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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


 inserito il 25 marzo 2009

di Oscar Sanguinetti




Memoria e censura «progressista»:
due casi recenti


Due recenti episodi rilanciano la questione della memoria «condivisa» e del rapporto fra comunismo e cultura. Primo episodio: il film Katyń. Il famoso regista polacco Andrzej Wajda nel 2007 ha presentato un suo film sul massacro di migliaia di militari polacchi – fra cui suo padre – avvenuto nella foresta di Katyń, nella Russia occidentale fra aprile e maggio del 1940.

      Del massacro il mondo ebbe sentore solo nel 1941 – due anni dopo l’invasione hitleriana della Polonia –, quando l’Urss, attaccata da Hitler, ristabilì relazioni con il governo polacco in esilio e si cercò di creare un esercito polacco che combattesse contro la Germania. Si scoperse allora che oltre 20mila nominativi di militari polacchi mancavano all’appello.

      Solo nel 1943, quando la Wehrmacht scoprì a Katyń, nei pressi di Smolensk e del fiume Dnieper, delle fosse comuni in cui si rinvennero 4.254 corpi di ufficiali dello sconfitto e disciolto esercito di Varsavia, si capì qual era stato il destino dei prigionieri. I soldati polacchi caduti proditoriamente – non vi era alcun stato di guerra fra Polonia e Urss – nelle mani dei sovietici erano in effetti stati concentrati in diversi campi e prigioni oltre il vecchio confine russo-polacco. Di qui, una volta ricevuto l’ordine di liquidazione – che riguardava ben 25.700 polacchi – da Joseph Stalin (1878-1953) e da Lavrentij Pavlovič Berija (1899-1953), la Nkvd aveva provveduto a eliminare i polacchi e a inumarne i corpi in varie località segrete.

      La colpa dell’eccidio di massa venne subito attribuita dai tedeschi a Stalin: la data presunta dell’inumazione cadeva infatti nel periodo in cui l’Armata Rossa, sulla base ai protocolli segreti del Patto russo-tedesco Molotov-Ribbentrop del 1939, aveva occupato la Polonia orientale, un’area di circa 200mila chilometri quadrati che si estendeva molto più a nord e a est del confine polacco attuale. I sovietici però negarono ogni addebito, ribaltando l’accusa sui tedeschi stessi. A questo punto i tedeschi convocarono una commissione di esperti dei Paesi facenti parte del blocco filo-germanico, fra cui l’Italia, sotto l’egida della Croce Rossa Internazionale, che esaminò le fosse e concluse nel senso di un eccidio perpetrato dai comunisti russi. Quando poi, nel gennaio del 1944, l’Armata Rossa «liberò» Smolensk, i sovietici riesumarono a loro volta i corpi e, postdatandone ad arte – ma i morti vestivano le uniformi invernali e l’occupazione russa era avvenuta in autunno inoltrato – la data d’inumazione, la fecero ricadere negli anni dell’occupazione nazionalsocialista. Oltre a ciò, mostrarono le pallottole trovate sui corpi che risultavano essere di fabbricazione tedesca.

      La tesi di un eccidio tedesco a Katyń e in altri luoghi – rinforzata ovviamente dagli innumerevoli massacri di ebrei, comunisti, prigionieri, compiuti dalle forze armate germaniche alle spalle del fronte russo – fu per questo sostenuta con ancor maggior protervia e tenacia da Mosca. Anzi, spesso si tentò di confondere il massacro di Katyń con quello perpetrato a a Hatyn, una località bielorussa, dai tedeschi – ma pare che i veri autori siano stati truppe ucraine inquadrate nella Wehrmacht – a danno di russi nel 1943.

