione e rivendicazione dei valori e
delle realtà ormai al tramonto.
L’opposizione contro la
Rivoluzione italiana
Occorre ribadire con forza
che, nonostante il trionfo dei primi due atteggiamenti, anche in Italia — come
in tutti i paesi europei invasi dalla Francia rivoluzionaria: in Belgio, in
Svizzera, in Germania e in Spagna — una robusta opposizione alla Rivoluzione
francese si manifesta fin da subito. Una opposizione certo «italiana», che ha
avuto le sue caratteristiche peculiari che la differenziano, per esempio, dalla
Contro-Rivoluzione francese, una opposizione che nel corso dell’Ottocento
coincide sempre più con l’«opposizione cattolica», secondo il titolo di un
fortunato libro di Giovanni Spadolini (1925-1994). Questo movimento — se si
eccettua la resistenza militare dei principi italiani — presenta due aspetti di
fondo: un aspetto di resistenza intellettuale e un aspetto di resistenza
popolare, tanto passiva — ancora tutto da studiare —, quanto attiva e armata,
quella che chiamiamo — ma che gli stessi avversari dell’epoca chiamavano —
l’«Insorgenza». Sono due realtà compresenti, ma non comunicanti, che riflettono
e confermano la divaricazione fra cultura «colta» — quella del clero e delle
classi dirigenti civili, influenzati entrambi, anche se in maniera e in misura diverse,
dall’illuminismo — e la cultura dei ceti umili — meno permeabile invece dalle
nuove idee e «lavorata» in profondità dalle missioni cattoliche popolari —, che
si era verificata nel corso del secolo XVIII. Sotto il primo aspetto, l’Italia
non può vantare pensatori della levatura di un Joseph De Maistre o di un Louis
Ambroise de Bonald (1754-1810), anche se conosce numerose correnti ideali e
figure di livello che operano per la restaurazione spirituale e morale
degl’italiani, fra le quali primeggia il vasto e ramificato movimento delle
Amicizie Cristiane: l’anti-Risorgimento italiano, nelle sue prime mosse,
possiamo dire, è meno legittimista e più religioso. Ma, se questo va
serenamente ammesso, va pure riconosciuto che l’Italia primeggia, se non giganteggia,
sotto il profilo dell’«altra resistenza», la reazione armata dei popoli e
delle «terre» della Penisola.
L’emarginazione
della Contro-Rivoluzione dalla storia e
dall’identità italiane e le sue conseguenze
Credo di non rivelare
arcani, dicendo che le correnti ideali della Rivoluzione italiana, i
«giacobini» e i «moderati», hanno avuto il maggior successo presso gli storici
italiani, i quali ne hanno fornito doviziose e insistite narrazioni, che non
di rado — posto il legame con il «mito fondativo» dell’Italia moderna —
scivolano nella mitologizzazione e nell’oleografia. L’opposizione alla
modernità e al Risorgimento — la Contro-Rivoluzione —, viceversa, è stata
sostanzialmente ignorata dalla cultura italiana che, quando le si è accostata,
lo ha fatto più spesso per demolirla o per diffamarla o per metterla in
caricatura, che non per capirla.
Così, di fatto, purtroppo,
lo studioso — e in primo luogo chi come noi intende di riallacciarsi non
episodicamente a quella opposizione — si trova oggi in una condizione molto
simile a quella dell’archeologo. Non esagero i termini per captare la vostra
benevolenza, ma descrivo una condizione drammaticamente vera: per accertarsene
basta parlare con il prossimo, non solo con i «neo-analfabeti», ma anche con
persone la cui acculturazione è certa o istituzionalmente obbligata. Per usare una efficace metafora — che debbo all’amico
Giovanni Cantoni —, come l’archeologo, abbiamo fortuitamente trovato un
frammento fossile, diciamo un dente. Questo dente si rivela di dimensioni
inusitate, sì che è lecito ipotizzare l’esistenza di un animale, diciamo di un mammuth, proporzionalmente grande o
ancor più gigantesco. Continuando la ricerca, scavando nella terra, troviamo
altri frammenti dello scheletro dell’animale, sì che possiamo iniziare a
ricomporlo e a disegnarne un profilo approssimativo. Ecco: noi oggi possiamo
dire di avere l’immagine del soggetto — fuori di metafora: dell’Insorgenza —,
almeno nelle sue grandi linee, ma ci mancano reperti significativi per
ricostruirne la struttura e le capacità dinamiche, le abitudini, la
collocazione fra le «specie animali», e, cosa non del tutto trascurabile, le
ragioni della sua estinzione. Ma è pur vero che fino a ieri avevamo solo due o
tre «ossicini»: oggi, anche grazie al bicentenario del Triennio Giacobino
1796-1799, abbiamo un gran numero di frammenti ossei — che restano
ciononostante frammenti —, ma non siamo ancora in grado di descrivere una
morfologia accettabile dell’intero organismo. E non basta disporre di qualche
disegno dell’«animale», ricavato per induzione dal poco che esiste, per poter
concludere: «ecco il nostro mammuth è
fatto così!»
E questa omissione, questa
storia che non è stato possibile fare o che non si è voluto fare, non è senza
ricadute. Si riflette in primo luogo sul senso d’identità e di appartenenza
degl’italiani, sul loro «senso comune», inteso non solo nella prospettiva gramsciana,
ma anche in quella del migliore realismo filosofico cristiano. è una
questione non semplice, e in questa sede manca il tempo per addentrarvisi.
Quello che però si può dire è che aver costruito un’immagine dell’Italia
moderna partendo da zero e fondandosi solo su una faccia della medaglia — il
trinomio rivoluzionario e le gesta dei suoi partigiani — significa avere
ufficialmente escluso, fatte salve alcune sopravvivenze «carsiche», «dismesso»,
«rottamato», pregiudizialmente tutto quanto l’Italia aveva «capitalizzato»
nei secoli, tutto ciò che era stato acquisito o costruito in termini di
nazionalità e di senso comune di appartenenza fino al volgere del secolo XIX.
Il che significa, ancora, aver costruito un identikit
dell’italiano in parziale ma sicuro contrasto con le radici stesse della sua
cultura, in primo luogo con il cattolicesimo — che non è solo un fenomeno
religioso individuale, ma un lievito di civiltà —, ma anche con quell’insieme
di principi di diritto naturale e di senso comune, che le provenivano
dall’eredità romana, vivificata dalla cultura germanica.
L’Insorgenza italiana
Occorre però cercare di
situare un po’ più in dettaglio il frammento storico costituito dal nostro
lavoro. Se lo vediamo come un «quadretto» di storia italiana, possiamo dire
che, vista la «casa» — la Rivoluzione francese — e vista la «stanza» —
l’opposizione contro la Rivoluzione — all’interno delle quali va collocato, è
ora da descrivere la «parete» sulla quale il quadretto verrà appeso.
Non vi faccio la storia
dell’Insorgenza italiana, perché manca il tempo e qualche elemento può essere
tratto utilmente dal nostro volume. Voglio solo darvene le coordinate maggiori.
Innanzitutto quelle
cronologiche.
I movimenti di reazione
popolare contro la Rivoluzione, che avanzava sulla punta delle baionette
francesi — qualcuno dirà molto tempo dopo più o meno che «la Rivoluzione avanza
sulla bocca del fucile» —, non sono limitati al 1799, come a qualcuno può fare
comodo che si creda, ma punteggiano ininterrottamente, con maggiore o minore
intensità e durata, tutto l’arco del periodo napoleonico, fin dal primo — e
sempre più dimenticato, a partire dal primo «voltafaccia» sabaudo, quello a
favore della Rivoluzione italiana nel 1848 — scontro bellico fra il Piemonte
sabaudo e la Francia, in Sardegna e sulle Alpi Occidentali, nel 1792-1796. Ho
avuto fra mani una settimana fa i rapporti originali che il ministro di Polizia
del Regno d’Italia napoleonico — coincidente grosso modo con l’Italia centro-settentrionale —, Diego
Guicciardi (1756-1837), inviava periodicamente all’ambasciatore italiano a
Parigi, Antonio Aldini (1756-1826), o direttamente all’Imperatore e Re
d’Italia dal 1804 al 1810 circa. Ebbene, non vi è rapporto in cui non siano
menzionate sommosse, tumulti, riacutizzarsi del «brigantaggio» — termine sul
quale, come su quello di «Risorgimento» è stata combattuta una «battaglia delle
idee», vinta ancora una volta dai rivoluzionari — nei vari dipartimenti. E non
siamo più negli anni del Triennio Giacobino, in cui la Rivoluzione italiana
aveva innestato la «marcia veloce», generando la reazione più intensa, ma in un
periodo di cui gli storici evidenziano l’aspetto di «regime» a danno
dell’aspetto «movimentistico» del giacobinismo!
