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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito l'8 gennaio 2011


RECENSIONI



GIAMPAOLO PANSA, Il revisionista, Rizzoli, Torino 2009, pp. 474, € 22,00.


Grazie agli endorsement "prestigiosi" di Oriana Fallaci (1929-2006), di Giuliano Ferrara, di Marcello Pera, fino a quello di Magdi Cristiano Allam, una nuova visione "politicamente scorretta" della storia italiana e di altre problematiche filosofiche, etiche e politiche, ha guadagnato spazi enormi, che sembravano a dir poco impensabili fino a poco tempo fa.

Per esempio, da quando Oriana Fallaci inaugurò la battaglia contro le derive della fecondazione artificiale legalizzata e la rivoluzione bioetica — referendum sulla legge 40/2004 — addirittura dalle colonne del Corriere della Sera, da quando Giuliano Ferrara ha fondato quell’imprenscindibile testata di opinione che è il Foglio quotidiano — creando, de facto, qualcosa che prima nella battaglia culturale non c’era —, da quando un filosofo liberale e laico come Marcello Pera — rispettato "trasversalmente" — ha dato vita a dialoghi pubblici con credenti legittimando autorevolmente — in luoghi istituzionali — la dimensione pubblica della fede, e da quando infine un ex musulmano, già firma del quotidiano "laico" la Repubblica e dello stesso Corriere della Sera, come Magdi Allam, si è fatto battezzare in San Pietro dalle mani di Benedetto XVI assumendo il nome di Cristiano, sostenere tesi controcorrente e "di destra" in Italia non scandalizza più nessuno.

Giampaolo Pansa, intellettuale di sinistra da sempre, e tuttora orgoglioso della sua tradizione antifascista, è forse l’ultimo — per ora — nome importante che si è aggiunto a questo gruppo di personalità di primo piano del panorama culturale italiano, le quali, non provenendo da destra e, meno che mai, di formazione cattolica, sono riusciti riescono a imporre nell’agenda del dibattito pubblico — proprio in ragione della loro biografia "insospettabile" — temi che, altrimenti, non avrebbero la minima possibilità di venire ascoltati e valutati con attenzione, a nessun livello.

* * *

Uno dei più recenti lavori — ne sforna a un ritmo talmente veloce, che si stenta a star loro dietro… — del giornalista di Casale Monferrato (Alessandria) si presenta come un contributo corposo, una sorta di generale status quaestionis —, non esente da aneddoti autobiografici — sulla vicenda che da qualche anno lo impegna di più: quella cioè relativa ai crimini della Resistenza perpetrati in Italia all’indomani del 25 aprile 1945 e proseguiti fino ai primi mesi del 1948, quando le vendette fratricide di italiani verso altri italiani che avevano la sola colpa di "non pensarla bene" finalmente terminarono.

Il racconto di Pansa questa volta prende spunto dalla rievocazione di due delitti commessi da partigiani comunisti, membri del Partito Comunista Italiano (Pci), nei confronti di altri compagni di partito che non sposavano la linea filo-sovietica che si delineava negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale e optavano invece per il vecchio internazionalismo, libero da imposizioni esterne, fossero pure quelle di Josip Stalin (1878-1953). Mario Acquaviva (1900-1945), segretario della sezione astigiana del partito comunista e Fausto Atti (1897-1945), addirittura uno dei fondatori del Pci nel 1921, entrambi incarcerati durante il fascismo, furono assassinati nel confuso post-25 aprile proprio per questo motivo. Ai due dissidenti, peraltro, come oggi spiegano i loro figli, la sentenza di morte era stata già anticipata con un duro aut-aut: se non si fossero allineati alla linea moscovita seguita allora dal capo e leader indiscusso del partito, Palmiro Togliatti (1893-1964), un giorno non sarebbero tornati a casa. E così accadde. In entrambi i casi, degli esecutori materiali della sentenza non si seppe mai nulla.

Di vicende come queste, purtroppo, quei tre terribili anni abbondano. In questo senso il libro di Pansa, che riprende anche la lezione autorevole in materia dello storico Renzo De Felice (1929-1996), parla di due guerre civili.

La prima, e più nota, è quella che vide fronteggiarsi italiani contro italiani negli ultimi due anni della guerra e simboleggiata esemplarmente nella vicenda breve e drammatica della Repubblica Sociale Italiana (Rsi) di Benito Mussolini (1883-1945). Tuttavia per Pansa ci fu anche una seconda guerra civile, parallela e, poi, successiva alla prima, tutta interna all’area comunista, in cui i compagni che si proclamavano custodi della linea ufficiale del partito uccisero, o fecero uccidere, tutti gli altri "compagni" — in tesi, antifascisti come loro — che optavano semplicemente per una linea politica diversa, "trotzkysta" o magari "titina".