      Al processori Norimberga si riparlò di Katyń ma il nuovo «peso» di Mosca nel contesto internazionale riuscì a precludere ogni spiraglio di verità. Solo nel 1990 vi fu finalmente l’ammissione ufficiale da parte di Mikhail Gorbaciov che a Katyń si era trattato di un eccidio perpetrato dalla polizia politica di Stalin. Non solo: vi erano altre località, molto distanti da Katyń – a Karkhov in Ucraina e a Kalinin, nei pressi del Mar Baltico –, dove il Segretario del Partito Comunista dell’Urss rivelò che giacevano i corpi di altri 18mila militari e militi polacchi uccisi dalla Nkvd: in totale 21.768 uomini, di cui 8mila ufficiali. Solo nel 1992, negli anni della presidenza di Boris Nikolaevič Eltsin (1931-2007), però, i documenti che comprovavano la responsabilità dell’Urss furono divulgati dallo Stato russo.

      Perché una strage di tali proporzioni? Il Reich nazionalsocialista aveva costituito nella Polonia occupata la prima parte di quel Lebensraum, l’invocato spazio vitale, che era piuttosto destinato alla dominazione della Herrenrasse sulle sotto-razze slave ed ebraica, e vi aveva dato inizio a una drammatica «pulizia etnica». A sua volta, con la terrificante strage degli ufficiali, il comunismo sovietico nel 1940 liquidava una gran parte della classe dirigente della Repubblica Polacca, quella, fra l’altro, più ricca di elementi della vecchia aristocrazia, presumibilmente quindi il gruppo più reattivo di fronte alla prospettiva della sovietizzazione del Paese.

      Fin dal primissimo dopoguerra in Polonia tutti sapevano chi era il vero responsabile di tanti lutti, ma la caduta del Paese sotto il tallone comunista impose quasi subito il silenzio, rendendo per diametrum ufficiale e indiscutibile la tesi del massacro tedesco. Non solo russi e polacchi, ma tutto il mondo comunista, incluso quello italiano, si schierò compatto sulla tesi di Mosca e rimase sordo alle sempre nuove prove – fra le quali che pistole e munizioni tedesche fossero state vendute all’Unione Sovietica negli anni 1920, anni – come ha documentato lo studioso francese da poco scomparso Pierre Faillant de Villemarest (1922-2008) – di decisa entente cordiale fra Stalin e la Repubblica di Weimar – che vanificavano il teorema sovietico. Nel dopoguerra i comunisti italiani, per difendere la «patria del socialismo», arrivarono – ne parlò lo storico polacco Gustaw Herling (1919-2000) nel suo Diario scritto di notte (Feltrinelli, Milano 1992) e il giornalista Giancarlo Lehner lo ha da poco ripreso in articoli usciti su Libero e su Il tempo – a lanciare una forsennata campagna d’intimidazione, sotto la regia del dirigente nazionale Mario Alicata (1908-1966), contro il luminare della medicina legale napoletana – ed ex sindaco della città partenopea dal 1962 al 1963 – Vincenzo Mario Palmieri (1900-?), che fu membro della Commissione, solo «perché sapeva»: e Palmieri, di cui Alicata chiese la testa alle autorità universitarie, fu così indotto a seppellire i documenti del lavoro svolto a Katyń in un terreno di sua proprietà e a mai divulgarli.

      Che cosa ci induce a concludere quanto detto?

      Dopo quanto si è visto accadere fra il 1989 e il 1992 – ma i crimini comunisti dell’età di Stalin erano già in parte stati denunciati già nel 1956, quando ebbe inizio il cosiddetto «disgelo» sovietico –, che dei comunisti abbiano compiuto un massacro non fa notizia. Se poi è vero quanto scritto nel piedistallo di bronzo del monumento alle vittime del comunismo eretto a Washington nel 2007, ovvero che il comunismo ha fatto «più di cento milioni di vittime», si può capire come anche un massacro di 22mila persone si possa confondere nella massa e nelle statistiche. Né, infine, sorprende che una menzogna comunista si sia potuta perpetuare per cinquant’anni nell’indifferenza del mondo – il presidente americano Franklin D. Roosevelt (1882-1945) e il premier inglese Winston Churchill (1874-1965) seppero presto e con sicurezza chi era l’autore della strage, ma preferirono tacere per non mettere a rischio le buone relazioni con l’alleato russo – e dei benpensanti: non sarebbe la prima.