Si possono individuare tre
cicli nell’Insorgenza italiana. I moti popolari degli anni 1796-1798,
maggiormente «spontanei», seguiti da quelli del 1799-1800, più organizzati, e,
infine, quelli del regime napoleonico, fra il 1803 e il 1814, più sporadici ma
non meno violenti, soprattutto nel Mezzogiorno. Se poco si sa sul primo ciclo e
qualcosa sul secondo, proprio nulla si sa sul terzo.
Non ve li menzionerò né
racconterò tutti. Fra gli episodi maggiori il meno ignoto — al di là dei
giudizi dati nei suoi confronti — è di certo l’epopea della Santa Fede nel
Mezzogiorno d’Italia nel 1799. Essa è particolarmente importante ed esemplare
sotto molti aspetti: la partecipazione, i massacri, gli aspetti diplomatici,
l’organizzazione dell’esercito insorgente, il coordinamento con gli alleati.
Ma quanti sanno che in
Toscana vi è stato un moto analogo che, partendo da Arezzo, ha liberato in
pochi mesi tutto il Granducato di Toscana? Chi sa che le insorgenze cominciano
in Piemonte nei primi anni Novanta del Settecento? Chi sa che gli Stati
Pontifici s’infiammano tutti, a più riprese, partendo dalle Marche nel 1797 e
da Trastevere l’anno successivo?
Venendo rapidamente alla
«metrica», alle dimensioni che le prime ricerche lasciano intravedere, il
fenomeno dell’Insorgenza popolare è il maggior movimento di massa dell’Italia
moderna e contemporanea. Non esagero: diffusa dalle Alpi alla Calabria e dalla
Liguria alla penisola Istriana, con almeno trecentomila partecipanti e come
minimo sessantamila vittime — che equivalgono a 240.000, se rapportate alla
popolazione odierna —, con decine di migliaia di soldati stranieri e italiani
distolti dai numerosi fronti per reprimerla. Non solo, ma la guerra civile e la
guerriglia dell’Insorgenza è anche una delle pagine più sanguinose della
storia italiana: decine di rappresaglie, massacri indicibili, danni materiali
incalcolabili, infliggono al tessuto morale della nazione italiana gravi
lacerazioni, che in talune zone lasceranno segni pluridecennali.
L’Insorgenza italiana,
infine, è un fenomeno di popolo e la partecipazione delle varie componenti
della società italiana — che non lo si dimentichi è ancora una società di ceti,
di corporazioni e di comunità — è inversamente proporzionale al livello
sociale. Clero e aristocrazie italiane, già abbondantemente conquistate allo
«spirito del secolo», quando non si schierano apertamente con l’invasore, non
vi prendono parte. Chi reagisce sono invece i ceti popolari delle città, i
contadini, i montanari delle valli alpine e appenniniche, non di rado
funzionari delle amministrazioni abolite e piccole magistrature locali, qualche
frate e qualche prete di campagna.
Vorrei servirmi di una penna eccezionalmente dotata per
trasmettervi un’immagine di uno dei tipi umani che fanno l’Insorgenza: il
contadino. La penna è quella dello scrittore cattolico Riccardo Bacchelli
(1891-1985), che nell’àmbito del suo romanzo-capolavoro, Il Mulino del Po, descrive con tratti di raffinato realismo
l’assedio di Ferrara da parte dei contadini insorti durante i moti dell’estate
del 1809.
«Di paese in paese, di pieve in pieve e di crocicchio in crocicchio, da
tutte le strade, al suono delle campane a stormo, ingrossando in cammino verso
le campagne, una torma di gente venne accostandosi a Ferrara lentamente, finché
la mattina del 9 luglio, ch’era domenica, seimila uomini furon sotto le porte
sprangate in fretta e furia di San Benedetto, di San Paolo e di San Giovanni, a
ponente, mezzogiorno e levante della città stupita e spaurita […]. Contadini con forche, con falci e bastoni, pescatori colle fiocine,
armati di fucili da caccia, alcuni “insorgenti” già del ’99 che avevan tirate
fuori le carabine nascoste, formavano la strana armata: volevano vendicare il
papa, vendicarsi della carestia e del macinato […]. Parte dei primi venuti, dopo aver rubacchiato nei cascinali e sulle
aie, passata la notte all’addiaccio nei campi, se n’eran tornati a casa.
Restavano, o eran sopraggiunti […] i
risoluti: ancora in buon numero, genia di uomini rotti a una vita dura e
indipendente, come esprimeva una sentenza antica locale, che nessuno è tanto
povero che non gli avanzi per farsi ragione una spanna di coltello. Erano uomini
d’alte corporature aduste, dai visi severi e crudi, dai baffi rigogliosi; molti
poi di cera malarica, biliosa e tetra. Non erano armati lì solo d’attrezzi, ma
di fucili e pistole e picche e coltelli e ascie. Dormivano, sdraiati attorno la
chiesa sul sagrato e nel vecchi camposanto dei frati; tacevano aspettando, o
parlavano sommessamente; e avevano negli occhi coraggio e cupidigia, un
fanatismo sincero e la fame sincerissima. Se si fosse trovato qualcuno a
condurli all’assalto, quel giorno prendevano la città costernata […]».
Ma tutto questo non deve far dimenticare che l’Insorgenza
italiana è stata sconfitta. Sconfitta sul campo, nonostante il valore dei suoi
protagonisti e le numerose battaglie vinte, ma soprattutto sconfitta al momento
della pace, al momento della vittoria delle potenze coalizzate contro
Napoleone, dell’apparente trionfo delle idee contro-rivoluzionarie. Una
sconfitta ancora più bruciante, quest’ultima, perché non è solo una sconfitta nella guerra ma la sconfitta della guerra.
Le istanze degl’insorgenti, il loro attaccamento al sovrano legittimo e
all’antico regime, infatti, non troveranno udienza in tempo di Restaurazione.
Nei tormentati decenni che vanno dal 1820 al 1870 l’opposizione contro la
Rivoluzione italiana perdura su tutti i piani che ho evocato: militare,
intellettuale e, limitatamente, popolare. Sotto quest’ultimo aspetto, negli
anni successivi all’Unità vi sarà una nuova fiammata d’insorgenza vero nomine con il cosiddetto
«brigantaggio legittimista meridionale». Sarà una vampata di sanguinosa guerra
civile, scatenata dalla nuova imposizione manu
militari — «alla francese» — del nuovo ordine a popolazioni che già due
volte — nel 1799 e nel 1806-09 — avevano reagito con le armi a imposizioni simili.
La storia del brigantaggio post-unitario, divisa finora fra il livore
trionfalistico del vincitore e la riscoperta in chiave marxista, è forse
ancora da scrivere. Di certo quella dei «cafoni» calabresi non è stata solo
un’insorgenza romantica, legittimistica e anti-unitaria, né un mero moto
sociale, ma i valori in gioco allora erano gli stessi degl’insorgenti
«classici».
Poi, saranno altri, alcuni settori del movimento cattolico in primis, a portare avanti in forma
pacifica e implicita le motivazioni della resistenza popolare degli anni a
cavallo fra i due secoli, a «indossarne» i valori. Ma su questa pagina di
storia i lavori sono ancora in corso ed è difficile trarre conclusioni.
Il 1799
Tornando alla «parete»
destinata al «quadretto», occorre soffermarsi sul 1799, questo anno «magico»
per l’Insorgenza, l’anno in cui, contrariamente al trend usuale, essa vince e apre un periodo di liberazione e di restaurazione che in Lombardia durerà tredici
mesi e ancor di più altrove.
Il 1799 è infatti marcato da
una serie di eventi favorevoli all’Insorgenza. In primo luogo due fatti
concomitanti e d’importanza decisiva: Bonaparte si trova in Egitto e alla testa
delle truppe alleate è nominato il feldmaresciallo russo Aleksandr Vasil’evič
Suvorov Rimniksky (1729-1800),
autentico genio di guerra mai sconfitto sul campo. Poi, gli Alleati
anti-napoleonici scoprono il potenziale insito nelle insurrezioni popolari e
cercano d’innestarsi sulla reazione spontanea e di «cavalcarla». Ancora: desta
grande turbamento e dolore in Italia e all’estero la morte in prigionia in
Francia del Pontefice Pio VI (1775-1799). Infine, le sconfitte dell’aprile
«imbottigliano» nella cuore della Penisola, i cui mari sono completamente
controllati dalla Marina britannica, le due grosse armate francesi di stanza a
Roma e a Napoli.
