a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale
inserito il 25 gennaio 2008
Francesco Pappalardo
Una pregevole rilettura del Risorgimento
A tredici anni dalla prima pubblicazione inglese è uscita in Italia la nuova edizione, rivista e accresciuta, dell’opera Il Risorgimento. Storia e interpretazioni (1), in cui la studiosa inglese Lucy Riall, docente di storia al Birckbeck College dell’Università di Londra e autrice di una recente e innovativa biografia di Giuseppe Garibaldi (1807-1882) (2), prende in esame sia le vicende storiche che hanno portato all’Unità d’Italia, sia le correnti storiografiche che hanno offerto una interpretazione di quegli avvenimenti.
L’opera prende l’avvio dall’occupazione francese della Penisola, conseguente alla Rivoluzione del 1789, di cui è difficile sottovalutare l’influenza. L’abolizione della feudalità, l’incameramento dei beni della Chiesa da parte degli Stati, la codificazione delle leggi e l’imposizione di un modello di amministrazione pubblica uniforme e accentrata si aggiungono ai radicali cambiamenti territoriali, che "[...] cominciarono a minare quel senso di specificità storica e regionale che aveva offerto legittimità all’esistenza nella penisola di una pluralità di Stati distinti. [...] In definitiva, il tradizionale status quo, già scosso dalle riforme degli ultimi anni del XVIII secolo, fu distrutto dalle innovazioni politiche, amministrative e giuridiche importate dalla Francia" (p. 6). Per il Regno di Napoli, in particolare, "[...] si può dire che l’introduzione di un nuovo sistema amministrativo destabilizzò in modo permanente le antiche relazioni fra Stato e società civile" (p. 7). Uomini di recente acculturazione e di umili origini sociali entrano nel governo e nell’esercito, s’impratichiscono del gioco politico e sono poco propensi in seguito a lasciare le posizioni di potere acquisite. L’occupazione francese, inoltre, lascia uno strascico di idee e di organizzazioni rivoluzionarie, che cercano di trarre vantaggio dall’atmosfera d’instabilità politica e di depressione economica creatasi dopo la bufera napoleonica. L’azione dei sovrani restaurati cerca di combinare i princìpi dell’assolutismo illuminato del secolo XVIII con le novità politiche e amministrative dell’età di Napoleone Bonaparte (1769-1821) per creare quella che viene chiamata "monarchia amministrativa", cioè un sistema di governo fondato sulla centralizzazione del potere e sulla presenza di una forte burocrazia. La loro politica non può tuttavia essere giudicata con disprezzo sulla base di una mera valutazione ideologica. "La maggior parte degli storici italiani ha semplicemente accettato, senza discuterlo, l’assunto che i governi della Restaurazione fra il 1815 e il 1860 erano reazionari, e rivestivano quindi scarso significato e interesse. [...] Sebbene i contributi degli storici britannici e americani alla storiografia del Risorgimento del secondo dopoguerra siano stati meno palesemente polemici di quelli dei loro colleghi italiani, anch’essi riflettono questa distinzione concettuale fra progresso e reazione" (p. 38).
Il carattere teleologico dell’approccio degli storici liberali e marxisti al Risorgimento è stato criticato da una nuova storiografia — definita dalla Riall "revisionista" (p. 40) —, che guarda con sospetto alle metodologie e alle interpretazioni delle stagioni storiografiche precedenti e mette in discussione le immagini di arretratezza e d’immobilismo economico lungamente associate ai governi "reazionari" sulla base di comparazioni non realistiche fra l’Italia e l’Europa. "Si può così dire che la "deviazione" italiana è stata inventata dai suoi storici, influenzati da modelli di spiegazione deterministici dello sviluppo politico ed economico, nonché dalle drammatiche esperienze del fascismo e della guerra" (p. 43).
La teoria dell’inevitabilità del crollo degli Stati preunitari è stata sottoposta a critiche severe e si è insistito sugli aspetti di modernizzazione introdotti dai rispettivi governi, che non si erano trovati davanti a una scelta fra progresso e reazione ma avevano cercato di conciliare, in scenari mutati bruscamente, interessi locali, regionali, politici ed economici, spesso contrastanti o sovrapposti fra loro. Alcuni aspetti attribuiti solo ai governi italiani, come il ricorso alla censura e alla repressione militare, erano la norma nella maggior parte degli Stati europei, e l’istituzione di corpi di vigilanza specializzati sono in Europa un lascito dell’età napoleonica, non dell’antico regime. Paradossalmente il ritorno a un sistema amministrativo prerivoluzionario indebolisce quei governi, privandoli di uno strumento di potere e di controllo vitale in una fase molto turbolenta, mentre l’assenza di adeguati canali istituzionali di rappresentanza rende lento e difficile il processo di consultazione nell’Italia della Restaurazione: "i governi erano incapaci di dare risposte efficaci ai nuovi interessi economici perché non sapevano esattamente in cosa essi consistessero" (p. 62).
