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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 22 giugno 2013


RECENSIONI



FRIEDRICH VON GENTZ, L’origine e i princìpi della Rivoluzione Americana a confronto con l’origine e i princìpi della Rivoluzione Francese, traduzione, introduzione e cura di Omar Ebrahime, Sugarco, Milano 2011, 160 pp., € 16,00.


Sulla nozione di "identità europea" e su quella — strettamente collegata — di "laicità" si gioca da anni, nelle riunioni dei capi di Stato e di governo occidentali, come nei salotti culturali che più contano, una partita d’importanza capitale. Per molti infatti l’Europa in quanto tale sarebbe contraddistinta primariamente proprio dall’assenza di una qualsiasi identità, valoriale, storica, o religiosa che sia, essa sarebbe insomma un mero "contenitore" geografico senza nessun limite o confine, fino ad arrivare a chi teorizza il trionfo pratico — oggi in effetti da più parti auspicato — del più radicale multiculturalismo relativistico. Se si approfondisce il dibattito, però, si vede bene come tutte le risposte più o meno argomentate in sostegno della tesi "indifferentistica" o "relativistica", alla fine fanno capo — a volte in modo palese, altre volte in modo più implicito — alla svolta politica e culturale determinata nel Vecchio Continente dall’ascesa della cultura illuministica a partire almeno dalla seconda metà del XVIII secolo. Le idee filosofiche e morali promosse da quest’ultimo, poi pienamente realizzate nella successiva Rivoluzione transalpina del 1789, segnerebbero infatti, di nuovo, il "trionfo" dell’umanità finalmente adulta, libera e moderna, totalmente emancipata dalle "catene" secolari della superstizione religiosa e dall’antico ordine gerarchico-sacrale che aveva contraddistinto il corpo della cristianità fino ad allora.

Non la pensava però così l’insospettabile diplomatico prussiano Friedrich von Gentz (1764-1832), già allievo entusiasta di Immanuel Kant (1724-1804) prima di diventarne implacabile avversario, che di quei tempi di rivolgimenti epocali fu prima testimone stupefatto e poi studioso audace e finemente critico. La sua opera più importante, qui tradotta e presentata — Der Ursprung und die Grundsätze der Amerikanischen Revolution, verglichen mit dem Ursprung und den Grundsätzen der Französichen, ancora inedita in Italia —, affronta la dibattuta tematica con l’ausilio di una comparazione storica particolarmente opportuna: ai fatti rivoluzionari di Francia vengono infatti idealmente affiancati quelli relativi alla sollevazione delle tredici colonie d’Oltreoceano e culminati nella "cosiddetta", ma a ben vedere a torto, "Rivoluzione Americana" (1775-1783).

Fin da allora era infatti d’uso accostare — così la "vulgata" o il mainstream curati e continuamente aggiornati dalle élite dominanti — le due rivoluzioni della seconda metà del Settecento quali fenomeni analoghi, simili, affini, ergo fondamentalmente identici, e comunque sovrapponibili, di un unico grande "movimento internazionale di liberazione", per usare un linguaggio politico odierno più marcato e d’immediata comprensione. Nonostante le macroscopiche divergenze con la realtà, anche questa vulgata, come tante altre, ha avuto però lunga fortuna al punto che — per fare un esempio particolarmente significativo — fino a poco tempo fa non era raro trovarla riproposta pedissequamente, ad abundantiam, nei manuali di testo scolastici degli Istituti della Repubblica di ogni ordine e grado.

È andata così per anni, fino a che lo studioso statunitense Russell Amos Kirk (1918-1994), ovvero l’interprete principale del filone "tradizionalista" del conservatorismo americano, nella seconda metà del secolo scorso, convertito in età adulta al cattolicesimo, non ha ri-scoperto il saggio di Gentz studiando il primo autorevole lettore in America del diplomatico, il presidente John Quincy Adams (1767-1848), facendolo ri-tradurre e curandone personalmente un’edizione commentata, preceduta da una sua corposa Introduzione nel 1955 — cfr. R. Kirk, The French and American Revolutions Compared, Regnery, Chicago. Lo spiega, rievocando le singolari peripezie del manoscritto uscito per la prima volta a Berlino nel 1800, il curatore di questa edizione italiana, Omar Ebrahime, nella nota d’apertura del volume intitolata Il conservatorismo da Friedrich von Gentz a Russell Kirk (pp. 7-16). Seguono quindi tre brevi profili che permettono al lettore di apprezzare ulteriori elementi bio-bibliografici dei principali "resistenti" — tanto obiettivamente coraggiosi al loro tempo, quanto mediamente sconosciuti oggi ai più — di quest’Occidente orgogliosamente anti-illuminista e anti-giacobino, tradizionalista per vocazione ed essenzialmente cristiano, per fede o per cultura: lo stesso Gentz (pp. 17-24), ancora Kirk (pp. 25-28) e Adams (pp. 29-30). E non è ancora tutto, perché una nota metodologica del curatore, in cui spiega il lavoro testuale compiuto durante la traduzione, aggiunge anche un filone ispanico, riconducibile al circolo madrilegno dei Cuadernos del piensamento liberal, identificato dallo studioso piacentino Giovanni Cantoni, grande cultore del lascito europeo nell’Iberoamerica, e che pare dare ragione una volta di più a quanto già esposto nei suoi ultimi scritti — su tutti confronta la curatela di Cantoni, con Francesco Pappalardo, del volume Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa (D’Ettoris Editori, Crotone 2007), recensito alla pagina http://www.identitanazionale.it/rece_7065.php —: l’identità europea non è un concetto astratto, lirico o immaginario, ma esiste e significa qualcosa di molto preciso; è rintracciabile nella storia viva dei popoli e delle nazioni e perdura — nonostante ferite e aggressioni varie — ancora oggi, prova ne sia il fatto — empiricamente constatabile e osservabile da chiunque sia intellettualmente onesto — che se, poniamo, un australiano, un sudafricano, un filippino, un brasiliano e un italiano si trovano a confronto l’uno con l’altro su un qualsiasi tema di conversazione, non avranno grosso modo alcuna difficoltà a comprendersi, anche se non si sono mai visti in vita loro e abitano ordinariamente a decine di migliaia di chilometri di distanza. Il motivo è, per l’appunto, che essi sono "europei" nel senso che dall’Europa storica della cristianità, frutto visibile del millennio della fede del Medioevo, hanno avuto in dono praticamente tutto quello che li connota e li definisce in radice come popoli: la lingua, gli usi, i costumi, le leggi, i codici e le istituzioni, oltre alla fede.

