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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale




Guido Verna




Le zanzare:
dalla sociologia alla storia,
dai laghi finlandesi alle Isole Solovki

Eterna sentinella
e fervido custode
della dolce Madonna di Vladimir,
eccoti due chiavi:
una dorata,
del suo santo regno,
ed una rugginosa,
di nostra amara sorte.

Una poesia di Vološin, dedicata ad A.I.Anisimov
[pittore e restauratore di icone nel museo del GuLag]
(JB [*] , p. 169)



L

a Finlandia è situata tra i paralleli 60° e 70° di latitudine nord, le Isole Solovki — Solovki è un’abbreviazione di Isole Solovetsky — sono sul 65°, a metà strada, nel Mar Bianco. Presumo, perciò, pur con insignificanti nozioni di geografia etologica, che il problema della presenza abnorme di zanzare possa essere simile.

Ma grazie al professor Nando Dalla Chiesa (1)«Sottosegretario di Stato non parlamentare all’Università e Ricerca» nell’attuale governo, come recita il suo profilo biografico ufficiale — ho scoperto che gli effetti generati da questi noiosi insetti sui loro evocatori sono decisamente diversi a seconda del luogo in cui pungono.

Infatti, mentre le zanzare finlandesi sollecitano la riflessione sociologica, quelle delle Isole Solovki — più modestamente, ma forse più seriamente — agiscono sulla memoria storica.

* * *

Provo a esercitarla. Intorno al 1435, due monaci, Savvatij (Sabbazio) († 1435) e Gherman (Ermanno), attraversarono il Mar Bianco e raggiunsero queste isole, a 160 chilometri dal circolo polare artico e «[…] insieme crearono la prima fondazione sul lago, ai piedi del monte Sekira» (2). Da allora, in cinquecento anni, si riempirono di chiese di cappelle, di eremi, diventando «[…] il baluardo della vita spirituale della Russia settentrionale, un centro di progresso tecnologico e una meta di pellegrinaggio per tutto il paese» (3).

Poi arrivarono i comunisti e le isole sante diventarono le isole delle lacrime. «Tacquero le campane, si spensero i lumini davanti alle icone e le candele, non risuonarono più messe e vespri, non si borbottarono più per giornate intere i salmi, crollarono le iconostasi […], ma in compenso ardimentosi čekisti con i cappotti lunghissimi, fino alle caviglie, con paramani e mostrine neri, […] e orlo nero sul berretto senza stella, arrivarono nel giugno 1923 per creare un lager modello, di esemplare durezza, orgoglio della Repubblica operaia e contadina» (4).

Se già nel 1920 alle Solovki era stato istituito un campo di concentramento per i prigionieri della guerra civile, solo nel 1923 questo campo assurse a definitiva e imperitura «dignità», quando cioè fu trasformato nel complesso dello Slon, i «Lager a Destinazione speciale delle Solovki», consistendo tale «specialità» «[…] nel fatto che inizialmente vi furono concentrati uomini che rappresentavano una minaccia per l’idea sovietica […] coloro che avevano una formazione estranea alla prassi comunista, e che grazie alla propria autorevolezza fra il popolo avrebbero potuto coagulare intorno a sé un’opposizione o contribuire al suo sorgere» (5); «Membri di un’antica nobiltà. Militari di carriera. Filosofi. Scienziati. Attori. Artisti. Liceali» (6). E come diceva la canzone: «[…] preti, canaglie e reazionari ci resteranno finché campano. / Un articolo per loro si può sempre trovare. / L’importante è non lasciarseli scappare!» (7).

Infine, negli anni 1930, le Solovki persero la loro «specialità» per diventare uno degli innumerevoli «Lager di lavoro correzionale», cioè un Lager sovietico «classico», dove, per esempio, nell’autunno del 1937 si potevano tranquillamente fucilare circa duemila prigionieri.

Ci sarebbe tanto altro da raccontare, ma mi fermo qui. Ricordo solo che «oltre un milione di detenuti lasciò la vita o parte della vita alle Solovki o sul canale del mar Bianco-mar Baltico» (8); «che le Solovki furono l’alma mater del GULag» (9), perché il loro arcipelago riempito di dolore e di morte dall’odio comunista metastatizzò nell’«Arcipelago GULag»; e che, quindi, «non a caso come monumento di tutte le vittime del GULag, a Mosca sulla piazza della Lubjanka, davanti al quartiere generale del Kgb, è stata posta la “Pietra delle Solovki”, un masso di granito portato appunto dall’ex capitale del sistema concentrazionario» (10).

