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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale




Dossier
«La rimozione della targa stradale
alla memoria del Viva Maria ad Arezzo»

Oscar Sanguinetti

Una operazione discutibile contro il ricupero della memoria civile degl’italiani


Finalmente le autorità comunali di Arezzo hanno preso la decisione: la targa stradale fatta apporre dalla precedente giunta di centro-destra, che intitola una piccola piazza della città al Viva Maria del 1799-1800, verrà rimossa e sostituita da una che farà riferimento alla Madonna del Conforto, particolarmente venerata dagli aretini, inclusi i «vivamaria» di allora.

Si tratta di una decisione che giunge dopo un tortuoso percorso, punteggiato da roventi polemiche abolizioniste, da qualche tentativo di apologia e da più di un mutamento di opinione da parte delle autorità cittadine.

La motivazione addotta — di cui si sono fatti latori con assiduità e insistenza gli ambienti progressisti e le sinistre — è quella che il movimento insorgente del 1799 si sarebbe macchiato di un eccidio, quello di tredici cittadini senesi di religione ebraica, all’indomani dell’occupazione della città da parte delle «bande» aretine.

Ritengo che la decisione sia discutibile sotto diversi aspetti.

1. La storia

1.1 Il fatto

Il primo è la parziale falsità del fatto invocato — l’eccidio c’è stato, ma non ne sono stati autori i «vivamaria», bensì la plebaglia senese —, che viene utilizzato solo come pretesto per dar sfogo a un’avversione ferocemente ideologica contro il movimento popolare degl’insorgenti anti-francesi e anti-rivoluzionari. Un moto che — lo ricordo — in quegli anni è presente massicciamente in po’ in tutta la Penisola e di cui si può essere onorati quanto meno perché rappresenta con tutta certezza, il più ampio movimento popolare che l’Italia annoveri in età contemporanea. E ancor di più merita di non cadere nel dimenticatoio ad Arezzo, che divenne allora, per la sua posizione geo-politica e per la dimensione assunte dal moto del Viva Maria, in un certo senso la capitale dell’intera insorgenza centro-italiana.

1.2 L’unica memoria «macchiata»?

È poi scorretto ridurre un importante episodio di storia locale con proiezione nazionale a un suo — pur deplorevole ma marginale — momento. Questa mentalità, se applicata con rigore e con equanimità, dovrebbe allora imporre di dismettere ogni segnale pubblico, dai monumenti alle lapidi alle targhe stradali, che facciano riferimento alla Resistenza anti-fascista e anti-tedesca del 1943-1945. In effetti è sempre più evidente e incontrovertibile che anche il movimento di liberazione, soprattutto le sue componenti comuniste, si è macchiato di più di un crimine, e questo anche a guerra conclusa e a vittoria sul fascismo ottenuta.

Forse non ne sono state vittime cittadini di religione ebraica, ma è lecito distinguere fra italiano e italiano in base alla religione? Forse che don Rolando Rivi o i sette fratelli Govoni o i fascisti di Schio o i partigiani «bianchi» di Poržus erano meno italiani degli ebrei senesi del 1799?

1.3 Il metodo

Sempre sul piano della storia la cosa viene proposta in termini addirittura oltraggiosi di ogni pur minimo canone di decenza che la ricerca deve rispettare. Si pretende di giudicare con le categorie e con la sensibilità di oggi — su questo punto è davvero ultra-affinata — eventi del 1799, cioè di duecento anni fa, cioè di un’epoca in cui i contadini europei e le plebi cittadine vivevano ancora immersi in un humus culturale fatto di quadri mentali densamente impregnati di religiosità, talora spuria, di origine barbarico-medievale o pre-cristiana. Se ancora nel XVIII secolo — forse non nell’evoluto Granducato toscano, ma in altri ducati sì — non era un problema, anzi, forse venivano ancora largamente apprezzati «riti» di piazza come lo squartamento di rei di delitti particolarmente gravi oppure le più spettacolari e sanguinose forme di tortura, come pensare che, come in tanti altri casi, in un frangente di sollevazione violenta non potessero esservi vendette private anche dai connotati bestiali?

Ed è un fatto che nella mentalità popolare — non si può non ammetterlo — agivano allora frequentemente motivi religiosi antigiudaici dalle radici ataviche o storiche o anche frutto di cattive predicazioni popolari. Non sappiamo se nel frangente del Viva Maria questo insieme di motivazioni psicologiche sia scattato direttamente e allo stato puro — probabilmente hanno fatto aggio altre motivazioni: risentimenti annosi per questioni materiali, l’adesione della fascia alta del ceto ebraico italiano al «giacobinismo», l’incetta di arredi sacri rubati dai commissari e dalla soldataglia francesi fatta in più luoghi da ricettatori ebrei per lucro o per sfregio o per vendetta di discriminazioni secolari —, ma sicuramente l’aggressività antigiudaica è una virtualità — essendo un fatto ripetutamente rilevabile — che lo storico onesto deve sempre aver presente nel giudicare i fatti storici dell’epoca medievale e post-medievale, soprattutto se si tratta di eventi che hanno come protagonista il popolo, le plebi.

