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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 31 maggio 2008



RECENSIONI


Il Risorgimento, a cura di Alberto Mario Banti e Paul Ginsborg, Einaudi, Torino 2007, pp. 884, € 88,00.


Dopo una lunga stagione di studi caratterizzata da un’attenzione particolare alle dinamiche sociali e istituzionali del processo risorgimentale, la storiografia più recente si sta concentrando sui suoi aspetti culturali e gli studiosi preferiscono descrivere le mentalità, i sentimenti, i progetti politici e personali dei protagonisti.

Su questa scia si colloca il ventiduesimo volume degli Annali della Storia d’Italia, che si apre con una presentazione intitolata appunto Per una nuova storia del Risorgimento (pp. XXIII-XLI), scritta da Alberto Mario Banti, storico dell’Università di Pisa, e da Paul Ginsborg, storico inglese e docente di Storia dell’Europa contemporanea nella Facoltà di Lettere di Firenze, curatori dell’opera e autori di due dei ventisei saggi. «Non si deve chiedere a questo volume un impianto tradizionale — scrivono Banti e Ginsborg —. Non gli si deve chiedere la cronologia dei fatti, i profili dei patrioti, un’equilibrata distribuzione di pagine tra le varie componenti del movimento risorgimentale. Perché il senso di questa raccolta è un altro: fare un passo significativo verso una storia diversa del Risorgimento; una storia che dia respiro alle nuove metodologie, confrontandosi con altre discipline — l’antropologia, gli studi culturali e di genere, l’analisi dei testi scritti, visivi o musicali, l’esplorazione dell’immaginario, la comparazione» (pp. XXIII).

In questa prospettiva il Risorgimento è considerato non più un movimento di élite bensì di massa: non certo nel senso di «[...] venticinque milioni di persone che — come un sol uomo — scattano in lotta contro gli stranieri e gli oppressori. Questa è una visione mazziniana, in quanto tale interessante: ma non è la realtà storica» (ibidem); piuttosto nel senso che vi «[...] hanno preso attivamente parte molte decine di migliaia di persone; che altre centinaia di migliaia di persone, spesso vicine a coloro che hanno militato in senso stretto, al Risorgimento hanno guardato con partecipazione, con simpatia sincera o con cauta trepidazione» (ibidem).

Ciò è vero sotto il profilo del coinvolgimento emotivo dell’opinione pubblica nascente. Con lo sviluppo del movimento risorgimentale, strettamente connesso all’irruzione del Romanticismo, lo stile politico che s’impone, come cultura diffusa e incentivo all’azione, è quello della suggestione, delle allegorie, dei miti trascinanti, che creano la temperie da cui saranno influenzati quanti parteciperanno direttamente alle vicende risorgimentali o si limiteranno a condividerne le ragioni. Da qui l’attenzione riservata nell’opera einaudiana alla musica e alla poesia, ai proclami e agli epistolari familiari, alla pittura e alle stampe, utilizzati come mezzi di una più ampia comunicazione per plasmare la sensibilità e l’immaginario collettivo degli italiani, «capaci di far battere il cuore, capaci di far ribollire il sangue nelle vene, di far appassionare, di far piangere e di spingere all’azione» (pp. XXVII), nella supposizione che occorresse risvegliare la nazione italiana e liberarla dallo stato di servitù allo straniero nella quale era caduta.

Questa operazione d’«invenzione» della tradizione utilizza, secondo i curatori, alcune strutture discorsive elementari, definite «figure profonde» (ibidem), che s’impongono con una forza comunicativa straordinaria e diventano elementi propulsivi del mutamento politico in un arco di tempo relativamente breve: innanzitutto la nazione come una famiglia naturale, cioè reticolo di relazioni che si estende verso le generazioni precedenti e in un territorio particolare, la «terra patria», assimilando così la difesa dell’onore nazionale alla protezione della reputazione familiare; quindi la costellazione di amore/onore/virtù, che anima lo slancio individuale verso l’altro sesso e verso la patria; infine il sacrificio, che introduce i temi della sofferenza e della morte e fonda il nazionalismo come esperienza «religiosa». A partire da questo nucleo essenziale si definiscono la sacralizzazione della nazione e la nuova dimensione emozionale della politica, che aprono la strada a miti dalla forza mobilitante e inducono molti al martirio civile, cioè a dare la vita per l’instaurazione di ideali avvertiti appunto come «sacri». I curatori si soffermano quindi sui «campi di tensione» (p. XXXV) fra il movimento nazionalista e romantico e le realtà sociali e politiche italiane, liquidate però piuttosto sbrigativamente: «In un’Italia caratterizzata dalla frammentazione e dall’arretratezza culturale, e dall’egemonia di una Chiesa conservatrice, gli ostacoli sono notevoli» (ibidem).