* * *

Non sono uscito fuori tema: semmai, ho solo cominciato a patire l’effetto delle zanzare delle Solovki.

Perché alle Solovki le zanzare c’erano ed erano tante e cattive, come raccontano i testimoni. Per esempio, secondo A. Klinger (11), «il flagello delle Solovki, le zanzare, qui (12) sono così terribili che non sono rari i casi di squilibrio mentale a causa degli insetti che non danno tregua giorno e notte» (13). Oppure Oleg Volkov (14): «Nella baracca mi fu indicato il mio posto sul pancaccio […] non riuscivo a stare sdraiato per l’incredibile quantità di cimici. […] Uscivo all’aperto. Ma qui c’era un altro nemico: nugoli di zanzare come non ne avevo mai viste. Una specie settentrionale di insetti che succhiano sangue, tipici della tundra, da cui non c’è verso di proteggersi. Per quanto ti avviluppi e ti nasconda, le zanzare riusciranno a tormentarti. Un sottile “zzz nelle orecchie e sei già in attesa, in allarme. Non si riesce né a prender sonno né a immergersi nei propri pensieri» (15).

In più, poiché alle Solovki le zanzare c’erano ed erano tante e cattive, proprio per queste loro caratteristiche vennero brillantemente utilizzate dai carcerieri come mezzo di tortura, un mezzo per niente dispendioso e per niente affaticante.

Quando il detenuto non riusciva a raggiungere la «norma» — il quantum di lavoro spietatamente fissato dai carcerieri — la punizione era di tipo stagionale: il gelo polare in inverno, le zanzare d’estate, come racconta Boris Širjaev (16): «Il pesante lavoro di dodici ore al giorno, superiore alle forze della maggior parte, era solo un metodo di omicidio di massa […] La norma di lavoro […] veniva eseguita da pochi, i più forti. L’inadempienza della norma talvolta passava liscia, ma più spesso comportava l’essere trattenuti nel bosco al gelo per ore, talvolta anche per tutta la notte. Molti finivano assiderati. […] D’estate per il medesimo crimine si veniva esposti “alle zanzare”: legati nudi nottetempo nel bosco, dove fitti sciami di zanzare mordevano a sangue» (17); o come testimonia Dmitrij Lichačev (18): «D’estate chi non riusciva a completare la norma veniva spogliato nudo e esposto “ai ceppi”. “Ai ceppi”, si diceva appunto. Il corpo si ricopriva di zanzare e tafani al punto che l’uomo moriva. Non gli restava un solo lembo di pelle sana, per respirare» (19).

Le zanzare erano comunque multiuso. Si utilizzavano infatti anche per punire le fiacchezze durante l’«addestramento alla mobilitazione», quando «oltre ad essere picchiati a colpi di bastoni e di “castigamatti” (bastoni appositamente carbonizzati), d’estate i detenuti venivano esposti “alle zanzare”, nudi e sull’attenti oppure seduti “sui trespoli”, cioè su strette assi su cui dovevano rimanere accovacciati senza muoversi e in perfetto silenzio. Di notte non veniva dato loro alcun indumento» (20). Oppure come deterrente contro i «[…] delinquenti di ogni risma», che dal 1926 affluiscono alle Solovki. «Come tenerli a freno perché non insorgano? Unicamente con il terrore! Unicamente con la Sekira! con le pertiche! con le zanzare! con i ceppi! con le fucilazioni diurne!» (21).

La Sekira, la scure, dove alla metà del 1800 fu costruita una chiesa dedicata alla Vergine Odigitria (22), era diventata la sede del terribile carcere di isolamento punitivo del Lager, dove chiunque aveva «[…] il terrore di capitare […], in preda alle zanzare o attaccato alle stanghe» (23). Anche la chiesa fu utilizzata: «[…] nella cattedrale a due piani […] i detenuti sono trattati nel modo seguente: da un muro all’altro stanno infisse delle pertiche dello spessore di un braccio e si ordina ai detenuti puniti di starvi seduti tutto il giorno. […] Le pertiche sono ad un’altezza tale che i piedi non toccano terra. Non è facile mantenere l’equilibrio, da mattina a sera il detenuto si sforza di non cadere. Se cade, i secondini arrivano di corsa e lo percuotono» (24).

