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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 29 agosto 2008



RECENSIONI


Claudio Donati e Bernhard R. Kroener, (a cura di), Militari e società civile nell’Europa dell’età moderna (secoli XVI-XVIII), il Mulino, Bologna 2007, pp. 704, € 41,50.


D al 13 al 17 settembre 2004 si è svolta a Trento la XLVII settimana di studio dell’Istituto per gli Studi Storici Italo-germanici di Trento (Isig) — promossa dall’Istituto Trentino di Cultura (Itc) e dall’Isig in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Trento — sul tema Militari e società civile nell’Europa dell’età moderna (secoli XVI-XVIII) con lo scopo di esporre i risultati e discutere i possibili sviluppi delle più recenti indagini sul tema del «militare». Gli atti del convegno sono stati pubblicati dall’editrice il Mulino, a cura dei due coordinatori dei lavori, Claudio Donati (1950-2008) — che fino alla sua recente scomparsa insegnava Storia dell’Età dell’Illuminismo presso il Dipartimento di Scienze della Storia e della Documentazione Storica dell’Università degli Studi di Milano — e Bernhard R. Kroener, docente di Storia Militare presso l’Istituto Storico dell’Università tedesca di Potsdam.

Dopo le brevi Considerazioni introduttive (pp. 7-9) di Donati, il professor Kroener nella presentazione Stato, società, «militare». Prospettive di una rinnovata storia militare della prima età moderna (pp. 11-21) ha illustrato i temi principali del convegno, affrontati spesso in un’ottica comparativa: il ruolo e il peso degli apparati bellici nel processo di formazione dello Stato moderno, caratterizzato da una significativa intensificazione dei conflitti, dalla profonda trasformazione dell’arte della guerra e dalla presenza crescente delle grandi monarchie nella gestione della macchina bellica; la distinzione e/o sovrapposizione fra «civile» e «militare» nei ruoli e nelle gerarchie politiche e sociali; i problemi legati alla ricerca della massima coerenza, anche militare, all’interno di formazioni multietniche e i problemi del finanziamento, della professionalizzazione e del disciplinamento della guerra; la dimensione specificamente culturale della storia militare, in particolare le riflessioni tardomedioevali sul diritto bellico, la trattatistica fra teologia e diritto, la semantica della guerra e della pace, religione e politica nelle guerre confessionali, storia militare e iconografia, la costruzione di figure eroiche attraverso le opere letterarie.

Nell’illustrazione, talvolta sommaria, dei singoli saggi, disomogenei per ampiezza e per valore scientifico, anche a causa dell’approccio multidisciplinare degli incontri, seguirò lo svolgimento dei lavori del convegno, che appare più lineare rispetto all’organizzazione data alla raccolta degli atti. Nella prolusione di apertura Giorgio Chittolini, docente di Storia medioevale all’Università di Milano, ha presentato Il «militare» tra tardo medioevo e prima età moderna (pp. 53-102), cioè in un’epoca in cui il potere era ancora diffuso e diviso, secondo una graduazione di autorità maggiori e minori: «l’impero, il papato, il re, i principi, le signorie territoriali laiche ed ecclesiastiche, le città (le città libere, in Italia, in Svizzera, ma anche le città comprese in un regno, o in un principato), i corpi non territoriali dei “cavalieri”, delle corporazioni, delle domus (o, nel mondo comunale italiano, delle societates di ceto e di fazione): in un intreccio e un concatenarsi di legami di superiorità e dipendenza, secondo gerarchie non simmetriche né coincidenti le une con le altre» (p. 56). Si possono comprendere, dunque, le continue riflessioni nel tardo medioevo sulla titolarità dello ius ad bellum e l’ampio spazio riconosciuto a quella che oggi viene definita impropriamente guerra privata, in realtà allora uno dei tanti tipi di guerra possibili, condotta da nobili e signori, città e comunità, che agivano secondo il principio fondamentale della tutela delle loro persone e delle loro cose. Sarebbe tuttavia eccessivo immaginare quell’età come un periodo di continua belligeranza, anche perché le azioni di guerra erano molto meno imponenti e sanguinose di quelle dell’età moderna, combattute con effettivi maggiori, per periodi più lunghi e con nuovi mezzi di distruzione. Forse per questo motivo — sebbene le battaglie e le scorrerie degli eserciti, con le inevitabili requisizioni e i temuti alloggiamenti, fossero esperienze diffuse e dolorose nei secoli XIV e XV — non nacquero movimenti di netto rifiuto delle armi e della forza, oggi diremmo «pacifisti». «Meglio una guerra ingiusta che una pace ingiusta, continuavano ad affermare canonisti e uomini di chiesa» (p. 67). Da questa presenza costante della guerra derivava l’impronta data all’organizzazione della società nel tardo medioevo, quando le gerarchie militari erano modellate su quelle sociali. Ne era segno il perdurante ruolo politico dell’aristocrazia, ceto di guerrieri naturalmente abilitato alla funzione del comando, anche se in seguito alle trasformazioni degli eserciti, a partire dal secolo XIV, le milizie erano sempre meno costituite dai vassalli e dai loro seguiti e aumentava il numero degli uomini stipendiati, a soldo, cioè «soldati». In questo modo veniva meno gradualmente il senso dell’obbligazione cui gli abitanti di un paese si sentivano tenuti, nei confronti sia dei corpi e dei ceti ai quali appartenevano, sia dello stesso sovrano. Questi mutamenti erano la conseguenza di trasformazioni più ampie, soprattutto del rapporto nuovo che si andava creando fra la guerra e quello che viene definito lo «Stato moderno», in cui il potere tendeva a concentrarsi nelle mani di un sovrano e la gestione dell’attività bellica veniva riservata sempre più a un apparato statale e a un ceto specifico. I corpi in cui la società si articolava vennero privati delle armi e lo stato si cominciò ad accollarsi oneri e costi crescenti. I secoli XV e XVI saranno «[...] una età di profondi rivolgimenti sociali, e di reazione anche a una pressione fiscale crescente, provocata in gran parte dal bisogno stesso di danaro che i sovrani avvertivano per i nuovi, più alti costi della guerra» (p. 82).