Una lettura dell’indice dà l’idea della vastità dei temi affrontati, che impongono una selezione degli argomenti da affrontare in questa sede. La prima parte dell’opera, Amore, famiglia e Risorgimento (pp. 3-179), ha al centro la famiglia e la sua sfera intima, di cui vengono studiate le dimensioni culturale e sociale, nonché i rapporti con la «nazione». Nella seconda parte, Donne e uomini del Risorgimento: esperienze e identità di genere (pp. 181-328), sono presi in esame temi finora inesplorati, in particolare relativi alle questioni di genere; nella terza, Ideologia e religione: discorsi e dibattiti (pp. 329-478), le intersezioni fra ideologia nazionale e influenza religiosa; nella quarta s’indaga su Rituali, pratiche e norme (pp. 479-634) e nella quinta sui Culti della memoria (pp. 635-743). Nella sesta, infine, Tra Europa e Italia: immagini e modelli della nazione (pp. 745-856), si tentano delle comparazioni con altri paesi europei, esaminando sia le modalità con cui il Risorgimento è stato recepito fuori d’Italia sia la circolazione di miti politici fra l’Italia e altri paesi europei.

Il saggio d’apertura di Ginsborg, Romanticismo e Risorgimento: l’io, l’amore e la nazione (pp. 5-67), il più lungo e articolato, illustra la complessità del Romanticismo europeo, che nonostante la sua eterogeneità e l’impossibilità di ridurlo a un’unica modalità espressiva, ha costituito una formidabile forza motrice. Forse non ha rappresentato — con le parole del filosofo politico inglese di origine lettone Isaiah Berlin (1909-1997) — «il cambiamento più profondo e durevole mai avvenuto nella vita dell’Occidente, di portata non inferiore alle tre grandi rivoluzioni di indiscusso impatto, la rivoluzione industriale in Inghilterra, quella politica in Francia e quella sociale ed economica in Russia, alle quali a dire il vero il movimento in oggetto è collegato a ogni livello» (pp. 6-7, n. 6), ma senz’altro è stata «[...] la prima grande moda di massa, quella che potremmo davvero definire il Sessantotto dell’Ottocento» (Ernesto Galli della Loggia, Intervista sulla destra, a cura di Lucio Caracciolo, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 13). Sviluppatosi nella seconda metà del secolo XVIII, soprattutto come fenomeno filosofico e letterario in funzione anti-illuminista, il Romanticismo assume un’estensione e un vigore straordinari, investendo tutti gli aspetti della cultura e della vita politica, pure se con tempi e modalità diverse, se non divergenti, a seconda delle differenti condizioni dei paesi interessati. In Italia si lega fin dall’inizio a sentimenti di autonomia nazionale e di apertura al liberalismo, senza assumere quei caratteri di conservazione che lo contraddistinguono in altri paesi europei.

Uno dei tratti salienti del Romanticismo italiano è quello di avere come principale mezzo di diffusione il melodramma anziché la letteratura e il teatro. Il melodramma, genere drammatico e musicale all’epoca molto diffuso, da puro intrattenimento diventa una disposizione della sensibilità collettiva caratterizzante un intero periodo, occasione per veicolare simboli e umori a cui avrebbe attinto l’estetica risorgimentale. Il centro d’irradiamento è Milano, divenuta dagli anni 1840 in poi il centro dell’opera italiana con la casa editrice Ricordi come sponsor. Gli eventi politici entrano negli intrecci operistici e questi influenzano i linguaggi e i comportamenti politici, secondo un copione descritto da Carlotta Sorba, associato di Storia Contemporanea all’Università di Padova, nello studio su Il 1848 e la melodrammatizzazione della politica (pp. 481-508). Il movimento romantico ne trae la propensione a trasformare la vita in uno scenario di conflitti grandiosi e di gesti iperbolici e a definire un nuovo linguaggio della politica in cui hanno uno spazio crescente la teatralità e la drammatizzazione.