Così in primavera tutta
l’Italia è in fermento o in stato di aperta insurrezione. Nella primavera del
1799 gli equilibri strategici vengono spezzati dall’impetuosa avanzata degli
austro-russi da est, con la rottura del fronte francese a Cassano d’Adda: i
francesi si ritirano verso il Piemonte, la cui capitale è trasferita a Cuneo,
mentre nei capoluoghi le guarnigioni si asserragliano nelle cittadelle. In
quei giorni scoppia in Piemonte — e altrove — un’insorgenza generalizzata.
Nell’area del Piemonte nord-occidentale rimasta sostanzialmente sguarnita, si
forma in breve la Massa Cristiana, guidata e organizzata dal maggiore Branda
de’ Lucioni (1740-1803), il quale, alla testa dei suoi venticinque ussari e
con i suoi seimila contadini, penetrerà in quest’area come un coltello nel
burro. In pochi mesi, poi, tutta l’Italia settentrionale, dalla Valtellina,
alla Lombardia, alle valli cuneesi viene liberata.
Mentre de’ Lucioni e Suvorov
liberano l’Italia settentrionale, il cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827)
riconquista Napoli al suo Re, gli aretini insorgono e creano l’«Inclita Armata»
popolare, che in breve libera tutta la Toscana; nelle Marche, nel Lazio e in
Umbria l’Insorgenza riesplode violenta, e i contadini attaccano gli eserciti
francesi di Napoli e di Roma in marcia verso il nord, «regolando» con il
potente e protervo invasore i conti accumulatisi in due anni di occupazione.
Oscar Sanguinetti
Appunti di storia
dell’Insorgenza / 13
Proponiamo una breve rievocazione della soppressione
che nel 1797 subì l’abbazia di Maguzzano nei pressi di Lonato, nella zona
gardesana del Bresciano. Ne è autore sulla base della riscoperta di un
manoscritto inedito, il dott. Luca De Pero, corrispondente dell’Istituto da
Brescia.
Un insediamento benedettino sorgeva a Maguzzano,
posta nei pressi di una strada romana, già alla fine del IX secolo. Incendiata
dagli ungari agli inizi del 900 e, dopo la prima ricostruzione, devastata
dalle truppe viscontee nel 1339, a seguito dell’unificazione con l’abbazia
di San Benedetto Po in Polirone (Mantova), nel 1490, l’abbazia fu riedi-ficata
quasi dalle fondamenta e ornata di una bella
chiesa rinascimentale e di un elegante chiostro (1491-1496). Nel
1553 ospitò il cardinale inglese Reginald Pole (1500-1558), che da qui svolse
un’intensa attività diplomatica per il ritorno della madrepatria alla
Chiesa di Roma. Dopo la soppressione, il cenobio passò in proprietà a
privati. Nel 1904 vi fecero ritorno i monaci: una comunità di cistercensi di
stretta osservanza, provenienti dalla trappa di Stauoeli nei pressi di Algeri,
i quali vi rimasero fino al 1938. Nel settembre dello stesso anno vi si
insediò don Giovanni Calabria (1873-1954) sacerdote veronese, che aveva da
poco fondato la Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza a
Verona, e tuttora appartiene a questa comunità.
Quando Napoleone soppresse l’abbazia di Maguzzano
Il 17 aprile 1797, a Leoben,
in Stiria, con la firma dei preliminari di pace tra la Repubblica Francese e
l’Impero asburgico venne sancita la fine, dopo quattordici secoli
d’indipendenza, della Repubblica di Venezia.
La Lombardia entrò nella
sfera d’influenza francese mentre il Veneto, con i territori orientali che
avevano fatto parte della Repubblica Serenissima, vennero inglobati
all’interno della compagine imperiale.
La nuova campagna d’Italia,
iniziata nella primavera del 1796, aveva procurato al giovane generale di
origine côrsa, Napoleone Bonaparte (1769-1821), una fama inattesa: in un anno
di battaglie, dall’aprile del 1796, l’Armata d’Italia non solo era riuscita a
piegare ogni resistenza della coalizione anti-francese nel nord della nostra
Penisola, ma aveva costretto l’Austria a scendere a patti, al fine di non
subire una inaspettata invasione proveniente dal periferico scacchiere
meridionale.
Numerosi accadimenti
mostrano le caratteristiche peculiari del passaggio dei francesi nel nord
Italia. Passaggio di una armata militare, passaggio fatto di colpi di mano, di
avanzate e ritirate fulminee: si pensi, ad esempio, al fatto che le popolazioni
di città come Brescia e Verona videro nell’arco della stessa giornata
l’avvicendarsi di eserciti dei diversi schieramenti, passaggio tradottosi anche
in requisizioni per il vettovagliamento della truppa.
Vi è però una nota che
contraddistingue l’affacciarsi dell’armata d’Italia nella Penisola e che ne
differenzia la presenza rispetto a quella degli eserciti imperiali.
La peculiarità sta nel
tentativo, per altro sostanzialmente riuscito, di esportare manu militari l’ideologia della rivoluzione del 1789 in Italia.
Alla luce di tale obbiettivo
si possono adeguatamente inquadrare i numerosi accadimenti che accompagnarono
l’azione militare francese nelle nostre zone e la stessa azione politica, ma
non solo politica, dei loro simpatizzanti locali.
La solerte e precisa opera
di soppressione dei numerosi sodalizi religiosi che, come la stessa comunità
monastica di Maguzzano, formavano il paesaggio delle nostre zone lombarde, non
è infatti unicamente ascrivibile a motivazioni legate a problemi, pur presenti,
di rifornimento delle armate, né è più possibile indugiare oltre nell’avvallare
quella specie di «leggenda rosa» per la quale gli occupanti francesi vengono
dipinti come dei semplici, e magari empatici, razziatori di opere d’arte.
Al contrario è utile
affermare che quella francese fu anzitutto presenza ideologica e che la guerra
da loro sostenuta in Italia, non solo nel nord della penisola, ebbe carattere
eminentemente ideologico.
Da qui le reazioni durissime
nei confronti di chi, come le popolazioni della zona gardesana e delle valli
bresciane, insorse in armi per difendere il legittimo governo Veneto; da qui le
spoliazioni sistematiche delle chiese, i divieti tesi a mortificare, se non ad
inibire del tutto, la libertà religiosa delle popolazioni sottomesse: si pensi
a tal proposito quale impatto psicologico ed esistenziale poté avere in una
società di fatto ancora sostanzialmente religiosa come era quella delle nostre
zone verso la fine del 1700 il divieto di tenere processioni o di suonare le
campane; da qui le profanazioni delle testimonianze spirituali più care alla
gente e l’uccisione indiscriminata di sacerdoti e religiosi, rei d’aver difeso
dal pulpito il proprio gregge dalle nuove idee venute da Oltralpe.
L’antica abbazia di
Maguzzano, sorta in territorio lonatese intorno al IX secolo per opera di
monaci benedettini di origine franca, venne così soppressa, dopo una plurisecolare
storia, da un decreto emanato dalle autorità militari francesi il 9 marzo del
1797, in cui si leggeva, fra l’altro: «1°.
Il Convento di S. Benedetto è soppresso;
i monaci che vi esistono, si raduneranno ciascuno nel convento del loro ordine
della Provincia, ove hanno avuto la nascita; [...] 3°. I beni che il Convento avrà nel territorio della Repubblica Cispadana o
in Lombardia [tra questi beni rientrava l’abbazia di Maguzzano] saranno confiscati a profitto della cassa
dell’armata» (1).
Qualche mese più tardi, il 4
settembre 1797, la commissione amministrativa della città di Mantova vendeva
al governo della neonata Repubblica Bresciana i fondi ed i terreni della Corte
di Maguzzano.
A loro volta le autorità
bresciane vendettero al miglior offerente, tale Paolo Tenchetta, per 95.000
lire piccole bresciane, il monastero e la chiesa di Maguzzano. L’abbazia subì
di seguito furti e distruzioni per opera dei rivoluzionari locali.