Nella prolusione su Esercito e società nella prima età moderna (secoli XVI e XVII) (pp. 197-209) Rainer Wohlfeil, storico militare di Amburgo, ha proseguito idealmente le riflessioni di Chittolini, soffermandosi sulla comparsa di grandi eserciti mercenari costituiti da una fanteria ben addestrata, munita di nuove armi, come la balestra e le armi da fuoco, e destinata a soppiantare velocemente la cavalleria feudale, equipaggiata troppo pesantemente. Wohlfeil ha svolto quindi un confronto fra il Regno di Castiglia e il Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca, soffermandosi sulla nascita dei tercios — le unità permanenti di fanteria, ciascuna composta mediamente da tremila uomini —, che avrebbero costituito il nerbo dell’esercito ispanico, combattendo solo fuori dalla penisola iberica e in sinergia con truppe provenienti da altre regioni dell’impero spagnolo. In Castiglia non venne mai costituito un esercito permanente e ciò evitò la piaga dei soldati congedati, che vagabondavano dandosi alle rapine e all’accattonaggio, come avveniva nei territori germanici. Qui i mercenari, identificati principalmente con i lanzichenecchi — da «Landesknecht», letteralmente «servo di pianura», fanti armati di lunga picca e reclutati nelle regioni di pianura del Sacro Romano Impero, così chiamati per distinguerli dai mercenari svizzeri «di montagna» —, non avevano un rapporto giuridico pubblico con le autorità territoriali ma stipulavano un contratto di tipo privatistico con un comandante. «Questo sistema militare sovvertì, con la sua origine sociale eterogenea, la struttura sociale basata sui ceti. L’esercito si formò a fianco dell’ordine sociale cetuale tradizionale e fu inquadrato dall’esterno come gruppo marginale» (p. 204). I lanzichenecchi — con le loro donne al seguito, che rappresentavano un elemento costitutivo dell’organizzazione dell’esercito — erano visti come un ceto di professionisti a sé stante e caratterizzato da abitudini proprie per quanto riguardava l’abbigliamento, l’aspetto e il comportamento, ma piuttosto pericoloso quando veniva meno il controllo sociale derivante dal legame contrattuale.