Quando nel 1929 il regime invia il suo «cantore» ufficiale — lo scrittore Maksim Gor’kij (25) — alle Solovki per descriverne il «paradiso» realizzato, le isole — forse per non creare imbarazzi alla vena dell’aedo — vengono prima opportunamente «ripulite», fino a simulare una colonia infantile con brande separate e complete di materasso (26) e a trasformare la spaventosa Sekira in un «sereno» luogo di lettura.

Ma il buco della ciambella sembra non riuscire perfettamente. Per l’astuzia dei «lettori», anzitutto: «Sulle panche erano seduti dei ladri […] e, tutti quanti, leggevano i giornali. Nessuno osò alzarsi per fare una lamentela, ma ricorsero ad un’astuzia; tenevano il giornale capovolto. Gor’kij si avvicinò a uno di essi e senza proferir parola voltò il giornale nel modo giusto» (27). Aveva capito?

E poi per la sincerità di un ragazzo, trovato nella «colonia»: «Tutti sono timidi, tutti sono contenti. D’un tratto un ragazzo di quattordici anni dice: “Senti, Gor’kij. Tutto quello che vedi non è vero. Vuoi sentire la verità? Te la devo raccontare?”. Sì, annuisce lo scrittore. Sì, vuol conoscere la verità. […] Tutti hanno l’ordine di uscire, anche i ragazzi, anche quelli della GPU che accompagnano, e per un’ora e mezza il ragazzo continua a raccontare al vecchio spilungone. Gor’kij esce dalla baracca sciogliendosi in lacrime. Viene fatto salire su un calesse e condotto a pranzo nella villetta del capo del lager. Intanto i ragazzi si precipitano nella baracca: “Hai detto delle zanzare?”. “Sì!”. “E delle pertiche?”. “Sì”. “ E degli uomini-cavallo? (28)”. “Sì”. “E di come li spingono giù dalla scala?… E dei sacchi?… Del pernottamento nella neve?”. Tutto, ha raccontato tutto quanto il ragazzino che amava la verità!!! Ma non conosciamo neppure il suo nome» (29). Quando Gor’kij partì, «[…] non appena il suo piroscafo salpò il ragazzo [che aveva raccontato anche delle zanzare] venne fucilato» (30). Aveva quattordici anni!

Il «cantore» aveva capito e aveva pianto? Forse, ma un «cantore» che si rispetti non può cedere ai sentimenti, deve solo allargare il buco della ciambella. Gor’kij lo fece, raccontando la sua visita così: «È una giornata bella, mite. Il sole settentrionale illumina benevolmente le caserma, i viottoli che vi conducono […] aiuole fiorite […] Le caserme sono nuove nuove, molto ampie; le grandi finestre danno molta luce e aria… Non riesco ad esprimere in poche parole le mie impressioni. Sarebbe davvero una vergogna usare lodi stereotipate per esaltare l’energia strabiliante di uomini che, come sentinelle vigili e indefesse della rivoluzione, sanno anche essere eccezionali e arditi creatori di cultura. […] Nell’Unione dei Soviet Socialisti si riconosce che “il criminale” è creato dalla società classista, che “la delinquenza” è una malattia sociale che nasce dal terreno corrotto della proprietà privata […]. Mi sembra che la conclusione sia chiara: i lager come le Solovki sono indispensabili» (31).

* * *

«Gli albatros migrano [dalle Solovki] verso il golfo di Biscaglia per l’inverno portando con sé tutti i segreti della prima isola dell’Arcipelago. Ma non li racconteranno sulle spiagge spensierate, non li racconteranno a nessuno in Europa» (32).

Certamente non li hanno raccontati al giornale cui il professor Dalla Chiesa affida le sue riflessioni sociologiche sui milanesi originate dalle zanzare di Finlandia. Ma forse non li hanno raccontati nemmeno a lui.

Guido Verna


Note

Legenda
AS = ALEXANDR SOLŽENICYIN, Arcipelago Gulag, 3 voll., Mondadori, Milano 1975, vol. II;
JB = JURIJ BRODSKIJ, Solovki. Le isole del martirio, trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1998.

