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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 26 settembre 2008



RECENSIONI


Cormac McCarthy, Sunset Limited, Einaudi, Torino 2008, 119 pp., € 10.


Dio non parla ai virtuosi. A dirla meglio, non parla a chi sia eventualmente virtuoso perché è virtuoso. Dio parla a chi è disposto a rimanere in silenzio ad ascoltarLo. Questa mi sembra una delle possibili chiavi di lettura dell’ultima traduzione italiana — invero assai pregevole — di un lavoro di Cormac McCarthy, il «romanzo in forma drammatica» Sunset Limited, pubblicato negli Usa nel 2006, e solo quest’anno presso Einaudi qui da noi.

Ed in effetti, si deve riconoscere che da sempre la principale difficoltà dell’uomo nel comunicare con Dio è il rifiuto di farlo in una posizione di subordinazione, di ascolto, di ascolto silenzioso, per poi rispondere con le opere, con la vita nella sua interezza. L’uomo a volte preferisce discutere con Dio (o discutere Dio?), piuttosto che dargli una risposta con la sua stessa esistenza, votandola a cercarne la volontà. E così, è tutt’al più disposto a parlare con Dio da pari a pari, da virtuoso, perché non è immaginabile che Dio parli se non con i suoi pari, con i virtuosi. In questo modo il Bianco argomenta l’impossibilità che Dio gli parli, ed è allora che il Nero gli replica che Dio parla a chi lo ascolta, in silenzio (cfr. p. 91).

Sono loro due, il Bianco e il Nero, gli unici due personaggi del romanzo di McCarthy, che, seduti intorno a un tavolo, in un dialogo serrato — che ricorda i migliori precedenti di questa forma letteraria e filosofica, dai dialoghi platonici a quello di Carl Schmitt (1888-1985) sul potere — discutono senza nulla tacersi sulle questioni ultime, si pongono l’uno contro l’altro le domande decisive e oppongono l’uno all’altro le proprie ragioni. Essi danno vita alla perfetta drammatizzazione delle alternative esistenziali radicali, rispetto alle quali tutti gli altri comportamenti, quelli nettamente maggioritari nel vissuto, sono solo il risultato d’incoerenza o di quella volontaria elusione di esse che tuttavia segnalano attaccamento istintivo alle ragioni della vita.

Il loro è un dialogo metafisico, che trascende tempi e luoghi e con essi la stessa individualità storica degl’interlocutori, che pure viene abbozzata per incarnare quanto basta i diversi spiriti che li muovono, i tipi che rappresentano. E quindi ne risulta un’opera intensamente filosofica — nella misura in cui s’interroga e sollecita a riflettere sulla realtà (l’essere) del mondo e sulle ragioni (il senso) dell’esistenza di esso e in esso dell’uomo —, ancorché più modestamente qualificata dall’autore come romanzo. Ma c’è più verità sull’essere e sul senso in questo romanzo in «forma drammatica» (1), di quanta se ne trovi in tante opere sedicenti filosofiche.

E non è un dialogo accademico. Entrambi i protagonisti hanno uno scopo — solo i moralisti kantiani e i tardi epigoni della «morale pura», come dell’«arte pura» e della «politica pura», finanche della «religione pura», che non promette ricompense, possono pensare l’azione umana priva di finalità e di finalità «interessate». Il Bianco si sente gnosticamente prigioniero della vita e del mondo, e vuole morire, anzi vuole annientarsi, e cerca di liberarsi liberandosi del Nero per poter «prendere» finalmente il Sunset Limited, il velocissimo treno il cui impatto neppure avrebbe sentito se da esso non fosse stato strappato con la forza. Il Nero vorrebbe completare l’opera iniziata giù in metropolitana, e salvarlo.

Il bordo del binario diventa così il «bordo dell’universo», sul quale ogni uomo prima o poi si affaccia, e la stanza del dialogo, a casa del Nero, un «lazzaretto dello spirito», dove però può essere curato solo chi vuol guarire. E vuol guarire davvero chi fa domande, perché «chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste» (p. 56).

Ma il professore Bianco ha smesso di fare domande. Ha letto due libri a settimana, cento all’anno per quarant’anni. E adesso che sa tanto, sperimenta quello che sant’Agostino (354-430) già aveva insegnato: «il semplice sapere rende tristi». L’avrebbe detto anche Papa Benedetto XVI all’Università di Roma La Sapienza: «[…] chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste». E questa tristezza rende disperati. Peggio, rende cattivi, riempie di rancore contro il mondo e la vita malriusciti, che non ne vogliono sapere di piegarsi e conformarsi secondo l’umana scienza — la gnosi —, sebbene si sappia che i valori che essa offre sono «molto fragili» (p. 21). La mancanza di umiltà — la stessa che induce a pensare che Dio non potrebbe parlarci perché non siamo virtuosi, perché il dio degli orgogliosi parla solo a quelli come lui, ai perfetti — impedisce di vedere oltre il fenomeno — l’avvenimento — pur nella sua tragedia, pure se il suo nome è Dachau, la bontà e il bene fondamentali che trascendono, reggono e danno senso al mondo e alla vita. Impedisce di capire «che bisogna amare i propri fratelli, altrimenti si muore» (p. 101). Quelli che ogni giorno malediciamo in silenzio, fra noi e noi, quando ce li troviamo davanti in quell’ideale metropolitana che è la vita (cfr. pp. 73-76), invece di fare di ogni incontro — anche in silenzio, anche solo con uno sguardo o con un semplice modo di essere, un certo stile (2) — un «lazzaretto dello spirito».