La prima sezione del convegno, Mondo militare e Stati d’Antico regime, è stata dedicata all’analisi degli influssi esercitati dal mondo militare sullo Stato moderno in formazione, e viceversa, in particolare nei settori della politica, delle finanze e della giustizia. Giovanni Muto, ordinario di Storia moderna all’Università di Napoli ha illustrato Apparati militari e fabbisogno finanziario nell’Europa moderna: il caso della Spagna «de los Austrias» (pp. 23-52). Grazie al significativo sviluppo negli ultimi decenni degli studi sulla Spagna asburgica, che consentono di comprendere in che modo e fino a quanto l’apparato militare — nella sua accezione più ampia: la flotta, i presidi, i comandi, la logistica, gli armamenti — sia stato in grado di sostenere gli obbiettivi politici indicati dalla Corona e dalla Corte, Muto ha cercato di evidenziare le connessioni createsi fra la sfera militare e quella finanziaria nel secolo XVI e nella prima metà del secolo XVII. Nonostante lo sforzo poderoso richiesto dalla strategia imperiale, la struttura dell’esercito era leggera sia nei regni interni spagnoli sia nelle province italiane: in ciascuno dei domìni italiani — Lombardia, Regno di Napoli e Regno di Sicilia — stazionavano generalmente non più di tre-quattromila unità, grazie alla sostanziale alleanza con i ceti dirigenti locali e al consenso diffuso presso le popolazioni. A essi si aggiungevano, soprattutto per la difesa dalle incursioni barbaresche, corpi territoriali formati da elementi locali e decisamente più numerosi delle milizie ispaniche. In ogni caso l’esercito imperiale era composto da soldati di tutte le nazionalità: dei novanta tercios creati fra il 1567 e il 1577, trenta erano germanici, diciotto italiani, diciannove valloni e ventitré spagnoli, soprattutto castigliani, perché l’Aragona, la Catalogna, Valencia e Murcia vi contribuivano con quote modestissime in virtù delle loro autonomie. Anche sotto il profilo finanziario l’apporto degli altri regni iberici era decisamente inferiore a quello della Castiglia, cosicché i sovrani dovettero ricorrere ai diritti di regalìa della Corona, ai contributi straordinari, agli aiuti della nobiltà e della Chiesa, alla vendita di uffici e di giurisdizioni e infine ai prestiti di una vera e propria «repubblica internazionale del denaro, al cui vertice si avvicendarono banchieri e uomini d’affari tedeschi, fiamminghi, genovesi, portoghesi» (p. 45). Per lo stesso motivo le forze navali erano costituite da unità messe a disposizione per brevi periodi da armatori privati: delle centocinquantun navi della Gran Armada, salpata da Lisbona nel 1588 per attaccare il Regno Unito, solo ventuno appartenevano alla Corona, mentre le altre erano state requisite o prese in affitto. Nonostante ciò gli eserciti imperiali hanno mantenuto elevate qualità combattive almeno fino agli anni 1640, costituendo un modello di disciplina, di spirito di corpo e di professionalità.

Frank Göse, dell’Istituto Storico dell’Università di Potsdam, nelle sue Riflessioni sulla professionalizzazione degli ufficiali nobili di alcuni territori tedeschi dell’Impero nel secolo XVII (pp. 103-131) ha descritto l’atteggiamento delle società nobiliari regionali nei confronti del processo di specializzazione militare. Nel lungo secolo XVI la nobiltà dei territori imperiali era stata coinvolta negli scontri bellici in misura diversificata e ne era derivato un peso differente della carriera militare all’interno di queste società. In vista della costituzione di eserciti permanenti i principi avevano tentato di rinvigorire i legami con l’aristocrazia locale, anche se stava mutando notevolmente il profilo delle competenze richieste a un nobile che puntasse al servizio da ufficiale. I più anziani fra questi non riuscivano ad ammettere la necessità di un servizio fortemente regolamentato e di una formazione continua. Inoltre, «si giungeva sempre a conflitti di status, perché l’ubbidienza funzionale e il senso dell’onore aristocratico non si lasciavano armonizzare facilmente» (p. 113). Comunque, il sostegno che i nobili aspiranti alla carriera militare trovavano nella famiglia, nella società nobiliare locale e nella dinastia, tramite legami di clientela e di patronage, compensavano le premesse economico-finanziarie insufficienti e favorivano il cosmopolitismo e la mobilità regionale dei nobili.