Individua bene il canonico
Antonio Racheli (1858-1917), rettore del locale liceo-convitto, in una sua
memoria storica, la genesi e la matrice di queste distruzioni: «Nel 1796 la rivoluzione scoppiò e la
Serenissima doveva sparire: il leone di San Marco aveva già dato gli ultimi
ruggiti; per prolungargli vita gli si fecero iniezioni di etere amodernizzato
con distillati di anticlericalismo: ma in quel corpo abituato alla difesa
della Religione contro il Turco non attecchirono, anzi precipitarono la
catastrofe. Un lungo palo con sopra un berretto frigio era emblema della
sospirata libertà e le genti gli ballarono pazze intorno e fra quelle ridde
vertiginose si decretò lo sterminio dei monasteri. Si sperava spazzar via la
Religione istessa voto dei filosofastri francesi; ma la religione aveva visto
altre procelle e non dimenticava il detto del Cristo: portae inferi non
prevalebunt [sic]. Del resto, ad onor del vero, bisogna dire che nulla si lasciò
intentato. [...] Aveano come tardi
nepoti bene inteso che cacciar via i Frati, monache, preti, vescovi e potendosi
anche il Pontefice sarebbe una bella maniera per riuscire alla vittoria ed
intanto cominciarono con i frati. Venne la volta anche pel convento di
Maguzzano, ed ho copie esattissime del francese decreto n.180 esteso il 4
settembre 1797. Quella frase “Nel nome del Signor Nostro G. Cristo” fa a pugni
con quello che segue; è il decreto di vendita di tutti i fondi della millenaria
Abbazia, ingiustamente, dispoticamente soppressa; ben poco ne guadagnò lo
stato, nulla i maguzzanesi, tranne che si lasciò la chiesa in stato poverissimo,
essendo troppo naturale che davanti a ladri dilapidatori i frati portassero via
gli oggetti migliori che erano di loro proprietà. Si manomise lo splendido
cenobio, si arsero i Libri, si sperperavano le pergamene, molte delle quali dai
Villici incoscienti tagliuzzate servirono per vallio a battere il frumento.
Ben poche cose si potè salvare: il resto salì impuro fumo davanti all’ara della
libertà, fraternità, uguaglianza» (2).
Ancora oggi una lapide posta
all’interno dell’abbazia ricorda al visitatore la soppressione operata nel
lontano 1797: con questo e con altri simili atti, il Direttorio di Parigi ed
il generale Bonaparte manifestarono in maniera evidente la volontà di voler esportare
la rivoluzione «sulla punta delle baionette».
Luca De Pero
Cum Petro, sub Petro
Il 15 settembre [ricorre la], memoria
liturgica della Madonna Addolorata che, il 18 settembre 1814, [...] [Papa
Pio VII] volle estendere a tutta la
Chiesa, in ricordo dei dolori da cui la Chiesa fu afflitta nell’età della Rivoluzione
francese e della dominazione napoleonica. […] Nei momenti burrascosi del pontificato, era proprio Lei, la Vergine Santa, il suo sostegno nell’incrollabile
certezza che i diritti di Dio e della Chiesa avrebbero finito per trionfare».
Giovanni Paolo II
Guardando all’indomito e perseverante servizio reso alla Chiesa da Pio
VII gli uomini affrontino con uguale ardore missionario le sfide dell’epoca moderna , messaggio di Giovanni Paolo
II alle Congregazioni Benedettine Cassinese e Sublacense per il bicentenario
dell’elezione alla Cattedra di Pietro del venerato Predecessore [Pio VII
(1800-1823), Luigi Barnaba Gregorio Chiaramonti O.S.B. (1740)], del 14-8-2000,
in L’Osservatore Romano, 8-8-2000.
2. Notizie e segnalazioni bibliografiche
2.1 Pubblicazioni dell'Istituto
A. Volumi
&
Francesco Pappalardo e Oscar Sanguinetti, Insorgenti e sanfedisti: dalla parte del popolo. Storia e ragioni delle Insorgenze anti-napoleoniche in Italia, Tekna [via della Meccanica 16, 85100], Potenza 2000, pp. 168, L. 28.000,
&
Francesco Pappalardo, Perché "briganti". La guerriglia legittimista e il brigantaggio nel Mezzogiorno d'Italia dopo l'Unità (1860-1870), Tekna [via della Meccanica 16, 85100], Potenza 2000, pp. 112, L. 25.000.
I volumi sono stati realizzati dall'Istituto in collaborazione con l'editrice potentina TEKNA per essere diffusi in particolare presso il Parco Storico Rurale e Ambientale della Basilicata ubicato nella Foresta della Grancia nei pressi del capoluogo, dove è stato ricostruito l'ambiente paesaggistico, naturalistico e storico in cui sono vissute le genti lucane nel tempo, con particolare riferimento alla pagina storica da loro scritta nell'Ottocento, al tempo della grande sollevazione anti-unitaria e legittimista del 1860-1870, passata alla storia — significativamente — come "brigantaggio post-unitario". Le gesta dei "briganti" lucani sono oggetto di una rappresentazione teatrale multi-mediale, animata da decine di attori e comparse, su testi letti da attori assai noti, che ha come palcoscenico un'area del parco naturale stesso e in cui avviene la proiezione di di immagini ingrandite e di effetti luminosi sulle rocce circostanti.
B. Articoli su periodici
.
Oscar Sanguinetti, Le insorgenze popolari controrivoluzio-narie in Lombardia nel periodo napoleonico, in Quaderni Padani. Periodico Bimestrale, anno VI, n. 29, maggio-giugno 2000 [Novara], pp. 41-47.
.
Marco Albera, Le insorgenze antigiacobine nel Torinese, in Comune di Strevi [Alessandria], Atti del Convegno "L'insorgenza di Strevi del 1799 nel quadro dei moti antifrancesi tra Sette e Ottocento in Piemonte", a cura di Gian Luigi Rapetti Bovio della Torre, Edizioni Impressioni Grafiche, Acqui Terme (Alessandria) 2000, pp. 389-393 [v. recensione del volume più oltre].
2.2 Altre pubblicazioni
&
Angela Pellicciari, L'altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, con una presentazione di don Luigi Negri, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2000, pp. 288.
È uscito per la casa editrice Piemme il libro di Angela Pellicciari L'altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata. L'autrice è già nota per avere scritto nel 1998 Risorgimento da riscrivere pubblicato dalla casa editrice Ares di Milano, che ha riscosso un notevole successo di pubblico e ha provocato un acceso dibattito. Il nuovo lavoro della Pellicciari, che si apre con una lettera di presentazione di don Luigi Negri, si presenta come un contributo alla ricerca della verità nascosta o seppellita sotto l'icona ideologica del mito del Risorgimento Italiano. L'autrice lo fa con una vis polemica e spesso ironica, ma sempre opportuna e puntuale perché, raccontando fatti noti e spesso non noti, riesce a mettere con le spalle al muro le falsità, le reticenze e le manipolazioni della storiografia liberale, sia laica che cattolica, che è in pratica, insieme a quella marxista, l'unica versione "riconosciuta e accettata". L'opera abbraccia il periodo che va dal 1796, anno dell'invasione francese dell'Italia, alla proclamazione del Regno d'Italia nel 1861, e non si divide nella classica ripartizione in capitoli, ma in ottanta agili e brevi schede in sequenza logica e cronologica, precedute da una introduzione e seguite da un epilogo. Purtroppo il testo manca di note e di bibliografia, elementi che avrebbero contribuito a rendere più completo e ricco il testo. Le schede toccano tutti gli episodi chiave del Risorgimento gettando nuova luce, anche interpretativa, sui fatti più noti, ma tocca anche i meno noti ma altrettanto di rilievo, come i congressi scientifici, della cui importanza ha trattato praticamente solo l'autore cattolico ottocentesco Paolo Mencacci nelle sue Memorie documentate per servire alla storia della Rivolu-zione Italiana [leggibili in una versione aggiornata nello stile, ma integrale nel testo, in Internet all'indirizzo http://utenti.tripod.it/armeria/; ndr]. Molte altre schede sono dedicate ai protagonisti e fra le più incisive si segnalano quelle dedicate a Massimo d'Azeglio (1798-1866), Giuseppe Mazzini (1805-1872) e Vincenzo Gioberti (1801-1852) oltre al più temuto avversario politico di Cavour in parlamento, il deputato della destra Ottavio Thaon di Revel (1803-1868).