Altri saggi — Spazi dell’immaginario. Festa e discorso nazionale in Toscana tra 1847 e 1848 (pp. 509-539), di Alessio Petrizzo, Il sacramento dell’unità nazionale. Linguaggi, iconografia e pratiche dei plebisciti risorgimentali (1848-70) (pp. 567-605), di Gian Luca Fruci, La memoria degli eroi (pp. 637-664), di Alberto Banti — approfondiscono le modalità di comunicazione politica, in particolare l’adozione di riti e di simbologie innovative nello spazio politico, che in pochi mesi conoscono una progressiva uniformazione fra gli stati della penisola e che raggiungono una forte unità scenica nell’iconografia dei plebisciti nazionali del 1860, grazie anche al lavoro svolto dalla Società Nazionale Italiana. Viene illustrata quindi la creazione di un ricco genere letterario agiografico e martirologico dedicato alla memoria degli «eroi», senza trascurare il ruolo della scuola di fine secolo XIX «nella diffusione d’una etica sacrificale di ispirazione nazional-patriottica» (p. 662, nota 60).

Il Romanticismo agisce innanzitutto nella sfera privata e sui singoli, trasformandoli in soggetti passionali, impulsivi, generosi, pieni di energia e inclini alla malinconia. L’aspirazione maschile all’autorealizzazione non si trasferisce senza problemi dalle passioni personali a quelle pubbliche, né l’anelito maschile all’individualismo è di buon auspicio alla vita familiare. Sebbene la famiglia fosse percepita come prima cellula della compagine nazionale più che della società civile e le si assegnasse il ruolo di suscitar l’amor patrio nelle nuove generazioni e d’indirizzarle all’impegno politico, il rapporto fra la vita familiare e la costruzione dello stato nazionale nel periodo romantico si rivela molto tormentato. La transizione dall’amore romantico a quello coniugale non è un passo facile per uomini intrisi di byronismo — la moda letteraria che recupera gli aspetti più vistosi della personalità e dell’opera del poeta inglese George Gordon Noel Byron (1788-1824) — e non è un caso che fra i protagonisti del Risorgimento solo pochissimi godono di una vita familiare normale: «La vita domestica si collocava in calce alla lista delle loro priorità» (p. 30). L’accento posto sulla libertà del singolo — intesa anche come diritto alla diversità e all’avventura — e sul suo diritto di realizzazione di sé è alla base del pensiero politico romantico, i cui miti fondanti sono la fede nel potenziale insurrezionale naturale del «popolo» e il potere catalizzatore che poteva venire dall’esempio di piccoli gruppi di attivisti. «Era un modello di grande forza ispiratrice, il leitmotiv del contributo dei romantici al Risorgimento, che condusse a numerosi atti di sacrificio, sconfitte e morti e ad almeno una spettacolare vittoria» (p. 56), quella dei Mille di Giuseppe Garibaldi (1807-1882).

Sul rapporto fra Romanticismo e famiglia si soffermano i saggi d’Ilaria Porciani, docente di Storia Contemporanea all’Università di Bologna, Disciplinamento nazionale e modelli domestici nel lungo Ottocento: Germania e Italia a confronto (pp. 97-125), e di Marta Bonsanti, Amore familiare, amore romantico e amor di patria (pp. 127-152), sottolineandone la complessità e i motivi di frizione. Mentre l’individualismo proprio della nuova sensibilità porta spesso il singolo a uno scontro con i valori familiari e l’amore romantico assume connotati di eversione sociale che escono dall’ambito privato, trasferendo lo scontro fra generazioni sul piano del conflitto per il mutamento sociale e politico, la rappresentazione edulcorata della famiglia rafforza l’ideologia della domesticità, cioè la funzione pedagogica dell’istituto familiare, che s’impone come centro capace di orientare il privato alla virtù pubblica della patria. Quest’ultima è rappresentata come una donna e una madre, che si ama e per la quale si combatte e, se necessario, si muore, e per questa comune discendenza i figli della patria sono legati da vincoli di fratellanza.