Christopher Storrs, docente di Storia europea all’Università scozzese di Dundee, nell’intervento su Giustizia militare, militari e non militari nell’Europa della prima età moderna (pp. 573-609), ha sottolineato l’importanza della disciplina all’interno degli eserciti in età moderna, più grandi e più stabili di quelli del passato. La chiave della disciplina consisteva in paghe regolari e rifornimento di cibo, ma non sempre ciò era possibile e dunque erano necessari sistemi più incisivi di controllo, tanto per i reati militari quanto per quelli non militari. Attingendo a documentazione spagnola, savoiarda e, in misura minore, inglese, Storrs ha illustrato lo sviluppo di una giurisdizione militare, separata e privilegiata, cioè l’emergere di una polizia giudiziaria e di tribunali specializzati; i reati e le relative pene, comprese quelle per atti considerati criminali nella società civile, come la bestemmia, l’omicidio e il furto; la codificazione del diritto militare nel secolo XVIII e la crescente consapevolezza della distinzione fra società civile e società militare. Circa il primo punto Storss ha evidenziato che nella società di antico regime, caratterizzata da giurisdizioni speciali e da privilegi, cioè diritti propri di ciascun corpo o realtà giuridica, il fuero militar, per usare l’espressione castigliana, era la ricompensa per il servizio particolare prestato, tanto che le diverse unità godevano di privilegi diversi, estesi peraltro ai fornitori di armi, alle mogli dei soldati e ai mercanti stranieri in Spagna, questi ultimi perché soggetti per motivi di sicurezza alla giurisdizione del Consiglio di Guerra. Tuttavia, si ricorreva raramente a procedimenti giudiziari formali, preferendosi rimedi più diretti e rapidi, come un’ammonizione o un colpo di canna, tranne per i reati più gravi, cosicché gli atti processuali a disposizione dello studioso forniscono solo una visione parziale del problema. Lo sviluppo degli eserciti da un lato ha generato un corpo di norme sempre più ampio, che spingeva i governi a integrare e unificare, quindi a codificare, le disposizioni relative ai militari, e dall’altro lato ha condotto molti più civili nell’ambito del diritto penale militare. «In effetti, il XVIII secolo vide approfondirsi il solco tra il mondo militare e quello civile,in questa come in altre sfere» (pp. 605-606).

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Nella seconda sezione, Identità militari in area europea, e nella terza, Il mestiere e la carriera, sono state prese in esame le componenti umane dell’organizzazione militare, colte nelle manifestazioni della vita quotidiana e nelle trasformazioni della mentalità e della collocazione di ceto. Angelantonio Spagnoletti, ordinario di Storia moderna all’Università di Bari, è intervenuto sul tema Onore e spirito nazionale nei soldati italiani al servizio della monarchia spagnola (pp. 211-253), utilizzando le opere di alcuni scrittori che nei secoli XVI e XVII si sono occupati di cose militari o hanno steso biografie di condottieri. Questi trattatisti osservavano che la nobiltà si accompagnava alla capacità e che quindi al nobile corrispondeva generalmente un buon capitano, il quale cercava solo l’onore e la gloria. A chi obbiettava che un aristocratico poteva essere poco esperto nel mestiere delle armi, i trattatisti facevano notare che l’educazione ricevuta esaltava comunque l’attitudine militare e che la lunga militanza nobiliare negli eserciti contribuiva a fornire l’esperienza e la competenza necessarie, per di più trasmesse di generazione in generazione grazie anche alla contemporanea presenza nei tercios di componenti della medesima famiglia. «La tradizione militare, asse portante dell’identità nobiliare per molte famiglie, conduceva, assieme alla lunga militanza, alla professionalizzazione e all’acquisizione di competenze che nessuna accademia al momento avrebbe potuto fornire» (p. 220). Per il sovrano l’aristocratico costituiva una riserva di risorse morali ed anche economiche, grazie agli arruolamenti in grande stile effettuati dalla nobiltà presso i propri vassalli e le proprie clientele; e furono tanti coloro che si arricchirono negli onori ma s’impoverirono nelle sostanze. L’anima degli eserciti multinazionali era l’emulazione — «Nelle Fiandre non mancavano le gare di onore tra spagnoli e italiani per essere i primi ad attaccare il nemico» (p. 241, nota 135) —, prodotta dal forte spirito di corpo che pervadeva i capitani e i soldati della medesima provenienza e palesata nel corso delle battaglie o durante la vita castrense.