Dagli episodi raccontati da Pansa emergono quindi complessivamente cinque grandi verità sulla storia della Resistenza, da lui così sintetizzate: 1) le vendette dei vincitori erano state "così sanguinarie da sporcare senza rimedio la buona causa della Resistenza", come nel caso dei partigiani che uccidevano "centinaia di donne che avevano l’unica colpa di essere madri, mogli, sorelle e figlie di fascisti" (p. 99); 2) "la buona causa della Resistenza, la causa giusta, non era la bandiera di tutti i partigiani, dal momento che i comunisti combattevano per un finale autoritario della guerra: l’imposizione di una dittatura rossa al posto di quella nera" per far diventare l’Italia una repubblica comunista e uno stato satellite dell’Unione Sovietica (Urss) (p. 100); 3) i fascisti della Repubblica Sociale non erano tutti dei mostri, dei carnefici, dei torturatori: "nell’esercito repubblicano si erano arruolati tanti ragazzi per bene, convinti di difendere la patria dagli inglesi e dagli americani. Giovani che si comportarono in modo leale, senza ferocia, senza sadismi" (p. 101); 4) con riferimento agli storici e ai libri di storia, tanto scolastici, quanto specialistici, "non si poteva descrivere una guerra civile ascoltando soltanto la voce di chi aveva vinto. Anche gli sconfitti andavano sentiti. E la loro testimonianza era indispensabile quanto quella dei trionfatori", secondo il consolidato principio metodologico dell’"audiatur et altera pars" (p. 102); 5) infine, in Italia, per decenni e in alcuni casi ancora oggi sono stati proprio coloro che reclamano continuamente l’onore di aver combattuto per la libertà a imporre — sui questi fatti — un clima storiografico liberticida negli istituti di ricerca, nelle università e nei giornali. Costoro, definiti in un altro libro recente "i gendarmi della memoria", contestano perfino il discorso del 2006 del Presidente della Repubblica, e già storico dirigente del Pci, Giorgio Napolitano in cui si legge che nella vicenda resistenziale non mancano "le zone d’ombra, gli eccessi e le aberrazioni" (cit. a p. 110). In ciò, accusa Pansa, che ideologicamente resta un convinto uomo di sinistra, "la Sinistra italiana non è mai cambiata" (p. 316). Come dimostra, per esempio, fin da tempi non sospetti, la storia di Beppe Fenoglio (1922-1963), scrittore e partigiano, che osò contestare la vulgata resistenziale in un libro degli anni 1950 — I ventitrè giorni della città di Alba —, limitandosi a descrivere qualche fatto in più del solito, non tralasciandone qualcuno forse meno opportuno politicamente per amore della verità storica, e che fu quindi trattato come un avversario dai suoi stessi amici, da un giorno all’altro.

Questo è uno dei meriti indiscussi della ricerca di Pansa: chiamare in causa gli stessi protagonisti di allora, e le loro testimonianze, dai versanti più insospettabili, per iniziare a scrivere una storia finalmente obiettiva di quegli anni. Oltre a Fenoglio e a Napolitano Pansa rintraccia persino delle considerazioni di Eugenio Scalfari, fondatore ed ex direttore de la Repubblica, che in un suo vecchio libro sosteneva quanto Pansa va sostenendo oggi, denigrato da tutti gli ex "compagni", compreso lo stesso Scalfari, e cioè che "la Resistenza fu un fatto di minoranza, limitato sia geograficamente (interessò soltanto l’Italia a nord dell’Arno) sia socialmente" (cit. a p. 270). Si tratta qui peraltro della stessa prospettiva di De Felice quando questi parla della "grande zona grigia", composta dai civili, che erano la stragrande maggioranza, e che non si erano schierati con nessuna delle parti in conflitto, aspettando soltanto che la guerra finisse.

Da ultimo, a sostenere il lavoro di Pansa è arrivato l’editore Carlo Caracciolo (1925-2008), in gioventù partigiano e già presidente del gruppo editoriale l’Espresso, che, in un’intervista recente a La Stampa, poco prima di morire, ha dichiarato: "rispondono al vero, e potrei constatarlo di persona, molti degli episodi barbarici che Giampaolo Pansa ha raccontato nei suoi libri. Oltre che veritieri erano inevitabili" (cit. a p. 459).

Sulle cifre complessive delle vittime, Pansa riprende gli studi di Michele Tosca, per arrivare a concludere che i fascisti, o ritenuti tali, uccisi nell’arco di tempo che va dall’8 settembre 1943 fino al 1948 furono circa 45.200. Fra questi gli assassinati dalle bande partigiane comuniste nell’ambito di quella "seconda guerra civile" cui facevo riferimento, dovrebbero essere circa 19.000. Va ricordato che in gran parte si tratta di persone i cui corpi furono fatti scomparire, aggiungendo così umiliazione a umiliazione per le rispettive famiglie. La conclusione di Pansa è che l’Italia sia un Paese ancora spaccato, incapace di darsi una memoria "anche soltanto accettata, e meno che mai condivisa. Centinaia di migliaia di italiani sono vissuti per sessant’anni con il bavaglio imposto dai vincitori. Tutti obbligati al silenzio, senza poter raccontare a nessuno quanto avevano visto e sofferto. La loro tragedia è stata doppia rispetto a quella patita dai famigliari dei partigiani e dei civili uccisi dai tedeschi e dai fascisti. Questi appartenevano all’Italia dei vincitori. E i loro morti erano i martiri della nuova repubblica che aveva ritrovato la libertà. Invece i parenti dei fascisti uccisi dovevano nascondere il dolore e il rimpianto, perché i loro morti appartenevano al mondo del disonore, delle scelte sbagliate, delle dittature sconfitte. Eppure anche questi italiani stavano dentro la storia del nostro Paese. Perché costringerli all’inferno di un’interminabile guerra civile, mentale e politica? Perché dichiararli inesistenti? Perché tagliargli la lingua per sempre?" (p. 322).

Forse, come chiede in lettera pubblicata una di queste persone costrette al silenzio per anni, una prima soluzione potrebbe essere quella di istituire una "Giornata del ricordo" per commemorare tutte le vittime innocenti uccise barbaramente nel 1945 e anche oltre, quando la guerra era finita ormai da anni. Molte di queste fatte sparire "senza che avessero fatto nulla contro nessuno" (p. 337). Per inciso, fra queste ci sono anche dei poveri sacerdoti, che spesso si adoperarono invano per la pacificazione e che nessuno ricorda mai: una memoria condivisa potrebbe cominciare proprio da qui.

Omar Ebrahime

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