L’individualismo e una nuova visione dei rapporti uomo-donna contribuiscono a rendere l’amore romantico una valore largamente accettato e a farne l’idea base del matrimonio, cosicché il modello coniugale intimo sostituisce gradualmente quello patriarcale. Il nuovo rapporto fra Padri e figli nel Risorgimento (pp. 153-179), nonché fra mascolinità e nazionalismo, è studiato da Luisa Levi D’Ancona, che indaga prima sullo sviluppo della codificazione giuridica relativa all’autorità paterna, quindi sulla complessa relazione fra le codificazioni e le realtà familiari borghesi nell’Italia del secolo XIX, caratterizzata sia da una varietà di sistemi normativi sia dalle fasi di un accidentato percorso: l’impatto della Rivoluzione Francese e del Codice Napoleonico, la Restaurazione, il 1848, la riforma del diritto di famiglia realizzata fra il 1859 e il 1865 dal Codice che ha preso il nome del giurista e politico Giuseppe Pisanelli (1909-1979). La patria potestà e il maggiorascato, che nell’Antico Regime erano considerati rispettivamente una sorta di magistratura domestica e il sostegno dell’unità familiare, a sua volta base dell’ordine sociale, vengono gradualmente limitati e poi soppressi in nome dell’individualismo nel cui segno, denunciava il gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862), erano state colpite a morte «le costumanze, le forme organiche, le memorie avite» (p. 161). La codificazione ha un’influenza significativa sulla vita familiare ma non la determina, anche se conduce in parte sotto il controllo dello Stato le persone soggette all’autorità del capofamiglia. Negli anni della tempesta romantica e del richiamo a una «riforma morale» della nazione si fa appello alle potenzialità ispiratrici delle donne, spose e madri di futuri eroi e angeli tutelari dei costumi della società.

Simonetta Soldani, docente di Storia Contemporanea all’Università di Firenze, nel saggio Il Risorgimento delle donne (pp. 183-224) indaga sulla percezione che in quella particolare temperie le donne avevano di sé stesse e dei propri orizzonti di vita, e mostra che l’idea di un «risorgimento», cioè di una rigenerazione morale e civile, non investe solo la sfera politica ed economica ma anche la comunità nel suo insieme, inducendo uomini e donne ad attivare e poi ad alimentare quel circolo virtuoso di riscatto che identificava la nazione con la modernità e con il progresso. Già negli ultimi decenni del secolo XVIII nasce in alcuni gruppi il bisogno di proiettarsi verso nuovi scenari, modellati su quelli in via di affermazione nei paesi guida del continente europeo, che una schiera sempre più folta di viaggiatori stranieri usava come riferimento per descrivere l’Italia, valorizzandone i tratti comuni sulla base dell’eredità classica e sottolineando le differenze con i paesi più «civili». Al centro del discorso sono gli uomini, esortati a ricuperare la virilità perduta, e le donne, chiamate a svolgere un ruolo attivo, innanzitutto nei salotti, volto al riordinamento e all’ingentilimento della società, e alla famiglia, da fondarsi sull’amore della coppia piuttosto che sugli interessi dei rispettivi casati. Il periodo napoleonico avrà «un ruolo decisivo nello sparigliare ordini sociali e strutture mentali o nel mettere in movimento idee e aspettative» (p. 188), anche se il nuovo Codice civile, entrato in vigore nella penisola fra il 1806 e il 1809, elabora norme che sanciscono l’inferiorità legale delle donne. Costoro partecipano sempre più alle innumerevoli iniziative di carità e di beneficenza nate negli anni della Restaurazione a fronte del dilagare delle teorie e delle pratiche dell’individualismo. Anche la Chiesa affida alle donne un ruolo cruciale nella propagazione della fede per restaurare l’ordine sociale e morale messo in pericolo; non è casuale la fortuna di nuove forme di organizzazione religiosa femminile, con 127 nuove fondazioni religiose fra il 1800 e il 1860. L’opera Del Primato morale e civile degli italiani, di Vincenzo Gioberti (1801-1852), fondato sul carattere strutturante del cattolicesimo per l’identità nazionale italiana, entusiasma le donne interessate ai nuovi fermenti culturali e politici, e il loro ingresso nel movimento patriottico viene facilitato dal favore iniziale della Chiesa e dalle modalità delle manifestazioni pubbliche che si modellavano su quelle religiose.