Alla relazione di Holger Thomas Gräf, dell’Università di Marburg, su Ruolo e funzione delle testimonianze autobiografiche per la storia militare (pp. 281-311), ha fatto seguito l’intervento di Giampiero Brunelli, bibliotecario della Biblioteca Centrale Giuridica del Ministero della Giustizia e docente a contratto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza, su Identità dei militari pontifici in età moderna. Questioni di metodo ed uso delle fonti (pp. 313-350). Indagando sulle forme identitarie manifestate nell’ambito di un’istituzione peculiare qual era l’esercito del Papa, Brunelli ha preso in considerazione sia il piano delle auto-rappresentazioni di soldati e ufficiali sia quello delle identità proposte dai vertici dell’istituzione militare, giungendo alla conclusione che allo stato degli studi «[...] non sembra possibile ripetere l’assunto di una tradizionale debolezza dell’esercito pontificio» (p. 314). L’arco cronologico preso in esame va dalla pace di Bologna del 1530, quando l’attività della Santa Sede cominciò a colorarsi di un nuovo universalismo e si dettero solide basi ideologiche al servizio militare nello Stato della Chiesa — che coinvolse in trentacinque anni circa cinquantamila soldati nelle guerre contro i turchi e i protestanti —, alle paci di Westfalia del 1648, che sancirono il ridimensionamento del ruolo del Papato nella politica europea.

Paola Bianchi, ricercatrice di storia moderna all’Università della Valle d’Aosta, ha presentato un aspetto particolare nella relazione Dal mestiere delle armi alla carriera militare. Il caso sabaudo tra XVII e XVIII secolo (pp. 351-399), che ha mostrato come la nascita degli eserciti permanenti abbia comportato innanzitutto una distinzione di spazi, con la creazione delle caserme nel secolo XVIII, quindi l’adozione di elementi distintivi, le uniformi, per marcare il crescente isolamento dei soldati dai civili. Nello stesso periodo si sono verificate la militarizzazione di ingegneri e artiglieri, anche con l’introduzione di criteri meritocratici e forme di razionalità scientifica e logistica, e l’avvio di una più chiara definizione delle gerarchie militari. «Standardizzazione e specializzazione sono state individuate come parole-chiave della storia militare europea tra Sei- e Settecento» (p. 357), e sono diventate «ossessione razionalizzatrice» (p. 384) nel Regno di Sardegna.

Michael Hochedlinger, archivista di Stato a Vienna, ne I generali dell’imperatore. Note bibliografiche e archivistiche per la ricerca sulle élites militari nella Monarchia asburgica della prima età moderna (pp. 463-496), ha dato conto di una ricerca in atto presso gli archivi viennesi sulle biografie di circa tremila individui nel periodo che va dalla Guerra dei Trent’anni (1618-1648) — «quando a poco a poco si costituiscono i ranghi della generalità, passando da funzioni o “uffici” a gerarchie di rango» (p. 465) — al 1815, allo scopo di fare chiarezza sui modelli di carriera, i profili sociali e la composizione della generalità, cioè dei vertici dell’esercito imperiale.

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La quarta sezione è stata incentrata sul rapporto fra Esercito e società civile, considerato sotto diversi punti di vista a seconda dei contesti presi in esame. Luis Ribot Garcia, direttore della Cattedra Filippo II dell’Università di Valladolid, in Soldati spagnoli in Italia. Il castello di Milano alla fine del XVI secolo (pp. 133-196), ha studiato la vita quotidiana di una delle principali guarnigioni della monarchia ispanica, il castello di Milano, che costituiva il principale luogo d’incontro di truppe di tutta l’Italia spagnola. Tutti i soldati di fanteria del castello dovevano essere spagnoli, e tali erano considerati anche i sardi e i portoghesi, ma in assenza di una documentazione personale erano numerosi gli italiani e i fiamminghi che si facevano passare per ispanici. La vita nel castello è stata ricostruita minuziosamente grazie alla documentazione relativa all’ispezione compiuta da un visitatore generale nel Ducato di Milano e protrattasi tre anni, per indagare su una serie di abusi segnalati da taluni militari. La visita permise al sovrano, Filippo II d’Asburgo (1527-1598), di essere informato ampiamente di tutte le irregolarità e di poter dare ai governatori le direttive per la punizione di alcuni colpevoli e per l’adozione dei cambiamenti ritenuti necessari.