Il filo conduttore è la dimostrazione di come il Risorgimento non sia che un episodio, ma dei più significativi, del processo rivoluzionario teso a distruggere la religione e l'universalismo cattolico per soppiantarlo con un potere internazionale di tipo nuovo radicalmente anticattolico. Questo era lo scopo dichiarato della massoneria alla quale erano affiliati i maggiori protagonisti della rivoluzione risorgimentale. L'importanza del Risorgimento è che si inserisce nella battaglia del pensiero "illuminato" che scatena una guerra di religione di portata mondiale perché condotta al cuore della cristianità, Roma e l'Italia patria d'elezione del cattolicesimo. Il libro, che inizia con la domanda: qual è la verità?, si conclude invitando a cercarla nelle decine di encicliche e documenti con i quali Pio IX (1846-1878) prima e Leone XIII (1878-1903) poi spiegano dettagliatamente le ragioni della lotta della Chiesa contro il liberalismo e il settarismo massonico. La Civiltà Cattolica scriveva nel 1892: "Esse agognano lo sperperamento e il taglio di ogni vincolo più sacro, che lega l'uomo con l'uomo, nella Chiesa, nella società, nella famiglia, per ricostruire l'umanità sotto una nuova forma di totale servaggio, in cui lo Stato sia tutto, e i capi della setta sieno lo Stato". Dopo quanto è successo in questo secolo è evidente come Papa Pio IX, sconfitto nella storia, sia stato profetico.
[Renato Cirelli]
&
Vito Cicale e fra Giacomo Verrengia O.F.M. Conv., Il catechismo reale di mons. Pietro de Felice e la grande insorgenza del 1799, Controcorrente, Napoli 2000, pp. 128.
Continua il ciclo di ricerche che Vito Cicale, cultore di storia aurunca e del periodo napoleonico, e fra Giacomo Verrengia, autore di numerose opere di sussidio all'evangelizzazione, hanno intrapreso ormai da diversi anni intorno al movimento culturale contro la Rivoluzione francese manifestatosi nel Regno borbonico durante l'epoca napoleonica. Dopo gli studi sulla figura dell'abate Mattia De Paoli da Cellole (1770-1832) — su cui abbiamo già riferito in passato —, è ora la volta di mons. Pietro De Felice (1737-1814), vescovo di Sessa Aurunca (Caserta) dal 1798 alla morte. Esponente delle correnti teologiche anti-gianseniste, egli si trova dunque a svolgere il suo ministero di pastore nel pieno della bufera napoleonica. Acuto giudice della rapace politica francese in Italia, intuisce che la Rivoluzione italiana avanzava non solo grazie alle baionette francesi, ma veniva preparata e accompagnata da una vasta — anche se relativamente utopistica — infiltrazione di idee eversive nella popolazione, in particolare nei nuclei più sensibili al richiamo del nuovo, ovvero nel ceto intellettuale, coincidente a quell'epoca in larga parte con le professioni liberali e con il clero. Prima e dopo l'arrivo dei francesi la Penisola e Napoli pullulano letteralmente di un genere di opere smaccatamente copiato dal cattolicesimo — per la forma semplificata e largamente familiare al popolo —, ossia di catechismi, di volta in volta "illuministi", "rivoluzionari", "repubblicani", "democratici", ecc. Di qui nasce la sua iniziativa — che sarà anche di altri presuli — di scendere sul terreno del nemico pubblicando, il 12 ottobre 1799, un "contro-catechismo" o un "catechismo contro-rivoluzionario" a uso del suo popolo, perché attraversasse senza smarrirsi un periodo di grande sbandamento ideale e ricco di eventi a loro volta disorientanti.
La zona del Casertano fu particolarmente devastata dall'occupazione napoleonica, a due riprese nel 1799 e poi ancora nel 1806-1809: della prima fase il volume fornisce un dettaglio estremamente preciso, arrivando a elencare uno per uno gli oggetti artistici e di culto trafugati o espropriati dai francesi. La Repubblica Napoletana del 1799 diviene poi un elemento di forte incremento della penetrazione "giacobina" nella Chiesa locale, in cui si creano come di consueto tre schieramenti, due minoranze opposte, una rivoluzionaria e una contro-rivoluzionaria, e un "centro" attendista e inespressivo di alcuna posizione. Il 1799, dopo la riconquista sanfedista, vede la temporanea restaurazione del re legittimo, ma la società meridionale è ancora travagliata in profondità dall'esperienza repubblicana e dalla guerra civile. Al disordine creatosi nella compagine ecclesiastica della sua diocesi mons. De Felice cerca di porre freno con una Bolla indirizzata al clero nel luglio 1800 — che il volume di Cicale e Verrengia riporta in appendice — , in cui s'invitavano, fra l'altro, i consacrati a fare almeno una volta l'anno gli esercizi spirituali e a una vita più austera. Al ritorno dei francesi mons. De Felice, per la sua lealtà al re e per le sue posizioni apertamente contro-rivoluzionarie, nel 1807 viene processato e inviato in esilio ad Assisi, in territorio temporaneamente pontificio.
Il Catechismo Reale, ossia istruzione ove per via di domande e risposte si propongono i dritti de' re e gli obblighi de' sudditi, per uso della diocesi di Sessa (In Napoli 1799) — che mons. De Felice afferma di scrivere per "[…] dissipar in tutto le prave intenzioni di coloro che hanno macchinato finora d'introdurre nel nostro regno la zizzania dell'errore, della libertà, dell'indipendenza e della irreligione" (cit. in Luciano Guerci, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell'Italia in Rivoluzione (1796-1799), il Mulino, Bologna 1999, p. 105) — non è solo un catechismo religioso ma politico-religioso, cui preme soprattutto controbattere le idee di sovranità popolare e di volontà generale su cui si basavano le prime esperienze repubblicane in Italia e altrove. Il catechismo — che il volume ripropone in appendice in anastatica — si divide in due parti: Dei diritti dei Re (suddivisa in: Del principio e origine de' Re, Dei vari nomi che hanno i Re nella Scrittura, Dei vari uffizi dei Sovrani, Della potestà governativa, legislativa e coercitiva dei Sovrani, Della protezione che i Sovrani hanno della Chiesa) e Degli obblighi dei sudditi verso il sovrano (ripartito in: Dell'onore e rispetto che i sudditi debbono al sovrano, Dell'ubbidienza che i sudditi debbono al Sovrano, Della fedeltà che debbono i sudditi al Sovrano, Dei tributi che i sudditi debbono al loro sovrano, Dell'obbligo che hanno i sudditi di fare orazioni pel loro Sovrano). Il suo bersaglio più appropriato è il Catechismo Repubblicano per l'istruzione del popolo e la rovina dei tiranni, che era stato pubblicato — difficilmente anche composto — dal vescovo democratico di Vico Equense (Napoli) mons. Michele Natale, che salì il patibolo il 20 agosto 1799. Lo stesso vescovo scriverà in nota al suo Catechismo "A bella posta si è intitolato Catechismo Reale per antitesi al Catechismo Republicano dato alle stampe in tempo della disfatta sedicente Republica" (p. 4; p. 82).
Lavoro significativo che va segnalato, sia perché riscopre una "piega" di un filone poco esplorato, quello dell'opposizione e della resistenza culturali alla Rivoluzione in Italia, sia perché privilegia esemplarmente il documento e la sua interpretazione rispetto alla più facile vis polemica.
[OS]
&
Comune di Strevi [Alessandria], Atti del Convegno "L'insorgenza di Strevi del 1799 nel quadro dei moti antifrancesi tra Sette e Ottocento in Piemonte", a cura di Gian Luigi Rapetti Bovio della Torre, Edizioni Impressioni Grafiche [viale Piave 22, 15011 Acqui Terme (Alessandria), tel. 0144/56.660], Acqui Terme (Alessandria) 2000, pp. 400.
Nel settembre dello scorso anno in un piccolo borgo dell'Acquese, Strevi, un gruppo di studiosi e di cittadini si riuniva per celebrare un evento del tutto sconosciuto al grande pubblico. Duecento anni prima, quando il Piemonte era occupato dalle truppe francesi della Repubblica, il villaggio aveva subito il saccheggio ed era stato in parte incendiato dagli occupanti per essersi ribellato al dominatore. Il saccheggio e l'incendio costituivano la rappresaglia che, a norma di leggi di guerra, l'occupante attuava per avere subìto l'attacco di truppe irregolari o, come si sarebbe detto in seguito, partigiane. Si trattava di un episodio tutto sommato marginale rispetto alle grandi stragi operate dalle truppe di repressione francesi contro i contadini insorti a Mondovì, ad Asti, a Carmagnola, ma ugualmente tragico e significativo. Al saccheggio era seguita la fucilazione di alcuni presunti capi della rivolta fra cui il medico, molto noto localmente, Fabrizio Porta (1745-1799). Fatto singolare: qui la memoria di quell'evento lontano — uno fra le centinaia di quel periodo — non si era persa, anzi la ricorrenza era stata ricordata e in anticipo erano fioriti studi e ricerche sul fatto e sul periodo napoleonico in generale, di cui veniva dato conto nel convegno del 4 settembre 1999 promosso dell'amministrazione comunale. Lo stesso giorno — fatto ancora più singolare —, ad iniziativa della stessa amministrazione, veniva scoperta una lapide a memoria dell'episodio del 1799 e a ricordo del medico ucciso dai francesi.