Quanto all’intreccio fra le concezioni tradizionali e un nuovo ideale di virilità eroica, l’esempio migliore è quello di Giuseppe Garibaldi, la cui fama — nota la studiosa inglese Lucy Riall in Eroi maschili, virilità e forme della guerra (pp. 253-288) — «[...] fu il risultato di una deliberata strategia politica e retorica, che mirava a fare della sua figura l’incarnazione d’una italianità rivitalizzata» (p. 267). All’inizio del secolo XIX il «carattere nazionale» italiano si sviluppa con riferimento sia al senso di un primato culturale e storico sia alla percezione della debolezza e del declino presenti, di una degenerazione dovuta o alla scomparsa delle virtù militari o a un’educazione svirilizzante, propria del cattolicesimo, o alla politica assolutistica dei sovrani. La guerra, dunque, è vista come una dimostrazione di coraggio e di virilità, una smentita a quanti presentavano gli italiani come codardi: «In tal modo, la guerra e la glorificazione dell’aggressione — combattimento, violenza e morte — in termini di coraggio, disciplina e martirio erano collegate a una esortazione a essere italiani e uomini veri» (pp. 259-260).

Nell’Italia del Risorgimento la guerra, collegata anche in altri paesi europei alla difesa della patria e al carattere maschile, diventa simbolo di ribellione e strumento di rinnovamento morale. L’appello all’azione militare è un richiamo a diventare italiani, anche se gli strateghi della rivoluzione non si accorderanno mai sul tipo di guerra da condurla. Ma dopo le sconfitte del biennio 1848-1849 e la difesa di Roma e di Venezia da parte di milizie volontarie, queste cominciano a svolgere un ruolo decisivo nella strategia militare del movimento nazionale italiano, esercitando una potente attrattiva sui giovani borghesi colti dell’Europa di metà Ottocento. I volontari diventano modello del guerriero risorgimentale e il corpus di scritti da loro prodotto contribuisce a fare del Risorgimento una «storia di fondazione» e a fissare una serie di episodi cruciali che sarebbero diventati oggetto di commemorazione e di celebrazione nell’ambito della memoria ufficiale. Tuttavia, al di là della sua forza sul piano simbolico, il volontariato è efficace solo sporadicamente, anche se in modo spettacolare, fornendo ai monarchici l’opportunità di condurre l’unificazione grazie all’esercito regio. «E il fatto che molti italiani fossero restii a impegnarsi militarmente per raggiungere la propria emancipazione rivelò il persistere di un divario fra i leader politici e buona parte della cultura italiana che il Risorgimento, con tutta la sua retorica, non riuscì sul piano pratico a colmare» (pp. 264-265).

Le intersezioni fra ideologia nazionale e influenza religiosa vengono studiate attraverso la «religione politica» di Giuseppe Mazzini (1805-1872) — con i saggi di Martin Thom, Europa, libertà e nazioni: Cattaneo e Mazzini nel Risorgimento (pp. 331-378), e di Simon Levis Sullam, «Dio e il Popolo»: la rivoluzione religiosa di Giuseppe Mazzini (pp. 401-422) — e i rapporti fra l’immaginario religioso e quello politico fino alla decisa cesura verificatasi dopo il 1848 fra movimento patriottico e Chiesa cattolica.

La cultura politica europea nell’età del Romanticismo e della Restaurazione è caratterizzata da un immaginario di simboli e di miti religiosi nonché da una commistione fra princìpi nazionalistici, rivoluzionari e teologici. In un clima caratterizzato da nuove proposte politiche, dottrine sociali e prospettive religiose, che alimentavano la sensazione di un mondo sull’orlo di trasformazioni epocali, si colloca anche il pensiero mazziniano, illuminato da una religiosità eterodossa. Nelle sommosse di Bristol o nell’insurrezione lionese, entrambe del 1831, l’agitatore genovese scorge l’urgenza della questione sociale; nelle rivolte di Parigi, di Bruxelles, nell’Italia Centrale e soprattutto di Varsavia, vede l’inizio della Santa Alleanza dei popoli e di una grande epoca di rinnovamento. «Anche a causa della natura indefinita, soprattutto simbolica e rituale, del suo pensiero e del suo stile politico, l’eredità della rivoluzione religiosa mazziniana sarebbe stata in seguito raccolta, interpretata e riproposta in modi diversi e talora opposti nei decenni a venire» (p. 422).

