Le campagne scandalistiche di queste ultime settimane contro il governo di centro-destra — scatenate in sospetta coincidenza con importanti sondaggi elettorali — e, più direttamente, contro il Presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi, hanno visto esponenti dei partiti di opposizione, nonché i loro più attivi
supporter, da
la Repubblica a
Famiglia Cristiana, indossare panni catoniani ed esibire volti amareggiati e accigliati mentre scagliavano strali appuntiti e intrisi di sdegno contro una intera parte politica, quella avversa, giudicata intrinsecamente «immorale».
Per più di una ragione, che cercherò d’illustrare, questo repentino cambiamento di atteggiamento da libertario a bacchettone, questa esplosione improvvisa di una campagna moralistica di intensità e intransigenza inusitate contro un solo personaggio — benché il più odiato — e contro un solo partito, se non fosse scopertamente e beceramente strumentale, apparirebbe incredibile e, esso sì, immorale.
Se corruzione vi è nella politica, non è davvero da persone serie affermare che la piaga riguardi uno solo e che sia nata solo in coincidenza con l’ascesa di un solo personaggio pubblico. La corruzione morale nella politica, sia che si traduca in affari loschi — bisognerebbe risalire allo scandalo della Banca Romana di Tanlongo alla fine del secolo XIX! —, sia in comportamenti trasgressivi in campo sessuale esiste da sempre, anzi essa è una perenne tentazione inerente al potere, sia quando lo si ha, sia quando lo si vuole conquistare: si sa che il potere fomenta l’orgoglio e l’orgoglio si trasfonde quasi fatalmente nel disordine della volontà.
A conferma, per quanto riguarda l’ambito sessuale — anche se probabilmente il primo è il più ricco —, basterebbe ricordare, negli anni dei governi democristiani lo scandalo Montesi o, più tardi, i famosi «balletti rosa» e «verdi» e, ancora, i «nani, saltimbanchi e ballerine» e i fiumi di cocaina dell’era di Craxi, per finire con l’ambiguo comportamento del portavoce di Prodi quando quest’ultimo era al governo.
È anche vero che negli ultimi lustri la devianza dai modelli tradizionali — ovvero autenticamente morali — di comportamento ha perso fortemente rilievo nel giudizio comune: convivenze, omosessualità dichiarata, divorzi, amori liberi, figli illegittimi, autolesionismo di ogni genere, ecc. sono ormai temi d’interesse esclusivamente per le riviste «specializzate» o per i siti «spia» oppure si prestano ad azioni politiche di bassa lega. L’obiettivo dei media scandalistici oggi ― ma non da oggi ― non è più quello di dare un giudizio di biasimo e fare profilassi sociale, ma solo quello di fare denaro o di sfruttare la reazione emotiva dell’elettorato del VIP politico che si è deciso di colpire.
Se lo scandalo ha perso di risalto, è perché il comportamento morale comune è cambiato, sono mutati i criteri di giudizio, è diverso il «senso comune» ― al punto che oggi suscita sdegno chi mette al mondo «troppi» figli e non, per esempio, chi convive more uxorio con una persona del medesimo sesso.
Vi è poi da dire che la classe politica è lo specchio del Paese e l’esame di coscienza dovrebbe imporsi a tutti o almeno a tutti coloro — compreso chi si colloca all’opposizione — che sono stati padri e madri negli ultimi decenni, quelli che hanno avuto una qualunque funzione docente, in cattedra o meno, quelli che ci hanno inondato di pubblicità oscene e di programmi televisivi che è dir poco definire avvilenti.
Se i nostri politici non brillano in generale né per idee, né per cristallinità di costumi, la dirigenza di centro-destra — dai liberali del Pdl ai leghisti — nei passaggi nodali in cui l’etica pubblica è stata a rischio quanto meno non ha mai vacillato: è questo il caso della legge sugli embrioni e dei progetti di legge sul matrimonio omosessuale, della drammatica vicenda di Eluana Englaro e del connesso problema del testamento biologico.
Sentire certe reprimende provenire da persone che hanno portato disinvoltamente in parlamento pornostar, travestiti comunisti, notori omosessuali militanti — per non parlare di criminali politici come l’ex partigiano Giuseppe Moranino —, persone che professano l’abortismo più forsennato, persone che odiano per principio qualunque proibizionismo, adorano i rave party ― anche se talora si concludono con il classico morto ―, e magari, quando va bene, hanno avuto — non che i loro avversari siano dei santi… — due o tre famiglie se non praticato ― e fattane l’apologia ― il libero amore — non stupisce, essendo ben note le capacità metamorfiche di certe culture progressiste, ma suscita realmente sdegno…
E lo sdegno cresce ― per il livello di inverecondia raggiunto ― quando si sente ventilare come modello alternativo alla pretesa corruzione dei frequentatori delle escort — è incredibile la creatività dei giornalisti nel trovare sinonimi per il più antico mestiere del mondo… — la presunta austerità morale di un personaggio e di una politica del passato che in realtà di alternativo hanno ben poco. Alludo naturalmente alla figura di Enrico Berlinguer e alla «questione morale» che è stata il vessillo — o la bandiera di combattimento — del Partito Comunista Italiano alla fine degli anni 1970. In questi giorni si ha la sfrontatezza di dire che allora, attraverso la figura del dirigente comunista riproposta oggi come una icona semi-monastica, fu offerta — invano — al Paese una chance — naturalmente purché si desse il potere alla filiale italiana dell’Internazionale — di riforma che avrebbe evitato la perenne vague di corruzione e di scandali che ha contrassegnato la vita italiana nel secondo dopoguerra fino ai nostri giorni.
