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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 14 marzo 2008



RECENSIONI


Gigi Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento, Rizzoli, Milano 2007, 464 pp., € 19,50.


Gigi Di Fiore, giornalista e autore di buoni studi storici — fra l’altro, 1861. Ponte­landolfo e Casalduni: un massacro dimenticato (Grimaldi & C., Napoli 1998) e I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borboni di Napoli (Utet, Torino 2004) —, si è cimentato in una Controstoria dell’Unità d’Italia, che porta a compimento il suo interesse per un periodo decisivo nella storia della nazione italiana.

Di Fiore parte dalla constatazione di un conformismo generale tuttora imperante, «qualche luogo comune, semplificazioni, omissioni, schematismi» (p. 8), e dalla necessità «[...] di capire meglio, senza accontentarsi di agiografie» (p. 9), ma pure senza assumere atteggiamenti antistorici: «Non per sterili nostalgie di un Paese diviso, o per metterne in discussione l’assetto unitario. Ma solo per amore di verità» (p. 26).

La narrazione parte dal confronto fra l’atteggiamento del governo sardo verso il Ducato di Savoia e la Contea di Nizza, cedute all’Impero Francese nel 1860 in cambio dell’appoggio militare contro l’Impero d’Austria, e quello verso gli abitanti di Genova, che nel 1849 chiedevano l’autonomia dal Regno di Sardegna. In entrambi i casi viene ignorata la volontà delle popolazioni: da un canto, quanti non volevano distaccarsi dal Regno sono abbandonati al loro destino, dopo un plebiscito-farsa, mentre, dall’altro, coloro che volevano ricuperare l’indipendenza persa alcuni decenni prima vengono sottoposti addirittura a un violento bombardamento navale. Ma nella mitologia risorgimentale questa strage di civili verrà ignorata al pari di quella compiuta dall’esercito italiano contro gli abitanti di Palermo, che nel 1866 si ribellavano contro le modalità dell’unificazione. Grande eco negativa avranno invece le operazioni militari condotte dal Regno delle Due Sicilie nei confronti della Sicilia ribelle, e grazie a un’abile propaganda a Ferdinando II, definito il «Re bomba», viene contrapposta l’immagine del «Re galantuomo», Vittorio Emanuele II.

«Le radici calpestate» (p. 27) sono all’origine dell’unificazione italiana, che andrà avanti con «annessioni costruite a tavolino» (p. 68), frutto della destabilizzazione interna dei piccoli Stati della Penisola, condotta alla vigilia della loro invasione dagli agenti del conte di Camillo di Cavour mediante l’azione di agenti provocatori, l’acquisto dei notabili locali e le promesse di carriera ai quadri militari; «l’invenzione delle camicie rosse» (p. 88), sostenute dagli aiuti finanziari forniti dai britannici a Giuseppe Garibaldi e dalla criminalità organizzata di stampo mafioso e camorristico; «l’invenzione dei plebisciti [...] tentativi di giustificazione giuridica formale, con una votazione che forniva adesione popolare alle annessioni dei diversi territori già conquistati con le armi» (p. 21).

Di Fiore valuta con oggettività le mutate circostanze economiche e politiche, soprattutto di natura internazionale, che nel secolo XIX cospiravano a favore dell’unificazione politica della Penisola. Tuttavia, non manca di sottolineare il comportamento infido e sleale dei politici e dei militari del Regno di Sardegna prima, del Regno d’Italia poi, l’atteggiamento brutale e quasi «coloniale» degli invasori, l’azzeramento dell’apparato legislativo e amministrativo borbonico, le epurazioni nella società napoletana e soprattutto la recisione delle radici storiche e culturali del Regno. Rivaluta, quindi, il comportamento di numerosi ufficiali e soprattutto dei soldati napoletani, che, dispersi dalla viltà dei comandanti, avevano rifiutato di aderire alla causa garibaldina e, sbandati o a gruppi, avevano marciato prima su Napoli e poi su Gaeta per rispondere all’appello del re, combattendo con valore anche quando era svanita ogni speranza. Essi pagarono il loro impegno con 2700 caduti, migliaia di dispersi, ventimila feriti e migliaia di prigionieri, rinchiusi in veri e propri campi di concentramento nel Nord d’Italia, dai quali molti non tornarono.

Di Fiore si sofferma su avvenimenti ancora poco noti al grande pubblico e cerca di dare voce ai «“senza voce” [...] coloro che di quel processo furono i veri sconfitti della storia: i militari degli Stati preunitari (soprattutto i soldati borbonici o quelli della Brigata estense), i contadini del Sud che avevano creduto nelle promesse garibaldine, gli ambienti cattolici» (p. 13). Alcune pagine sono dedicate appunto alla vicenda quasi sconosciuta della Brigata Estense — «la Brigata che non volle diventare italiana» (p. 80) —, cioè il piccolo esercito del Duca di Modena, Francesco V d’Asburgo-Este (1819-1875), che seguì il sovrano in esilio in Austria nonostante lusinghe e intimidazioni. Anche dopo lo scioglimento della Brigata, nel 1863, quasi mille soldati preferirono arruolarsi nell’esercito asburgico e tre anni dopo combatterono contro l’esercito italiano sotto lo stendardo dell’aquila a due teste – su questo episodio era già disponibile il pregevole studio di Alberto Menziani, L’esercito del Ducato di Modena fra il 1848 e il 1859, Stato Maggiore dell’Esercito. Ufficio Storico, Roma 2005.

Due capitoli sono dedicati da Di Fiore alla lotta disperata condotta dai napoletani contro l’invasore, non solo guerra contadina ma «anche rivendicazione politica della spodestata dinastia borbonica» (p. 199), piegata solo con una repressione feroce: una «guerra civile spesso rimossa, o addirittura sconosciuta» (p. 259). Dei cattolici viene descritta la resistenza contro l’anticlericalismo delle nuove classi dirigenti — «l’anticlericalismo era ideale espresso negli statuti massonici cui avevano giurato fedeltà molti dei protagonisti del movimento nazionale» (p. 273) — e la conseguente persecuzione anticattolica: «Era l’affermazione della religione laica dello Stato italiano, che nell’unità politica individuava il suo principale dogma» (p. 268). Una resistenza che è anche militare, come in occasione de «l’ultima crociata» (p. 277), combattuta da volontari di tutto il mondo in difesa dello Stato Pontificio nel 1867 e nel 1870. L’opera termina con la conquista di Roma del 1870 e, significativamente, con il tentativo dei rivoluzionari di gettare nel Tevere il feretro di Papa Pio IX, nel 1881, a testimonianza di un Paese «unito nella forma giuridica, ma profondamente diviso. [...] Ma è con l’eredità di quell’Italia che ancora oggi, nel bene e nel male, dobbiamo fare i conti» (pp. 364-365).

Un’Appendice su La rivoluzione italiana al cinema e in tv, cioè dei principali film e sceneggiati che in qualche modo si sono occupati del Risorgimento, chiude il libro, ma «in Italia non c’è mai stata una pellicola che abbia avuto come protagonista i vinti, chi si trovava dall’altra parte» (p. 367).


Francesco Pappalardo


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