Nel suo intervento su «Immagini di soldati» e «Lebenswelten» dei militari nella Sassonia del XVIII secolo (pp. 255-279), Stefan Kroll, dell’Istituto Storico dell’Università di Rostock, ha messo a confronto la Lebenswelt, cioè l’esperienza di vita e la percezione di tale esperienza da parte dei militari sassoni — che da un punto di vista numerico costituivano il terzo esercito dell’Impero dopo Austria e Prussia — con le immagini del soldato diffuse presso l’«opinione pubblica», comunque nel «[...] presupposto che, nel corso del periodo in esame, non esistesse un’unica opinione pubblica borghese, sancita autorevolmente dai membri delle società illuministiche e dei circoli eruditi, quanto piuttosto una molteplicità di opinioni pubbliche, in parte distinte, in parte connesse (ad esempio anche al livello di un territorio, di una comunità o di una famiglia)» (p. 263, nota 18). Non esistevano, dunque, presso la popolazione nel suo complesso né un’immagine unitaria del soldato né un comportamento concorde nei confronti dei militari; la stessa vita dei soldati era troppo sfaccettata per poter essere ridotta a un minimo comun denominatore, considerata la commistione ancora esistente fra vita militare e civile.

Alessandra Dattero, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze della Storia e della Documentazione Storica dell’Università di Milano, ha illustrato Un aspetto del riformismo austriaco: caserme e mondo urbano nella Lombardia del Settecento (pp. 401-446), soffermandosi sulle modifiche sostanziali intervenute in Lombardia dopo il 1706, cioè quando lo Stato di Milano entrò a far parte della monarchia asburgica. Il mutamento dinastico, in un’epoca in cui l’organizzazione militare e politica stava subendo un processo uniformante e accentratore, comportò innanzitutto la riduzione del dominio milanese da «Stato» a «provincia», quindi la subordinazione alle esigenze dei comandi militari delle libertà politiche dei ceti cittadini — capaci fino a quel momento di negoziare il destino della città indipendentemente dai voleri del governatore della piazzaforte, autorità di emanazione regia — e infine la crescente integrazione del Milanese nella monarchia austriaca con l’imposizione di nuovi criteri di contribuzione alle spese militari: «[...] mentre in passato lo Stato di Milano in linea di massima era tenuto al mantenimento dei contingenti che vi si trovavano stanziati, ora la provincia milanese doveva sostenere determinati oneri militari connessi al mantenimento dell’esercito imperial-regio, indipendentemente dal presidio del proprio territorio» (p. 409). Anche da questa relazione viene confermato lo svolgimento nel secolo XVIII di un processo di lungo periodo verso una più generale specializzazione professionale, che produceva in generale una separazione funzionale della società nel suo complesso e in particolare un allontanamento fra mondo militare e popolazione civile, visibile nelle istituzioni di governo e nell’amministrazione finanziaria, negli alloggi separati e nell’uso consolidato di uniformi, nell’istituzione di accademie militari e anche negli spazi urbanistici. La soppressione degli ordini religiosi disposta dall’imperatore Giuseppe II d’Asburgo (1741-1790), con la conseguente trasformazione dei conventi in caserme, e la dismissione di cittadelle e di piazzeforti, non più utili in una guerra sempre più campale e dunque anch’esse destinate all’acquartieramento dei soldati, favorì il ritiro del complesso militare in spazi ben definiti. Questa novità, insieme alla demolizione delle mura cittadine — ora che i conflitti erano affidati sempre meno agli assedi —, mise in luce la volontà del sovrano di ridefinire gli spazi della città, anche mediante una rivendicazione di aree private a uso pubblico. Alessandra Dattero, in un inciso, osserva che in quel modo veniva meno anche la funzione — svolta fino a quel momento dalle cinte murarie — di separazione giuridica fra i cittadini, al cui status era connesso il godimento di determinati privilegi, e gli abitanti del contado. «Il punto d’arrivo di questo processo si ebbe con l’età napoleonica. Con le costituzioni delle repubbliche dell’età francese non si faceva più una distinzione qualitativa fra città, borghi e terre, ma le classificazioni seguivano il solito criterio della grandezza e della consistenza demografica. Lo spostamento semantico del termine “cittadino”, da membro del corpo politico di una città, dotato di prerogative di ceto, a colui che risiedeva in un qualunque luogo del territorio statale ed era per questo dotato di pieni diritti civili, testimoniava il passaggio in tal senso» (p. 443, nota 93).