A distanza di un anno escono ora gli atti di quel convegno, che ha visto raccolti intorno al tavolo dei lavori i migliori esperti di storia locale e di storia del periodo napoleonico in Piemonte; anche l'Istituto per la Storia delle Insorgenze era presente nella persona del suo presidente.
Il volume contiene le sette relazioni svolte al convegno, più due interventi inseriti in seguito. Esse toccano un po' tutti gli aspetti dell'Insorgenza nell'Acquese e nell'Alessandrino: il panorama spazia da Strevi — è l'intervento del prof. Rapetti Bovio della Torre L'insorgenza di Strevi nel 1799: nel nome del Re o di Marat? (pp. 7-44) —, all'Alessandrino — nel lungo saggio del prof. Carlo Prosperi Ai margini dell'insorgenza strevese del 1799 (pp. 45-266) —, alla Val Bormida — con il pregevole intervento del prof. Lionello Oliveri Il 1799 in Val Bormida: gli anni della fame e della morte (pp- 267-282) —, al Biellese, Novarese e Vercellese — con il contributo del noto studioso di storia e di folklore piemontesi Gustavo Buratti Le insorgenze nel Biellese, Vercellese e Novarese nel triennio 1797-1799 (pp. 283-298) —, al Monregalese — col dettagliato racconto del prof. Giuseppe Griseri L'insurrezione di Mondovì contro i Francesi (1799) (pp. 299-336), al Torinese — con l'articolo di Marco Albera, dell'Istituto per la Storia delle Insorgenze di Torino, Le insorgenze antigiacobine nel Torinese (pp. 389-393), infine, alla Val Borbera — con l'altro articolo di Marco Leale su La Val Borbera nella tempesta: gli anni 1796-1799 (pp. 394-398). Completano l'ampio quadro i saggi di Gustavo Mola di Nomaglio "Chiunque griderà viva il re sarà punito di morte" (pp. 337-374) —, che ha svolto un vasto excursus comparativo fra i manifesti giacobini e realisti dell'epoca — e del prof. Piero Cazzola su Le lettere del Maresciallo Suvorov dalla Campagna d'Italia del 1799 (pp. 375-388). L'insieme dei testi appare pregevole per più di una ragione. In primis per la novità costituita dal portare alla luce realtà pressoché sepolte nell'oblio e per aver ridato lustro a personaggi e a vicende che meriterebbero uno spazio senz'altro meno esiguo nel pantheon storico nazionale. Poi, per la esemplarità delle ricerche di archivio svolte da non pochi dei congressisti, fra cui mi piace segnalare — senza peraltro far torto agli altri studiosi — i saggi del prof. Rapetti, del prof. Prosperi e del prof. Oliveri. Quest'ultimo, in particolare, costituisce un primo esempio di storia costruita sulla base di dati statistici di fonte militare francese — reperiti e "fatti parlare", fra le altre cose, a costo di una "spedizione" parigina —, che ci restituisce un quadro finalmente esauriente delle condizioni di vita della gente in una determinata area del paese negli anni di Napoleone: uno sforzo che andrebbe esteso alle altre province italiane per poter finalmente arrivare a dire a ragion veduta: "L'Insorgenza in Italia è costata….". Per inciso, una spedizione come quella menzionata — come pure quella simmetrica verso gli archivi civili e militari di Vienna — si rivela sempre più inevitabile se si vuole giungere a qualche grado di certezza riguardo all'Insorgenza e al periodo napoleonico in generale. Auspichiamo altresì che questo tipo di approccio alla rievocazione e alla celebrazione — così diverso da tanti esempi "gridati" — continui e si moltiplichi anche a bicentenario del Triennio terminato.
[OS]
&
Comune di Guardiagrele (Chieti)-Assessorato alla Cultura, 25 febbraio 1799-25 febbraio 1999. Alla memoria dei 500 cittadini che, combattendo per la patria, con la patria caddero il 25 febbraio 1799 [...], a cura di Vincenzo Caramanico, Grafiche Di Prinzio, Guardiagrele (Chieti) 1999, pp. 28.
Il sottotitolo completo di questo albo suona così: Alla memoria dei 500 cittadini che, combattendo per la patria, con la patria caddero il 25 febbraio 1799. Sia gloria ai 500 caduti con la patria, mentre è d'onore ai cittadini il rispetto delle leggi. "Si chiudano le porte": chiusero le porte con massi. "Gli uomini prendano le armi": gli uomini presero le armi. Combatterono sotto le mura. La città, presa con l'inganno, bruciò, coloro che chiusero la fuga non temettero la morte. Si tratta della traduzione dell'epigrafe latina che sovrasta la lapide — eretta nel 1899, in occasione del centenario — che elenca i nomi di cinquecento caduti dell'insorgenza di Guardiagrele. Il fascicolo commemorativo, edito nel secondo centenario dei fatti per iniziativa dell'Assessorato alla Cultura del comune chietino, ne riproduce l'immagine e contiene, oltre a numerose tavole esplicative, estratti di un diario scritto intorno al 1847 da un certo D. De Chiara, Guardiagrele espugnata dai Francesi nel 1799, in cui si narrano gli avvenimenti principali del massacro e del saccheggio della cittadina posta alle falde del massiccio della Maiella, una pagina di storia che nessuno conosce, ma che per le sue dimensioni e per la tragicità del suo esito ultimo è del tutto confrontabile con episodi, simili, ben più noti e celebrati, della guerra civile degli anni 1943-1945. Guidati dal capo-massa — le masse erano formazioni popolari reclutate nelle varie provincie del Regno in situazioni di emergenza in base a bandi reali e organizzate in forma di milizia territoriale — Giuseppe Ferrari, i cittadini di Guardiagrele e di alcune delle "terre" circonvicine si posero sotto il comando del marchese Giuseppe Pronio (1760-1804) e parteciparono alle operazioni anti-francesi nella loro provincia. Ebbero la ventura di catturare un commissario francese Charles-Louis Pecul e, in assenza dei capi, decisero di fucilarlo il 17 febbraio 1799. La vendetta del generale francese Coutard non tardò però a scatenarsi. Occupata Orsogna, paese tradizionalmente nemico di Guardiagrele, Coutard, con 1.600 uomini e con l'appoggio di circa cinquemila uomini delle improvvisate milizie orsognesi e lancianesi, accompagnate da sacerdoti filo-repubblicani, il 25 febbraio attaccava Guardiagrele, dove le masse filo-realiste, rinforzate da cittadini di altre comuni anti-francesi, si erano asserragliate. I maggiorenti, volendo evitare l'assalto, erano disposti a offrire ai francesi una forte somma di denaro. Ma le masse si opposero. Coutard esitava ad attaccare, anche perché era giunta notizia che il grosso delle masse insorgenti avanzava da sud. Ma, indotto da giacobini locali, alla fine diede l'ordine all'artiglieria di aprire il fuoco contro le mura di Guardiagrele e sferrò l'attacco. La difesa degl'insorgenti, fra cui si trovavano non pochi soldati del disciolto esercito borbonico — come "[...] Angelomaria Panaccio, soprannominato del Romano, stato militare di cavalleria, e ritiratosi in patria dietro l'ultima disfatta dei Napoletani" e come il sergente di artiglieria Ricotta —, fu accanita ed eroica. Verso le 15 però i granatieri francesi, riuscirono a scalare le mura e a irrompere in città, aprendo le porte alla cavalleria. Il saccheggio che ne seguì, si trasformò in una carneficina che non risparmiò vecchi e fanciulli, sa-cerdoti e religiosi, e i sacrilegi compiuti dai francesi non si contarono. I morti del 25 febbraio 1799 furono contati in 301, oltre duecento furono i feriti molti dei quali deceduti nei giorni seguenti. Al saccheggio francese seguì quello dei nemici di sempre, gli orsognesi, che fecero anch'essi diverse vittime: alcuni dei loro capi commisero tali atrocità che il 26 i francesi di Coutard fucilarono sei di loro. Intorno alle 18, al tramonto, i francesi lasciarono le mura di Guardiagrele per paura di esservi intrappolati durante la notte dalle truppe di Pronio e appiccando nel contempo il fuoco alle case del borgo. I caduti francesi sarebbero stati circa 180 e circa 150 le vittime fra le milizie filo-repubblicane. Solo il 27 i cittadini fuggiti davanti all'incendio poterono far ritorno al paese e cercare di salvare il salvabile: ma di Guardiagrele non restava altro che un mucchio di cenere e di rovine. è giusto — c'è da chiedersi — che un avvenimento di una simile portata, che peraltro è solo uno degl'innumerevoli episodi simili della guerra fra italiani e franco-repubblicani nell'Italia centrale nel 1798-1799, non faccia in alcun modo parte, al di là dei giudizi di valore, non dico diventi oggetto di commosso ricordo, ma sia completamente assente dalla biografia storica del nostro paese?