      La notizia di un certo rilievo sta invece nel fatto che del tragico episodio sia tuttora quasi impossibile parlare. Nonostante i suoi pregi, film di Wajda, infatti, dopo essere uscito in sole 12 cinema italiani e per pochi giorni, sta scomparendo dalla circolazione ed è visibile solo in forma privata. Il grave è – sottolineo – che non si tratta di un filmucolo da dilettante o di una pellicola del genere splatter-storico del tipo «Li chiamarono… briganti!» di Pasquale Squitieri, noto – e sopravvalutato – per aver subito una censura analoga. Katyń è un pregevole film di un regista che ha un vero talento – lo si è visto nell’altro suo film storico «Danton» e nel difficile «L’uomo di marmo» – per narrare la storia in forma di fiction, ma con una documentazione rigorosa, una eccellente qualità stilistica e una intensa efficacia emotiva: in Katyń i personaggi sono attendibili, gl’interpreti centrati, i dialoghi asciutti e assai efficaci, la ricostruzione degli ambienti verosimile, la memoria acutamente dolente ma priva di odio.

      Eppure tutto questo non basta a determinare il successo di una pellicola. Per essere «lanciato» un film dev’essere «politicamente corretto» e parlare di massacri comunisti evidentemente non lo è, anche se il soggetto, il partito comunista – italiano, polacco o sovietico che sia –, non c’è più e non può più essere imputato – si badi solo moralmente, perché una «Norimberga» per i comunisti non c’è mai stata – di nulla. Qualcuno, dunque, freme e reagisce quando anche soltanto la memoria del comunismo viene messa sotto accusa. Qui ha origine la censura pratica subita dal film – come, del resto, è accaduto ad altri film poco in linea con la sensibilità postmoderna, vedi il caso di Apocalypto di Mel Gibson o Porzûs di Renzo Martinelli – ed è un peccato, perché fa sì che la verità su Katyń rimanga circoscritta a pochi e priva molti italiani di un esempio di cinematografia d’impegno ad alto livello. Neppure adesso si può ottenere che, neppure in nome della par condicio, prodotti di alta scuola ottengano una diffusione proporzionata alla loro qualità. Che altra prova bisogna addurre per capire che il potente apparat creato da Palmiro Togliatti nella società italiana è ancora vivo e vitale?




Una foto di militi dell’XI Compagnia del Polizeiregiment «Bozen»,
esposta fra gli ex voto nel santuario mariano di Pietralba (Bolzano):
fra loro molte delle vittime di via Rasella


      L’altro fatto rilevante è il fantomatico manifesto di via Rasella. Ne ha parlato il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, in due articoli successivi di Paolo Simoncelli, storico contempo­raneista dell’Università di Roma La Sapienza, che riportano alla ribalta la tragedia dell’attentato dinamitardo – che Wikipedia denomina alquanto disinvoltamente «attacco» – compiuto dai Gruppi di Azione Patriottica contro truppe tedesche nella stretta via del centro di Roma il 23 marzo 1944. I 18 chili di tritolo faranno 33 vittime fra i soldati della Wehrmacht – oltre a sei civili italiani, fra i quali un bambino – e la susseguente rappresaglia costerà la vita a 335 italiani, per lo più membri della resistenza clandestina – 39 ufficiali, sottufficiali e soldati membri della Resistenza militare, 52 aderenti alle formazioni del Partito d’Azione e di «Giustizia e Libertà», 68 membri di «Bandiera Rossa», un’organizzazione comunista trozkista – ed ebrei – 75 –, che verranno eliminati nelle Fosse Ardeatine, una cava di tufo alle porte di Roma.

      Sull’opportunità di questo attentato, sulle sue modalità e sulla latitanza dei responsabili che si tradusse nell’immane eccidio, fin dal dopoguerra non sono mancate le polemiche, anche recenti. Tuttavia, nessuna è mai riuscita a scalfire la versione fatta propria dai partiti antifascisti della liceità della strage degli ausiliari tedeschi – in realtà quasi tutti sudtirolesi cattolici non giovanissimi, non delle SS, che non avevano optato per il Reich nel 1939 e avevano scelto di arruolarsi nella polizia per sfuggire al fronte russo – e dell’inutilità di consegnarsi da parte degli autori, dal momento che la rappresaglia vi sarebbe stata comunque, si trattava di un’azione di guerra legale, e non incombeva quindi ai militanti del Gap il dovere di obbedire al diktat tedesco. Anche perché, secondo questa versione della rappresaglia, la Wehrmacht non avrebbe dato alcun avviso della imminente rappresaglia alle forze della Resistenza e alla popolazione.