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La quinta sezione, Le idee, la cultura, la religione, affronta alcuni temi connessi alla riflessione di giuristi e filosofi intorno alla guerra e alla pace e alle diverse forme di guerra. Diego Quaglioni, professore di Storia del Diritto Medievale e Moderno alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, intervenendo su La disciplina delle armi tra teologia e diritto. I trattatisti dello «ius militare» (pp. 447-462), ha ricordato innanzitutto che nella lunga stagione del diritto comune, protrattasi oltre il convenzionale medioevo giuridico, il diritto divino-naturale e il diritto delle genti erano stati ritenuti come limiti invalicabili dal potere, fino all’affermazione dell’assolutismo giuridico e di un potere statuale non limitato dal diritto naturale. Anche nel caso specifico dello jus belli era diffusa nell’età intermedia una concezione del diritto tipicamente pluriordinamentale, secondo cui l’indizione e l’esecuzione di un atto di forza lecito presupponevano l’esistenza di un’autorità superiore alle parti, di cause sostenibili con ragioni fondate giuridicamente e di regole di comportamento accettate comunemente. «Esercizio delle armi e diritto non sono in alcun modo separabili, e la storia delle “ragioni” della guerra coincide perciò con la storia del nucleo essenziale del diritto comune pubblico, che nella sua complessa strutturazione di ius commune in utroque foro caratterizza la lunga durata del diritto pubblico europeo» (p. 449). Questa tradizione teologico-giuridica mostra, proprio fra i secoli XVI e XVIII, una capacità notevole di resistenza e di rinnovamento di fronte alla crisi del paradigma universalistico, come testimonia l’opera — presentata dalla Quaglioni — del giurista piemontese Pierino Belli (1502-1575), De re militari et de bello, del 1563.

Cornel Zwierlein, dell’Università di Monaco di Baviera, ha parlato di Fame, violenza e religione politicizzata: gli assedi nelle guerre confessionali (Parigi 1590) (pp. 497-545), delineando lo stato della ricerca sulla «confessionalizzazione» nel secolo XVI in generale e, nello specifico, il rapporto fra guerra e religiosità in ambito europeo, e giungendo alla conclusione che già nel secolo XVI, durante i conflitti di natura religiosa, si sono registrati momenti di «ideologizzazione» moderna, ovviamente in senso elitario e non di massa: «tale ideologizzazione non è, propriamente, la semplice conseguenza di una religiosità “intensificata”, ma [assume] la sua forza esplosiva nella veste di “religione politicizzata”» (p. 507). Al riguardo, ha preso in esame, come situazione esemplare, al contempo militare e religiosa, l’assedio delle città nelle guerre confessionali, con attenzione particolare all’assedio di Parigi del 1590, rilevando che l’aconfessionalità degli eserciti fosse la normalità fino al secolo XVII inoltrato, al di là della fede individuale dei soldati e fatti salvi i reparti motivati più fortemente.

Piero Del Negro, docente di Storia Militare all’Università di Padova, ha illustrato La cultura militare veneziana nel Settecento. Politica, istituzioni, protagonisti, problemi (pp. 547-572) partendo dalle considerazioni dello storico canadese Gregory Hanlon. Questi, nel suo The twilight of a military tradition. Italian Aristocrats and European Conflicts, 1560-1800, [Il declino di una tradizione militare. Aristocratici italiani e guerre europee. 1560-1800] (Londra-New York 1998), ha segnalato che nel secolo XVIII la società veneziana aveva smarrito la sua vocazione guerresca, anche in seguito alla smilitarizzazione dei ceti popolari permessa da quelli dirigenti, che avevano convertito in una tassa l’obbligo delle corporazioni di mestiere di fornire gli equipaggi delle galere e avevano bandito i giochi violenti tradizionali, anteponendo la tranquillità interna all’addestramento del popolo. Dalla ricognizione di Del Negro appare comunque opportuno «[...] sostituire alla tradizionale immagine caricaturale dell’esercito veneziano [...] un quadro più sfumato e comunque ricco, oltre che di molte ombre, anche di alcune significative luci» (p. 572).