Enrico Francia, docente di Storia del Risorgimento all’Università di Padova, nel saggio «Il nuovo Cesare è la patria». Clero e religione nel lungo Quarantotto italiano (pp. 423-450), offre una lettura complessiva del ruolo della Chiesa e del clero nel biennio rivoluzionario 1848-1849. In quel periodo in Italia, dove le istituzioni ecclesiastiche rappresentano un grande strumento di mediazione politica e culturale fra le élite e i ceti popolari, l’identità nazionale viene fortemente connotata in chiave religiosa. I nuovi governi guardano al clero come strumento decisivo di mobilitazione patriottica e le gerarchie ecclesiastiche non avvertono serie minacce all’ordine cristiano della società né presagiscono mutamenti radicali nei rapporti fra Chiesa e Stato, anche se le feste pubbliche indette per le riforme concesse dai sovrani adottano simboli e linguaggi equivoci, volti a legittimare l’opinione pubblica liberale e a investire i sovrani del ruolo di campioni del riscatto nazionale. Negli appelli alla mobilitazione militare e nella propaganda contro il nemico interno ed esterno «siamo di fronte non solo a un calco morfologico del linguaggio religioso, strategia comunicativa funzionale ad assicurare una più ampia ricezione del discorso nazional-patriottico, ma al tentativo di rendere indissolubile l’intreccio tra religione e nazione, avocando alla prima un ruolo fondativo e legittimante» (p. 441). La disponibilità di molti ecclesiastici a recepire il messaggio patriottico affonda le sue radici, secondo l’autore, in una cultura religiosa che nei decenni precedenti era stata permeata da miti e sensibilità ruotanti intorno al tema della rinascita della nazione nel nome della religione; senza trascurare nel Regno delle Due Sicilie la presenza di numerosi sacerdoti attirati dalle sirene della rivoluzione sociale e nel Regno Lombardo-Veneto l’ostilità del clero al regalismo imperiale. Ma il deciso intervento chiarificatore di Papa Pio IX (1846-1878) mette in crisi l’idea di un risorgimento nazionale benedetto dalla religione cattolica.

Un’attenzione particolare, infine, merita lo studio di Marco Meriggi, ordinario di Storia delle Istituzioni Sociali e Politiche all’Università di Napoli, Gli antichi stati crollano (pp. 541-566), il più tradizionale nell’impostazione e comunque innovativo nelle argomentazioni. Il crollo degli stati italiani pre-unitari è motivato innanzitutto con il tramonto del sistema dei rapporti di forza europei sancito a Vienna nel 1815 e messo in crisi dall’aggressiva politica di potenza condotta dall’imperatore francese Napoleone III (1808-1873), dallo sfilacciamento dei legami di solidarietà fra le monarchie tradizionali e dalla consapevolezza dei mutati equilibri internazionali, che rendevano ardua la sopravvivenza dei piccoli stati. La fine di quelli italiani «[...] anticipò, dunque, un più generale fenomeno congiunturale di cancellazione degli stati minori che presto avrebbe interessato anche altre aree d’Europa» (p. 544), in particolare quella germanica. E tuttavia per diverso tempo si pensò a una crisi destinata a ricomporsi nel quadro di un’Italia ancora policentrica e polistatale, anche se costituzionalizzata e federale, ma una serie di fattori — fra cui l’atteggiamento britannico, ispirato a radicalismo, fantasticherie romantiche, insofferenza per il cattolicesimo — determinarono l’esito diverso, anche perché le mene dell’intelligence sabaude «[...] non vennero in genere osteggiate da un robusto fronte legittimista alternativo [...]. La Toscana non conobbe tra la primavera e l’estate del 1859 un nuovo Viva Maria!, né i ducati e le Legazioni qualcosa di anche lontanamente paragonabile alle insorgenze anti-giacobine caratteristiche del periodo tra Sette e Ottocento» (p. 551). Anche se Meriggi non trascura i risvolti dell’unificazione «[...] certamente sgradevoli, ma non di meno autentici e documentati, abitualmente rimossi dalla storiografia agiografica sul Risorgimento» (p. 554, nota 14) — come il trasformismo di comodo delle élite, anche militari, l’atteggiamento di gran parte dei soldati che rimase fedele ai sovrani spodestati, «patendone in seguito una prolungata e ancora poco indagata penalizzazione» (p. 561), l’avvilimento postunitario di Napoli, «capitale di fatto cogestita dalla camorra» (p. 563), i brogli e le intimidazioni in occasione dei plebisciti, «un dato sostanzialmente accettato da tutta la storiografia» (p. 565) — resta esclusa dall’analisi di tutti gli autori dell’opera una questione rilevante, cioè il mancato coinvolgimento di gran parte della popolazione italiana nella costruzione retorica della mitologia risorgimentale, anche in seguito rimasta appannaggio di una ristretta élite intellettuale con le conseguenze negative avvertite ancora oggi.


Francesco Pappalardo


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