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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 9 maggio 2010



RECENSIONI


DANIELA ORTA, Le piazze d'Italia. 1846-1849, Carocci, Roma 2008, pp. 400, € 41,10.


La piazza ha rappresentato nel secolo XIX, anche nella penisola italiana, uno dei luoghi privilegiati dell’azione politica, soprattutto come effetto di un lungo processo che aveva preso l’avvio con l’esperienza rivoluzionaria francese di fine secolo XVIII. Daniela Orta, dottoranda in Storia delle Società Contemporanee presso la Scuola Superiore di Studi Storici dell’università di Torino, ha dedicato un libro all’analisi del ruolo delle piazze negli anni dal 1846 al 1849 offrendo, grazie in particolare all’ampia consultazione della stampa dell’epoca, una panoramica approfondita delle numerose iniziative politiche e insurrezionali assunte nei differenti Stati italiani.

In otto capitoli vengono prese in esame sette città — Roma, Livorno, Torino, Venezia, Milano, Napoli e Palermo — secondo una scansione che non è topografica ma cronologica: da La piazza del papa, che ha inizio con l’elezione di Papa Pio IX nel 1846, a La piazza delle riforme, cioè alle inquietudini di Torino e di Livorno nell’anno seguente, quindi alle rivolte del 1848 e, infine, a La piazza che resiste, con le esperienze repubblicane di Roma e di Venezia. Se le piazze, nella descrizione dell’autrice, sono caratterizzate in maniera un po’ scontata dalla posizione delle avanguardie politiche locali — Torino è solo dei moderati, Livorno esclusivamente dei democratici, e così via —, la ricostruzione degli avvenimenti è molto accurata.

Nel 1848 la politica esce all’aperto e lo scambio delle idee si trasferisce sulla stampa, cui si aggiungono presto i circoli, che saranno, insieme alle feste e alle dimostrazioni di piazza, i segni di una nuova sociabilità; centri di discussione e di aggregazione, come i caffè, che sostituiscono i vecchi luoghi di formazione del consenso, cioè la famiglia, le parrocchie, le corporazioni, le confraternite e le altre comunità tradizionali. Il carattere simultaneo di molte dimostrazioni sembra dar significato alle parole di Massimo d’Azeglio secondo cui "l’opinione" era ormai la vera padrona del mondo; era evidente, del resto, che l’opinione pubblica era il frutto di un lungo e intenso lavorìo sotterraneo di propaganda. Significativo è il rapporto inviato dall’ambasciatore sabaudo a Roma, marchese Domenico Pareto, al ministro degli Esteri sardo, il conte Clemente Solaro della Margherita, il 19 giugno 1847: "La dimostrazione popolare de’ 17 abbenché non abbia disturbato in modo alcuno la tranquillità pubblica, è ciò nullameno un fatto di somma importanza, e prova chiaramente l’esistenza di un piano cui ciecamente ubbidisce la massa del popolo che si fa agire nel modo che più conviene alle viste di chi lo dirige" (p. 41). Se a Roma l’elemento di traino è il popolano Angelo Brunetti detto "Ciceruacchio", capo-rione che faceva da tramite fra le élite e la popolazione, a Torino è l’aristocratico Roberto d’Azeglio a tenere i collegamenti fra il sovrano e la borghesia liberale della capitale sabauda.

I ceti subalterni e i lavoratori precari, spaventati dalle angosce economiche di quegli anni, forniscono quasi ovunque la massa d’urto ma vi sono spesso una meticolosa preparazione degli eventi da parte gruppi ristretti di "patrioti" e il controllo della mobilitazione popolare da parte delle élite che guidano la rivoluzione e cercano di controllarne ogni fase. Ciò è più evidente a Torino, La piazza dei moderati, mai spontanea, sempre controllata dal sovrano e dall’abile regia di d’Azeglio e dei suoi uomini, che permette di attuare una rivoluzione preventiva al centro della quale resta saldo il ruolo della monarchia. Invece a Livorno, La piazza dei democratici, le idee liberali s’intrecciano con le aspirazioni di tipo corporativo di alcune categorie di lavoratori, innanzitutto i facchini e i navicellai, che daranno agli avvenimenti cittadini una loro peculiarità fra rivendicazioni politiche e sociali. A Milano, La piazza antiaustriaca, uno strutturarsi di trame per un’insurrezione contro l’Impero d’Austria, pur nella dicotomia fra lo schieramento moderato e quello democratico, determina una lotta corale e interclassista, mentre a Venezia la propaganda liberale ha meno presa, anche perché non vi erano gruppi di attivisti paragonabili a quelli della capitale lombarda e l’ostilità antiasburgica era limitata ad alcuni segmenti dei ceti medi e di quelli più agiati. C’è infine Napoli, La piazza della controrivoluzione, dove le manifestazioni popolari sono contro lo Statuto: nella "giornata" del 15 maggio la stragrande maggioranza della popolazione non sarà in piazza e insorgeranno non più di mille persone, in gran parte calabresi e siciliani.

L’opera — che non vuole essere uno studio sul 1848 ma l’esplorazione di un particolare, quello della piazza — mette in luce molti aspetti di quel tornante storico: la difficoltà dei sovrani nel dare risposte efficaci ai nuovi bisogni dei loro sudditi; la fragilità, e talvolta la divisione, delle élite che avevano guidato la rivoluzione; il clima inizialmente festoso di molte manifestazioni, che nasconde invece disagio e malessere e manifesta l’aspettativa di migliorare le proprie condizioni di vita attraverso un mutamento dell’ordine esistente; l’avversione, talvolta decisiva, delle popolazioni rurali agli avvenimenti rivoluzionari.

Francesco Pappalardo

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