      Se i primi due assunti si prestano a essere discussi, quest’ultima obiezione, che è un po’ l’architrave dell’argomentazione a favore dei partigiani rossi, pare stia per cadere. Come dimostrano le testimonianze di fonte antifascista riportate da Simoncelli, infatti, un manifesto murale con il preavviso della rappresaglia in ragione di dieci italiani per un tedesco – regola che fu poi tragicamente applicata – pare sia stato effettivamente affisso e a ben due riprese: la prima, preventiva e generica, al momento dell’occupazione tedesca di Roma; la seconda proprio in conseguenza dell’esplosione di via Rasella, aggiungendo alla minaccia di rappresaglia sui civili anche l’intimazione ai responsabili di costituirsi.

      Di questo manifesto che più voci dicono di aver visto, purtroppo, non esiste più nemmeno un esemplare, né negli archivi pubblici, né, per quanto se ne sa, in quelli privati. C’è da chiedersi come mai. Forse qualcuno è stato così scaltro e potente da toglierli dalla vista e dalla circolazione in tempo utile? E questo perché a qualcuno forse premeva che vi fosse una rappresaglia comunque? Anche se nel tremendo rapporto di uno a dieci? Magari sapendo che nella lista della Gestapo c’era il fior fiore dell’antifascismo non comunista e molti membri della detestata sinistra comunista-trotzkista?

      Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una probabile e pesante operazione di disinformazione, volta a impedire di raggiungere la verità storica, perché essa è contro l’immagine del partito dei lavoratori, anima e regista della Resistenza.

      Naturalmente nessuno storico è oggi in grado di esibire documenti precisi e di fare nomi e cognomi – il che a sessantacinque anni da via Rasella lascia davvero esterrefatti –, sì che le risposte alle domande devono essere ancora considerate delle ipotesi.

      Tuttavia gli indizi di un complotto del silenzio da parte non della sola cultura comunista ma dell’apparato culturale e mediatico tout court, senza dimenticare la sostanziale connivenza delle più alte istanze dello Stato del secondo dopoguerra, non sono né pochi né tenui. La verità consentita alla storia è sempre una verità approssimata, che offre una certezza solo di tipo «morale». E questa «certezza morale» è appunto quella che si forma – e si ferma – dal buon senso e da un numero sufficiente – cioè proporzionato all’azione susseguente – proprio d’indicazioni fattuali, cospiranti e coerenti fra loro. Alla luce degli ultimi sviluppi, mi pare di poter dire che la verità su via Rasella e sulle Fosse Ardeatine si stia facendo strada e passando almeno a uno stato di certezza «morale».

      Ovviamente la tenace ostilità alla ricerca storica che questi due episodi evidenziano così nitidamente non può non far riflettere anche sugli appelli all’unicità o alla «condivisione» della memoria civile.

      Se è forse irrealistico pensare che memorie contrapposte rinuncino ciascuna a un brandello per evitare di collidere con l’altra e mentre appare quasi scontato che la memoria nazionale debba alimentarsi a storie parziali diverse, ci si augura almeno che nei casi più palesi si smetta di arrampicarsi sui vetri per difendere la presunta onorabilità – o infallibilità? – di una identità ideologica ormai crollata sotto i suoi errori ed orrori come il comunismo. Far lavorare i muscoli, tuttora vigorosi, dell’apparato impiantato dal «partito nuovo» – grazie all’abilità dei suoi dirigenti, ma anche grazie alla comoda vittoria nella guerra civile italo-italiana – al fine di occultare verità che è ormai possibile attingere significa solo infischiarsi della verità e voler mantenere aperte ferite «storiche»: sulle menzogne non si può costruire il futuro di una nazione.



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