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La sesta sezione, Immagine e rappresentazioni del mondo militare, offre infine una panoramica delle rappresentazioni letterarie e iconografiche che del mondo militare sono state date in epoche e luoghi diversi. Nella relazione su La guerra tra «realtà» e «decoro». I potenziali interpretativi delle fonti iconografiche per la storia militare (1500-1815) (pp. 611-641) Martin Knauer, dell’Università di Amburgo, ha messo in luce la genesi nei secoli XVI e XVII del genere del lanzichenecco, la cui funzione consisteva nella promozione del servizio mercenario, inizialmente presentato come un’occasione di libertà e di mobilità sociale ma successivamente associato a sfrenatezza e assenza di morale; quindi ha svolto alcune considerazioni sul topos rinascimentale di Arte et Marte — che esprimeva l’aspirazione umanistica a esercitare un «buon governo» per mezzo non solo della guerra ma anche delle arti e della scienza — nonché sul foglio volante illustrato della Guerra dei Trent’anni, utilizzato come propaganda bellica; infine si è soffermato sul rapporto fra la nascente pittura di battaglia «eroica» nell’età barocca — orientata a offrire un’immagine gloriosa e poco realistica delle imprese guerresche — e l’«orrore della guerra», che trovava la sua piena espressione nella grafica a stampa, volta a denunciare la brutalità della condotta bellica, soprattutto quella dell’avversario. Parallelamente Markus Meumann, dell’Università di Berlino, ne La semantica di «guerra» e «pace» nella prima età moderna (pp. 643-679), ha studiato l’utilizzazione dei due termini nella pubblicistica del secolo XVII e il loro significato per i contemporanei, osservando che mentre all’inizio del secolo XVI la pace era pensata come pace religiosa universale, almeno per la res publica christiana, in seguito alla Riforma protestante prevalse gradualmente l’aspetto di una pace solo terrena e temporanea. Nello stesso tempo apparve chiaro che mancava nei rapporti fra gli stati un’istanza in grado di garantire il rispetto del diritto e si affermò un sistema di poteri basato su rapporti contrattuali. La guerra non era vista più come prezzo necessario al mantenimento della pace interna, affidato al regnante, «[...] la cui pretesa di sovranità “assolutistica”, al contrario, appariva essere ormai la principale forza motrice o addirittura la causa della guerra sia all’interno che all’esterno» (p. 655). Il tramonto di una visione biblica della storia e la trasformazione radicale della concezione del mondo intorno al 1700 aprirono la strada «non solo a una trasfigurazione utopico-filosofica della pace, che preannuncia le correnti pacifiste della modernità, bensì anche al suo disprezzo nella contemporanea glorificazione della guerra» (pp. 678-679), la cui esaltazione in chiave nazionalista si è manifestata già durante la Guerra dei Sette anni (1756-1763). Un caso particolare — Lo «Stadhouder» e il suo ammiraglio. Eroi di guerra nella letteratura olandese del XVII secolo (pp. 681-703) — è stato illustrato da Raingard Esser, del dipartimento di Storia dell’Università di Bristol, che ha esaminato appunto la nascita del culto degli eroi marittimi. Nella loro rappresentazione l’aspettativa dei lettori s’incontrava con le immagini ideali delle virtù militari e i principali ammiragli diventarono figure cruciali per la nascente nazione olandese, tanto che in loro onore vennero costruiti costosi memoriali in luoghi eminenti, prendendo il posto di cappelle o, in un caso, di un precedente altare maggiore cattolico.

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Il quadro complessivo che emerge dalle relazioni è quello di una storia militare che parla di guerra, ma non vuole solo essere una storia della guerra bensì fornire un utile contributo alla storia sociale di ogni epoca. Negli ultimi due decenni — soprattutto in Italia e in Germania — questa disciplina ha raggiunto risultati significativi, anche rigettando la pesante zavorra interpretativa dei secoli XIX e XX. L’immagine della società di caserma chiusa e isolata non trova infatti riscontro nell’esperienza della prima età moderna, quando i militari costituivano un microcosmo in costante relazione con gli altri contesti sociali. L’essere soldati, inoltre, era spesso una forma di vita limitata nel tempo e legata a oscillazioni congiunturali. Nei secoli XVII e XVIII gli eserciti sono stati regolarmente mobilitati e smobilitati e la prassi di reclutamento «statale» rappresentava uno dei numerosi compromessi con cui l’autorità cercava di compensare le sue limitate possibilità d’intervento sui sudditi; ciò non valeva, tuttavia, per il corpo degli ufficiali, grazie alla sopravvivenza di un’internazionale aristocratica delle armi che continuava ad alimentare la circolazione dei militari di professione e a favorire una certa omologazione degli eserciti. Nel tempo la sovranità, fino ad allora frazionata in una serie innumerevole di territori signorili, di città e di ceti, cominciò a concentrarsi nelle mani di un sovrano, e lo Stato, che intendeva monopolizzare e disciplinare la violenza, cercò di mantenere il controllo esclusivo sulla guerra con la creazione di un ceto specifico, appunto il «militare».

Francesco Pappalardo


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