[OS]
2.3 Echi di stampa sull'Insorgenza
Nei mesi trascorsi l'Insorgenza è approdata sulla stampa in diverse occasioni: di seguito diamo un elenco dei principali interventi — sia in positivo che in negativo — sul tema; non sono incluse le pure cronache di avvenimenti.
— Il volume Marco Albera, e Oscar Sanguinetti, Il maggiore Branda de' Lucioni e la "Massa Cristiana". Aspetti e figure dell'insorgenza anti-giacobina e della liberazione del Piemonte nel 1799, Libreria Piemontese Editrice, edito a cura dell'ISIN, è stato recensito su
~
la Padania del 28-5-2000 (Gilberto Oneto),
~
Studi Piemontesi, organo del Centro Studi Piemontesi di Torino, vol. XXIX, n. 1, marzo 2000, p. 262 (Piero Cazzola),
~
Avvenire, del 6-8-2000 (Marco Invernizzi).
2.4 Altre notizie
— Si segnala la laurea a pieni voti presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano di un giovane amico dell'Istituto, Giuseppe Bonvegna, il quale ha discusso una tesi dal titolo Emiliano Avogadro della Motta. Il pensiero filosofico-politico e la critica al socialismo, relatore il professor Evandro Botto. Si tratta di un ampio studio — uno dei pochi disponibili —, in cui l'autore ha svolto un aggiornamento e una messa a fuoco del pensiero e della importante figura di Emiliano Avogadro della Motta (1798-1866), filosofo cattolico contro-rivoluzionario e uomo politico del Piemonte pre-unitario.
— è d'imminente pubblicazione un'opera del professor Virgilio Ilàri, docente di Storia delle Istituzioni Militari presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dal titolo Storia militare dell'Italia giacobina. Dall'armistizio di Cherasco alla Pace di Amiens (1792-1802) [Stato Maggiore dell'Esercito. Ufficio Storico, Roma 2000-2001], che in due volumi — di oltre mille pagine in totale — descrive le vicende geo-politiche e politico-militari della Penisola dall'inizio della Guerra franco-piemontese detta "delle Alpi" (1792-1796), alla Pace di Amiens, con cui nel 1802, dopo Marengo, viene sancita la riconquista della egemonia francese sull'Italia e chiusa la parentesi della prima restaurazione del 1799-1800. Ampio spazio è dedicato all'Insorgenza, il cui studio viene affrontato con criteri innovativi e sulla scorta di una nutrita documentazione.
3. Attività dell'Istituto
3.1 Manifestazioni maggio-ottobre 2000
E
Servigliano, 27 maggio 2000, nell'ambito della II Giornata Storica di Castel Clementino, organizzata dal Comitato Amici di Castelclementino, Comune di Servigliano (Ascoli Piceno), Pro Loco, Associazione Carabinieri in Congedo, Circolo Culturale Polivalente, Associazione Nazionale Combattenti, presso il Teatro Comunale, convegno dal titolo: Protagonisti dell'Insorgenza marchigiana. Relatori: Sandro Petrucci, delegato dell'Istituto per le Marche: Giuseppe Cellini da Ripatransone, Marco Sermarini: Giuseppe Costantini detto "Sciabolone"; Enzo Calcaterra: Giuseppe da Lahoz (sic); Carlo Tomassini: Clemente Navarra. Moderatore: Adolfo Leoni.
E
Arezzo, 3 giugno 2000, ore 9,30-17, presso l'Aula Magna del Seminario Diocesano, convegno di studi "A duecento anni dalla liberazione della Toscana e dalla istituzione della Provincia di Arezzo. "DIGITUS DEI EST HIC". Il Viva Maria di Arezzo: aspetti religiosi, politici e militari (1799-1800)", promosso dall'Istituto per la Storia delle Insorgenze, in collaborazione con Alleanza Cattolica e con la rivista Cristianità. Con il patrocinio del Comune di Arezzo e della Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro. Relatori: Fabio Giannini (Alleanza Cattolica di Arezzo), Edoardo Bressan (Università Statale di Milano), Oscar Sanguinetti (ISIN), Virgilio Ilàri (Università Cattolica), Paolo Pastori (Università di Camerino), Marco Invernizzi (presidente dell'ISIN), don Antonio Bacci, Santino Gallorini, Anna Maria Rosadori Andiloro, Giulio Maria Guerra, Sandro Petrucci (ISIN). Echi ex prae: SIR, Servizio Informazione Religiosa, n. 39 (941), venerdì 26-5-2000; la Padania, 2-6-2000; Secolo d'Italia, 3-6-2000. Echi ex post: SIR, Servizio Informazione Religiosa, n. 46 (948), mercoledì 21-6-2000.
E
Pecetto Torinese (Torino), 27 giugno 2000, presso il Salone della Villa S. Cuore, nel quadro di Di qua e di là dai monti. Incontri collinari su luoghi e avvenimenti e personaggi degli antichi Stati sabaudi, promosso dal Circolo Reale Principe Eugenio di Pecetto e della Collina Torinese, conferenza di Marco Albera, delegato dell'Istituto per il Piemonte, Branda de' Lucioni e la Massa Cristiana.
E
Acqui Terme (Alessandria), 15 ottobre 2000, nel quadro di "Aspettando l'Acqui Storia". Appuntamenti Culturali del Premio Acqui Storia 2000, organizzato dall'Assessorato alla Cultura della Città di Acqui Terme, presso la sala d'onore di Palazzo Robellini, è stato presentato il volume Atti del Convegno "L'insorgenza di Strevi del 1799 nel quadro dei moti antifrancesi tra Sette e Ottocento in Piemonte", a cura di Gian Luigi Rapetti Bovio della Torre, edito dal Comune di Strevi (Alessandria). La presentazione è stata affidata all'Istituto per la Storia delle Insorgenze: hanno tenuto interventi il dott. Oscar Sanguinetti, coordinatore scientifico, e il dott. Marco Albera, responsabile della delegazione piemontese, il quale è pure presente nel volume con un saggio dal titolo Le insorgenze antigiacobine nel Torinese (pp. 389-393).
Libri e articoli ricevuti
L'Istituto non esprime alcuna valutazione sulle opere ricevute, né le segnala o le propone, mentre si riserva, se del caso, di farne recensione in seguito. Chi fosse interessato ad acquistare una o più delle opere elencate, è pregato di non rivolgersi all'Istituto, ma direttamente all'editore o all'autore.
Antonio Caiazza, Giuseppe Tardio. Brigantaggio politico nel periodo postunitario in provincia di Salerno, con una prefazione di Franco Molfese, Tempi Moderni Edizioni, Napoli 1986, pp. 354.
Giovanni de Matteo, Brigantaggio e Risorgimento. Legittimisti e briganti tra i Borbone e i Savoia, con una presentazione di Giuseppe Talamo, Guida, Napoli 2000, pp. 384.
Pietro Galletto, Fine e rinascita della Repubblica di San Marco (1797-1848), Giovanni Battagin Editore, San Zenone degli Ezzelini (Treviso) 1997, pp. 160.
Domenico de Nardis, Francesco Saverio de Nardis, e Bruno Lima, 1799: una questione di illegittimità internazionale. Fondamenti giuridici e morali dell'insorgenza aquilana, il Cinabro, Catania 2000, pp. 304.
Antonio Nicoletta, …E furono detti briganti. Antologia di letture e lettere, con una prefazione di Silvio Vitale, Emanuele Romeo Editore, Siracusa 1999, pp. 224, con ill..