(1) Cfr. Nando dalla Chiesa, La leggenda sulle zanzare finlandesi, in L’Unità, Roma 20-8-2007. Nel suo intervento sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci (1891-1937) il sottosegretario ulivista — prendendo le mosse da un argomento a prima vista di basso profilo, la presenza delle zanzare in Finlandia, e considerata, in pendenza di in suo viaggio in quella nazione, la sistematicità con la quale i suoi conoscenti milanesi lo avvertivano maldestramente, cioè senza fare precisazioni né geografiche né temporali, della voracità degli insetti lì «pungenti» — arrivava a conclusioni decisamente più serie sullo «stato della cultura» a Milano, affermando, fra l’altro: «E perché quella verità assurda scientificamente (non “quando si sciolgono i ghiacci”, non “in quella regione”; ma “in Finlandia, sempre”) è diventata credibile, più che leggenda metropolitana, verità certa e condivisa? Non è forse questa una metafora, una parabola formidabile dello stato culturale della città? La città che fu capitale dell’Illuminismo, che diede spinta alla scienza e all’industria in tutte le loro combinazioni, che oggi vanta il primato della ricerca scientifica, è la città in cui tutto può diventare, senza dimostrazione, anzi, alla faccia di ogni dimostrazione contraria, verità conclamata. La città dove la virtualità è la dimensione in cui si pensa, si parla e dalla quale si decide — anche — su quella piccola e scomoda appendice che sono i fatti materiali. Basta dirla e ridirla, una cosa, e diventa vera. Il pericolo comunista. Il complotto dei giudici. La cura Di Bella. I Diari del Duce. Le luminose sorti dell’Arcimboldi. La nuova Accademia di Brera alla Bovisa. Le Eccellenze che tutto il mondo ci invidia. Fino alle zanzare finlandesi. Quale sarà la prossima?». Il problema ha suscitato un fitto scambio di opinioni sui giornali e nella rete.
(2) JB, p. 9.
(3) Ibid., p. 12.
(4) AS, p. 34.
(5) JB, p. 13.
(6) AS, p. 45.
(7) JB, p. 65.
(8) Ibid., p. 17.
(9) AS, p. 144.
(10) JB, p. 17.
(11) Ufficiale dell’Armata Bianca anti-comunista, finlandese, detenuto alle Solovki dal 1922 al 1925 (cfr. JB, p. 291).
(12) Cioè a Popov Ostrov, villaggio in riva al Mar Bianco, carcere di transito a dodici chilometri da Kem, punto di smistamento verso le Isole.
(13) Ibid., p. 47.
(14) Scrittore, alle Solovki nel 1928-1929 e nel 1931-1933 (cfr. JB, p. 294).
(15) Ibid., pp. 51-52.
(16) Insegnante, alle Solovki nel 1923-1927 (cfr. ibid., p. 293).
(17) Ibid., p. 61.
(18) Accademico, alle Solovki nel 1928-1932 (cfr. ibid., p. 291).
(19) Ibid., p. 128; cfr. anche AS, p. 40.
(20) JB, p. 55.
(21) AS, p. 45.
(22) Cioè «la guida», «colei che indica la via».
(23) Ibid., p. 42.
(24) Ibid., pp. 39-40; cfr. anche JB, p. 193.
(25) Pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peškov (1868-1936).
(26) Cfr. AS, p. 65.
(27) Ibidem.
(28) «Fino al 1927 esistevano tre categorie di idoneità lavorativa, mentre dal ’27 ne aggiunsero una quarta, detta “da cavalla”, vale a dire senza limiti alla fatica fisica» (JB, p. 107). «Il Lager offriva una lugubre gamma di possibilità di brutale sfruttamento dei detenuti. Nikonov [pseudonimo di Semën Vasil’evič Smorodin, agrimensore, alle Solovki nel 1928-1930 (cfr. ibid., p. 291)] ricorda gli uomini “facenti funzioni temporanee di cavallo” (in sigla VRIDLO): «Andavamo a svolgere il lavoro dei cavalli, per questo eravamo chiamati “facenti funzioni temporanee di cavallo”. Ad ogni gruppo di cinque uomini, aggiogati alla slitta con tiranti di corda, era assegnato il compito di un cavallo» (ibid., p. 185).
(29) AS, pp. 65-66.
(30) Ibid., p. 66.
(31) Ibid., p. 189, dalla rivista Le nostre conquiste, nn. 5 e 6, 1929.
(32) AS, p. 48.


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