Che poi, per diametrum, tutto un insieme di motivazioni politiche, culturali, religiose trovasse il suo coagulo in uno slogan e trovare un emblema nella Vergine e il tutto confluisse nel grido «viva Maria!», date queste premesse, può stupire solo un miope…

2. Il passato «che non vuol passare»

Il secondo aspetto è che un tale gesto è un netto segnale di una reviviscenza di quelle ideologie moderne, i cui frutti avvelenati proprio la storia del secolo scorso mette più in evidenza.

L’avversione e l’ostilità contro il Viva Maria — talmente accese da portare a sorvolare su una realtà di capitale importanza — deriva dal fatto che l’insorgenza del popolo italiano e toscano di allora fu allora nel segno della rivendicazione di un sistema di libertà concrete — fra cui la libertà di religione — già sperimentate storicamente e che erano parte essenziale di quel mondo, formatosi liberamente nei secoli del Medioevo e contro chi trapiantava le idee della Rivoluzione di Francia e della Rivoluzione in generale in Italia. Evento quest’ultimo considerato viceversa fondativo e di segno altamente positivo da tutto lo spettro delle diverse prospettive progressiste e rivoluzionarie di allora come di oggi. E questo antagonismo tenace, che conduce ora a sopprimere una parte della memoria pubblica di una pagina di storia in cui Arezzo, bene o male, ha un rilievo nella storia nazionale, dimostra quanto la cultura e la politica italiane siano ancora profondamente intossicate dalle ideologie moderne e quanto in Italia, secondo le felice espressione di Ernst Nolte, il passato non voglia passare.

3. Una nuova prassi politica?

Infine, ancora in relazione al tema della memoria pubblica, traspare da questa vicenda il deplorevole intento di trasferire quello spoils system che ormai caratterizza, in Italia come altrove, i cambi di governo dall’ambito delle cariche pubbliche al livello della memoria di un popolo e degli indicatori visibili di questa memoria. Se questa logica prevale, vuol dire che quando fosse eletta una maggioranza di governo locale opposta all’attuale, sarebbe nelle facoltà di essa, anzi nei suoi doveri, rinominare le vie e le piazze della città a suo piacimento. Se il centro-sinistra non può tollerare i «vivamaria», perché un centro-destra tornato al potere dovrebbe tollerare i nomi di Enrico Berlinguer o di Palmiro Togliatti o, peggio, di personaggi sinistri come Karl Marx e Friedrich Engels o perfino di illustri «benefattori dell’umanità» come Vladimir Lenin, che tuttora illustrano città «rosse» — ma anche città tutt’altro che «rosse» — della Penisola?

Il ruolo delle forze culturali locali invece di dividere — e divide ben più una rimozione di memoria che non una memoria non gradita a tutti — dovrebbe essere invece quello di ricercare e di alimentare il ricordo delle vicende della città, anche di quelle meno «pure» — e ben di rado esistono vicende totalmente «pure» —, perché da essa discende la definizione dell’identità cittadina e locale. E questa memoria potrà anche non essere condivisa, ma deve essere completa.

* * *

Per mostrare l’insussistenza e l’ideologicità delle prese di posizione delle autorità aretine, pubblichiamo un nutrito dossier di documenti, di cui sono autori due studiosi aretini particolarmente attenti alla vicenda del Viva Maria, il professor Santino Gallorini e don Antonio Bacci, direttore del Centro Ricerche e Studi Storici «Giulio Salvatori» della Diocesi di Arezzo-Cortona-San Sepolcro, rimandando altresì ai numerosi e validi saggi che fanno parte degli atti del convegno organizzato ad Arezzo dal nostro Istituto nel giugno del 2000 per approfondire aspetti e problemi del grande moto popolare aretino (1).



Note

(1) Cfr. Oscar Sanguinetti (a cura di), «Digitus Dei est hic!». Il Viva Maria di Arezzo: aspetti religiosi, politici e militari (1799-1800). Atti del convegno di studio, Arezzo, 3 giugno 2000, Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale, Milano 2004.

Al Documento 1


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Complotto «cattointegralista» o «forza delle cose»?

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L’invenzione della memoria «affiancata»

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Una pregevole rilettura del Risorgimento

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Le zanzare: dalla sociologia alla storia, dai laghi finlandesi alle Isole Solovki

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Dossier
«La rimozione della targa stradale alla memoria del Viva Maria ad Arezzo»

Oscar Sanguinetti
Una operazione discutibile contro il ricupero della memoria civile degl’italiani


Documento 1
Pro-memoria ai membri del Consiglio Comunale di Arezzo


Documento 2
Cronologia degli eventi precedenti la decisione del Comune di Arezzo e altri documenti

Appendice 1
Appendice 2 Appendice 3

Documento 3
Il «Viva Maria» non fu antiebraico e gli Aretini non furono massacratori


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a cura dell'Istituto Storico dell'Insorgenza e per l'Identità Nazionale,
3a ristampa,
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D'Ettoris,
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152 pp., € 15,90.





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