Patrick Keyes O' Clery, La Rivoluzione italiana. Come fu fatta l'unità della nazione, Ares, Milano 2000, pp. 780.
Santi o briganti? L'Insorgenza del 1799 nelle Marche, a cura di Marco Sermarini e Maria Rosaria Danza, da una ricerca di M. Sermarini e Adolfo Leoni, Compagnia dei Tipi Loschi del beato Piergiorgio Frassati-Edizioni Vivere!, San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno) 2000, pp. 42, con ill. [opuscolo introduttivo alla omonima mostra itinerante].
La rivolta dei Vivamaria. Atti della giornata di studio del 6 settembre 1997 nella ricorrenza del 2° centenario, Associazione Culturale "Colombo Fontanabuona 2000"-Edizioni "Tigullio Bacherontius", [tel. 0185/286167, via Belvedere 5, 16038] Santa Margherita Ligure (Genova) 2000, pp. 116, con foto.
Francesco Mario Agnoli, don Roberto Battaglia, Adolfo Morganti, e Sandro Petrucci, Il popolo e le libertà. L'insorgenza antigiacobina di Tavoleto (31 marzo 1797), Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 2000, pp. 114.
Edoardo Spagnuolo, La rivolta di Montefalcione. Storia di un'insurrezione popolare durante l'occupazione piemontese, Edizioni Nazione Napoletana, Napoli 1997, pp. 160.
Selezione libraria
I volumi e le audiocassette di seguito segnalati possono essere ordinati alla sede dell'Istituto, che provvederà a spedirli contrassegno al prezzo di copertina (più spese postali ordinarie) fino a diisponibilità.
Volumi editi a cura dell'Istituto
Francesco Pappalardo e Oscar Sanguinetti, Insorgenti e sanfedisti: dalla parte del popolo. Storia e ragioni delle Insorgenze anti-napoleoniche in Italia, Tekna [via della Meccanica 16, 85100], Potenza 2000, pp. 168, L. 28.000.
Francesco Pappalardo, Perché "briganti". La guerriglia legittimista e il brigantaggio nel Mezzogiorno d'Italia dopo l'Unità (1860-1870), Tekna [via della Meccanica 16, 85100], Potenza 2000, pp. 112, L. 25.000.
Marco Albera e Oscar Sanguinetti, Il maggiore Branda de' Lucioni e la "Massa Cristiana". Aspetti e figure dell'insorgenza anti-giacobina e della liberazione del Piemonte nel 1799, con una prefazione di Mauro Ronco, Libreria Piemontese Editrice [via S. Secondo 11, 10128], Torino 1999, pp. 144, con ill., L. 26.000.
Istituto per la Storia delle Insorgenze, Guida Bibliografica dell'Insorgenza in Lombardia (1796-1814), a cura di Chiara Barbesino, Paolo Martinucci e O. Sanguinetti, Istituto per la Storia delle Insorgenze, Milano 1999, pp. 206, L. 36.000.
Alfonso Lazzari, La sommossa e il sacco di Lugo. Episodio dell'invasione francese nelle Romagne (1796), rist. anast., con una prefazione di Francesco Mario Agnoli, a cura di Oscar Sanguinetti, EDIT, Faenza (Ravenna) 1996, pp. 336, L. 32.000.
Giacomo Lumbroso, I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800), con un saggio introduttivo di O. Sanguinetti, Maurizio Minchella editore, Milano 1997, pp. 224, L. 32.000.
Oscar Sanguinetti, Le insorgenze contro rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica. 1796, con una prefazione di Marco Tangheroni, Cristianità, Piacenza 1996, pp. 224, L. 20.000.
Altre opere
A. Opere generali
Francesco Mario Àgnoli, Guida introduttiva alle insorgenze contro-rivoluzionarie in Italia durante il dominio napoleonico (1796-1815), con una prefazione di Marco Invernizzi, Mimeo-Docete, Pessano (Milano) 1996, L. 15.000.
Francesco Mario Àgnoli, Rivoluzione, scristianizzazione, insorgenze. Quattro saggi, con una prefazione di Marco Tangheroni, Krinon, Caltanissetta 1991, L. 12.000.
Jacques Godechot, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), trad. it., Mursia, Milano 1988, L. 30.000.
Massimo Viglione, La Vandea italiana. Le insorgenze controrivoluzionarie dalle origini al 1814, Effedieffe, Milano 1995, L. 25.000.
Massimo Viglione, Rivolte dimenticate. Le insorgenze degli italiani dalle origini al 1815, Città Nuova, Roma 1999, L. 38.000.
Massimo Viglione, Le insorgenze. Rivoluzione & controrivoluzione in Italia. 1792-1815, Città Nuova, Roma 1999, L. 32.000.
B. Rivoluzione francese
Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, con una prefazione di Giovanni Cantoni, trad. it., Effedieffe, Milano 1991, L. 25.000.
Frédéric Bluche, Stephane Rials e J. Tulard, La Rivoluzione francese, 2a ed., trad. it., Tascabili Newton, Roma 1994, L. 1.500.
Pierre Gaxotte, La Rivoluzione Francese, trad. it., Oscar Storia, Mondadori, Milano 1989, L. 19.000.
C. Insorgenza vandeana
Reynald Secher, Il genocidio vandeano, prefazione di Jean Meyer, presentazione di Pierre Chaunu, trad. it., 2a ed. riv., Effedieffe, Milano 1988, L. 36.000.
Alain Besançon, Pierre Chaunu, Roger Dupuy, Jean Tulard, Jean de Viguerie, J. Meyer, Emmanuel Le Roy Ladurie, et Alii, La Vandea, trad. it., Corbaccio, Milano 1995, L. 39.000.
D. Insorgenze del periodo napoleonico
Francesco Mario Àgnoli, Gli Insorgenti [romanzo], il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 1993, L. 38.000.
Francesco Mario Àgnoli, Andreas Hofer, eroe cristiano, RES editrice, Milano 1979, L. 8.000.
Fabrizio Galvagni, Col fuoco e col saccheggio sottomessa. 1797: fatti e testimonianze dell'insorgenza della Vallesabbia e della riviera del Garda, con ill. orig., I quaderni della Compagnia delle Pive, n. 3, 1997, L. 18.000.
Francesco Pappalardo, 1799: Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nel Regno di Napoli, Istituto per la Storia delle Insorgenze, Milano 1999 (pro manuscripto), L. 6.000.
Domenico Petromasi, Alla riconquista del regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, introduzione di Silvio Vitale, Editoriale il Giglio, Napoli 1994, L. 18.000.
Sandro Petrucci, Insorgenti Marchigiani. Il trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, con una prefazione di Marco Tangheroni, SICO, Macerata 1996, L. 28.000.
Giovanni Ruffo, Il cardinale rosso, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1999, L. 30.000.
E. Risorgimento
Francesco Mario Àgnoli, La conquista del Sud e il generale spagnolo José Borges, Di Giovanni, Milano 1994, L. 20.000.
Carlo Alianello, La conquista del Sud. Il Risorgimento nell'Italia Meridionale, 2a ed., Rusconi Libri, Milano 1994, L. 13.000.
Renato Cirelli, La Questione Romana. Il compimento dell'unificazione che ha diviso l'Italia, con una prefazione di Marco Invernizzi, Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1997, L. 15.000.
Patrick Keyes O' Clery, La Rivoluzione italiana. Come fu fatta l'unità della nazione, con una presentazione di Alberto Leoni, trad. it., Ares, Milano 2000, L. 48.000
Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa, una prefazione di Rocco Buttiglione e una postfazione di Franco Cardini, Ares, Milano 1998, L. 38.000.
Audiocassette
1796-1996. Triennio Giacobino, dominazione napoleonica e insorgenze popolari in Italia dagli "albori" alla riscoperta dell'identità nazionale (Milano, 12-5-1996); 4 audiocassette; L. 28.000.
Una Vandea lombarda: le valli bergamasche e bresciane a duecento anni dall'Insorgenza antigiacobina (Desenzano del Garda, 6-4-1997); 3 audiocassette; L. 21.000.
Le insorgenze anti-giacobine, il problema dell'identità nazionale e la "morte della patria". Spunti per una rinascita della "nazione spontanea" (Milano, 26-10-1997); 4 audiocassette; L. 28.000.
1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina. Fra modernizzazione politica e rivendicazione dell'identità (Milano, 27-3-1999); 2 audiocassette; L. 20.000.