Che oggi questa fede sia poco o affatto praticata, singolarmente o collettivamente nei rispettivi Paesi, non smentisce il dato di fondo: ci comprendiamo e dialoghiamo ancora perfettamente, nonostante tutto, pur abitando in continenti geograficamente distanti e diversi perchè siamo tutti "culturalmente" cristiani, e non islamici, buddisti o taoisti. Tantomeno, si badi bene, in tempi di teorizzata e praticata "postmodernità liquida", atei o agnostici.

Non a caso, l’Introduzione (pp. 33-44) che precede il saggio di Gentz in questa versione italiana — firmata da Kirk — evidenzia come discrimine rilevante fra la modernità illuministica francese, figlia di Voltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet, 1694-1778) e quella americana proprio il dato religioso, il fatto, cioè, che gli Stati Uniti d’America siano nati proprio in seguito a una persecuzione statuale di tipo religioso contro i credenti e sulla centralità dell’istituto-cardine — in vigore ancora oggi — della libertà religiosa — non a caso posto a fondamento del Primo Emendamento alla celebre Costituzione federale elaborata a Filadelfia — mentre la Francia del post-1789 abbia viceversa optato, all’opposto, per una totale e radicale separazione del fenomeno religioso dalla vita pubblica e sociale. Il termine läicitè in effetti, andrebbe tradotto in italiano, più che — in modo volgare, e assai imprecisamente — con "laicità", con "laicismo" militante o, meglio ancora, "Stato anti-religioso", il che comunicherebbe subito il contenuto semantico fortemente ideologico — di derivazione repubblicana e giacobina — che quel termine veicola in Francia nel dibattito pubblico.

Nei quattro successivi capitoli del saggio, che ripercorrono ordinatamente lo sviluppo degli eventi rivoluzionari (e contro-rivoluzionari) in ordine cronologico (L’origine della Rivoluzione Americana, pp. 52-78; Il diritto di sollevarsi, pp. 78-93; "Rivoluzione difensiva" e "Rivoluzione offensiva", pp. 94-107; Gli obiettivi minimi della Rivoluzione Americana e la hýbris della Rivoluzione francese, pp. 107-132), a chi ancora avesse qualche dubbio, lo studioso prussiano spiega pazientemente — facendo puntuale riferimento a protagonisti e testimoni dei fatti narrati, alcuni dei quali da lui personalmente conosciuti — come mai la Storia sia andata in questo modo e che cosa questo avrebbe potuto significare, nel medio come nel lungo termine, per lo sviluppo politico-culturale dei rispettivi Paesi. Il fatto che egli richiami — già allora — la violazione reiterata dell’istituto perenne e — di per sé pre-politico — del diritto naturale come una delle più intollerabili atrocità che un potere statuale, persino con l’avallo formale di un Parlamento istituzionalmente preposto, possa mai commettere verso i propri sudditi dovrebbe semmai mettere in guardia quanti, ancora oggi, confidano sulla mera forza del diritto positivo e dell’ingegneria parlamentare per sbrogliare gli annosi, e quanto mai complicati, drammi dell’ora presente. Dopo tutto, fu proprio nella Francia dei Lumi e dei figli di Voltaire — non negli Stati totalitari della prima metà del XX secolo — che venne pianificato e incredibilmente portato a termine nell’indifferenza generale il primo vero genocidio dell’era moderna, quello sulla popolazione inerme della regione occidentale della Vandea (1793-1794), "colpevole" solo di restare cattolica e monarchica ai tempi in cui imperversava da Nord a Sud del Paese il Comitato di Salute Pubblica: 120.000 morti in totale in appena due anni, compresi donne e bambini, secondo gli ultimi studi. Non proprio un esempio di civiltà a cui guardare.

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3a ristampa,
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Il paese più straziato. Disturbi psichici dei soldati italiani della Prima Guerra Mondiale,

prefazione di Oscar Sanguinetti,
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D'Ettoris,
Crotone 2011,
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