E così non resta altro che odiarli il mondo e la vita, la nostra stessa vita, ridotti a incubo assurdo.

Non resta altro che odiare sé stessi e ogni fratello, tanto quanto è partecipe dello stesso destino. «E lei mi viene a dire che nel mio fratello sta la mia salvezza? La mia salvezza? Be’, allora lo maledico. Lo maledico sotto ogni forma e sembianza. Mi ci rivedo, in lui? Sì che mi ci rivedo. E quello che vedo mi disgusta» (p. 115).

Non resta altro che cercare non tanto la morte, ma l’annientamento.

Infatti, la disperazione suicida del Bianco è nutrita anch’essa da una speranza – tanto incoercibile è per l’uomo quest’attitudine fondamentale che per i cristiani è virtù teologale —: la speranza che la morte sia davvero la parola fine. «Io anelo all’oscurità. Io prego che arrivi la morte. La morte vera. Se pensassi che da morto incontrerei le persone che ho conosciuto in vita, non so cosa farei. Sarebbe la cosa più orrenda. Il colmo della disperazione. Se dovessi rincontrare mia madre e ricominciare tutto daccapo, ma stavolta senza la prospettiva della morte a consolarmi… Be’, quello sarebbe l’incubo finale, Kafka coi controfiocchi» (p. 113) «Adesso mi resta solo la speranza del nulla» (p. 118).

In questo abisso nichilista — dalla tragica coerenza — si precipita non per quello in cui non si crede, ma per quello in cui si crede (cfr. p. 78): quando, cioè, si crede che non vi sia nulla in cui credere. Nulla oltre la propria scienza, la cui parola finale è inutilità di tutto. Una fede nel nulla, che è l’assoluto della postmodernità, la sua «religione», quella che il Bianco cerca mentre la pratica: «Mi mostri una religione che prepari l’uomo alla morte. Al nulla. Quella sarebbe una chiesa in cui potrei entrare» (p. 114).

Non tutti la praticano con lo stesso ascetico fervore del Bianco — lo dicevo prima: incoerenza ed elusione che segnalano attaccamento esistenziale (e provvidenziale) alle ragioni della vita —, ma è l’unica alternativa reale a quella del Nero.

A quella di chi organizza i «lazzaretti dello spirito». A quella di chi cerca nel pensiero solo «la scia del profumo della divinità», altrimenti non gl’«interessa» (p. 12). A quella che, unica, consente di sfuggire alla «morte in vita» (p. 12). A quella che non cerca tanto di capire (costruire?) Dio, ma «solo di capire cosa vuole» da noi per obbedirGli (p. 88). A quella di Gesù Cristo.

È un aut aut. L’alternativa è delineata nettamente.

E sembra che a trionfare siano le ragioni del Bianco. Sembra. Egli si rivela. «Lei mi ha chiesto di che materia sono professore. Sono un professore delle tenebre. Della notte travestita da giorno» (pp. 116-117). E mentre lo dice, vedo un ghigno, un pallore verdastro sul suo volto e le pupille ridursi ad una punta di spillo mentre gli occhi s’iniettano di sangue.

«Loico» è il professore. E la distruzione, anzi l’auto-distruzione — pur di non piegare il ginocchio davanti a Dio, pur di non accettarne i disegni anche quando sono umanamente incomprensibili — è per lui l’unica via. Le parole del Nero non l’hanno salvato.

Ma… «Non fa niente. Non fa niente. Anche se non mi parli mai più lo sai che mantengo la tua parola. Lo sai. Lo sai che sono capace», conclude il Nero, rivolto al Signore in ginocchio e piangendo (p. 119).

Il Nero e il Bianco non erano soli. Sul tavolo, fra loro, c’era la Bibbia. C’è ancora. Si vis, «se vuoi», non c’è ragione per prendere il Sunset Limited.

Giovanni Formicola


Note:

(1) Cfr. «[…] presso tutti i popoli del mondo, prima che diventasse dominante il ragionare con monotona freddezza, ci fu l’abitudine di dare all’insegnamento una forma drammatica, perché in realtà non esiste mezzo più potente per renderlo il più possibile penetrante e incancellabile: così sono nate dappertutto delle "leggende", cioè delle storie da "leggere" per l’istruzione di tutti» (Joseph de Maistre [1753-1821], nota XXII a Plutarco di Cheronea [47 ca. -127 d.C.]. Perché la giustizia divina punisce tardi, in Idem, Le serate di Pietroburgo, o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, trad. it., Rusconi, Milano 1971, p. 729).
(2) Cfr. «La fede cattolica è molto più di un insieme di principi sui quali concordiamo. È piuttosto uno stile di vita completamente nuovo. Le persone devono vedere questa nuova vita vissuta. Devono vedere la gioia che essa reca. Devono vedere l’unione del credente con Gesù Cristo» (Charles J. Caput [arcivescovo di Denver, Usa], Render Unto Caesar. Serving the Nation by Living Our Catholic Beliefs in Political Life, Doubleday, New York 2008, p. 190).

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