Ebbene, senza entrare nel merito della vita privata del personaggio e apprezzando senza mezzi termini la sua straordinaria passione ideale — per realizzare il comunismo più che per fare l’uomo politico, come dichiarerà al suo intervistatore televisivo Giovanni Minoli pochi anni prima di morire —, ci si deve chiedere dove stavano l’austerità e la morale nella politica di un partito come il Pci di allora.
Consisteva forse nell’aver sostituito alle impresentabili grinte, a metà fra staliniste e goderecce, di un Longo o di un Pajetta, l’ascetico sembiante dell’esangue nobile sassarese?
Si esprimeva forse nella statalizzazione dell’aborto libero di cui il Pci fu il massimo sostenitore e responsabile? Oppure nella solvibilità del legame familiare offerta agl’italiani, dopo che l’élite comunista aveva dato prova di vivere tale legame con estrema disinvoltura — Togliatti e Iotti docent? O, ancora, nella promozione dei contraccettivi? O nella droga, ambito in cui qualunque intento restrittivo del consumo e dello spaccio ha sempre incontrato il decisivo veto comunista? Oppure, nella massiccia campagna «pacifista» contro l’Occidente e contro la Nato — quindi contro la democrazia italiana — a favore del blocco sovietico ininterrottamente svolta, da Budapest a Praga, dal Viêt-Nam agli «euromissili»? O il presentarsi del Pci come partito «nazionale» che si pretendeva parte e motore della democrazia italiana, ma il cui modello di società era il socialismo reale, che rimaneva un regime sociale contro natura, anche nella versione «liberale» alla Gomulka o alla Kadar?
Ma, conservando la spinta disgregatrice che ho descritto, si pensava davvero di moralizzare l’Italia?
Sta di fatto che, durante e dopo la stagione della «questione morale» — l’austerità che il Pci predicava riuscì a imporre al partner democristiano durante gli anni dei governi di «solidarietà nazionale» solo di far abbassare le luci delle città, di anticipare il Telegiornale nazionale di mezz’ora e di sopprimere alcune festività —, la corruzione politica non è finita, anzi è cresciuta, mentre il Paese è sprofondato sempre più nella decadenza, anche se lampioni fiochi, telegiornale alle 20 e festività soppresse sono rimaste a lungo, ancorché rivedute e corrette.
E il Pci — finanziato dallo Stato italiano, direttamente da Mosca, dalle tangenti sui rapporti commerciali con i Paesi socialisti, nonché dai palazzinari e dai VIP «rossi» —, nonostante i panni del sobrio pedagogo indossati, è sfuggito — non lo si dimentichi — solo per il rotto della cuffia, per dire il meno, alla devastante inquisizione borrelliana degli anni Ottanta, che ha ribaltato la politica italiana.
È proprio con la gestione Berlinguer, iniziata nel 1972, che il Partito si accorgerà che il vettore della Rivoluzione negli anni post-1968 non è più rappresentato — almeno come forza principale — dalla classe operaia e dal proletariato. Allora che il Pci capirà che la Rivoluzione passava attraverso l’endorsement della rivendicazione dei diritti civili delle minoranze: studenti massificati, omosessuali in fase di outing, femministe scatenate, desideri in cerca di «copertura» giuridica, immigrati. Dai modelli para-cristiani e «pionieristici» degli anni 1950 additati ai militanti del partito si passerà a una nuova, più fumosa ma decisamente libertaria mitologia — «Che» Guevara, i Kennedy, i diritti dei neri, l’Africa, la pace, l’uguaglianza maschio-femmina, il militante gay —, di cui forse la più compiuta incarnazione è stata ed è la cultura politica di Walter Veltroni.
Con Berlinguer il partito si attrezzerà per aprire la lotta sul fronte libertario — che all’epoca del Pds e dei Ds si situerà ancora più «in là» e in profondo, scendendo sul terreno bioetico — e frutto della nuova lotta saranno le grandi «conquiste civili» degli anni 1970 che hanno in realtà ridotto il corpo sociale italiano a «coriandoli» e a «mucillagini», dissolvendo gradualmente i legami più fondamentali — vita, famiglia, educazione — che stringono fra loro i membri della compagine sociale e secolarizzandone in maniera radicale le credenze. Se il tessuto sociale è oggi corroso nella sua trama più profonda ed è in atto un’autentica e rovinosa «crisi antropologica» — il termine è nato soprattutto per i Paesi ex comunisti, ma è applicabile anche al nostro Paese, a riprova di quanto profonda sia stata l’infiltrazione del socialismo nei gangli vitali della nazione — lo si deve anche all’azione dei comunisti berlingueriani. Altro che «questione morale», quando l’esito è lo sbando, l’incultura, l’inciviltà, l’eclisse del buon senso, ovvero la de-moralizzazione!
No. Non potendo avere una dirigenza del Paese allo stesso tempo morale — non moralista — e anche di buoni principi e di buoni comportamenti —, cosa che oggi pare un sogno irrealizzabile, è preferibile averne una dalla vita privata forse discutibile che non una austera che però impone al corpo sociale una camicia di forza. Alla stessa stregua: se è desiderabile un papa santo, è meglio un papa con prole piuttosto che un papa eretico. In fin dei conti ― devo questa considerazione all’amico Giovanni Formicola ―, senza voler giustificare niente e nessuno, il sesto e il settimo comandamento di Dio vengono dopo il primo, il quarto e il quinto, e non per caso. Anche fra le colpe vi è una gerarchia e, quindi, una differenza.