In anni più recenti ulteriori filoni di ricerca, attenti ai mutamenti più generali avvenuti in campo sociale e culturale, hanno messo in luce i legami profondi esistenti fra gli esponenti del nazionalismo risorgimentale e una nascente opinione pubblica liberale di dimensioni internazionali, e hanno analizzato i rapporti fra la sfera pubblica e quella privata nell’Italia del secolo XIX (3). In assenza di una reale rappresentazione politica, negli anni 1830 e 1840 nasce uno spazio pubblico parallelo ruotante attorno a salotti privati, circoli, caffè e giornali, piuttosto che alla famiglia, alle comunità naturali e alla Chiesa. La politica tende a invadere la vita familiare, sovvertendo i rapporti tradizionali, creando tensioni fra padri e figli e alterando i ruoli di genere socialmente accettati. I mutamenti nel periodo della Restaurazione producono forme d’instabilità sociali e politiche, che causano conflitti all’interno delle comunità. In particolare quando si verificano tumulti popolari — nel 1820, nel 1848 e nel 1860 — i membri delle nuove élite tentano di assumere con la forza il controllo delle amministrazioni locali, magari utilizzando le Guardie Nazionali come eserciti privati o ricorrendo — in Sicilia — al banditismo per sostenere le proprie rivendicazioni politiche o economiche. Ma l’aumento delle agitazioni rurali sembra far parte di una tendenza più ampia comune a buona parte dell’Europa: "Le riforme giuridiche ed economiche della fine del Settecento, accelerate fortemente durante il periodo rivoluzionario e napoleonico, ebbero conseguenze sociali dirompenti, che all’inizio si fecero sentire soprattutto nelle campagne" (p. 83). In particolare, lo smantellamento delle strutture feudali porta a cambiamenti repentini nei diritti di proprietà e all’erosione dei diritti consuetudinari sull’uso delle terre comuni, assestando un colpo devastante a molte comunità rurali, la cui vulnerabilità è dimostrata drammaticamente anche dalle numerose carestie ed epidemie del secolo XIX. Localmente vi è molta resistenza all’usurpazione delle terre comuni da parte dei ceti emergenti e non mancano occupazioni di terre e dimostrazioni pubbliche. "Questo fenomeno segnala una rottura nei vecchi legami feudali di patronage e deferenza, deve essere visto in rapporto alla centralizzazione e alla razionalizzazione amministrativa che privavano i contadini di ogni effettiva voce a livello comunale" (p. 88).
Anche i problemi dei centri urbani italiani — rapida crescita della popolazione, diffusione delle malattie, marginalità, e formazione delle cosiddette "classi pericolose", costituite da lavoratori occasionali che talvolta vivevano nell’ozio e nel vagabondaggio — sono più o meno gli stessi di tutta l’Europa. Non sembra però che il malcontento rappresentasse una base reale per l’azione rivoluzionaria in senso "nazionale": nonostante il venir meno delle gerarchie tradizionali, la persistenza di potenti legami verticali, così come il controllo morale dei parroci e la loro influenza nei settori della beneficenza e dell’istruzione, vanificano ogni conflitto di classe. "È molto difficile stabilire quale sia il legame fra rivolte popolari e Risorgimento. Gli storici revisionisti sembrano essere giunti alla conclusione che le ricerche sulla natura di tale connessione, almeno quelle svolte in termini di "lotta di classe", sono fuorvianti, perché muovono da un insieme di relazioni tra realtà economica e atteggiamenti politici e culturali che in verità non sono esistite" (p. 95).
La storiografia "revisionista", che ha mostrato i limiti dei liberali italiani, giudicati incapaci di formulare un progetto politico coerente per la soluzione delle difficoltà strutturali e amministrative che intaccavano la solidità dei governi della Restaurazione, ha rivelato però le sue carenze nel tentativo di spiegare come fu possibile che una élite priva di un programma immediatamente praticabile e poco rappresentativa della società italiana proponesse un’immagine diversa di sé e realizzasse un programma unitario. Alla fine degli anni 1980 e soprattutto dopo la crisi del comunismo, evidenziatasi nel 1989, il rinnovato dibattito sull’identità nazionale ha sollevato una serie di interrogativi, ai quali stanno cercando di rispondere gli storici revisionisti, riaprendo il dibattito sulla cultura italiana e riportando la politica al centro dell’attenzione. Costoro hanno fermato la loro attenzione sul crescente sentimento d’italianità culturale affermatosi a metà del secolo XIX in una ristretta élite colta ed espresso nella letteratura, nella musica e nelle arti visive. Basandosi su fonti letterarie e iconografiche, Alberto Banti ha individuato un "canone risorgimentale" (4), composto da una quarantina di testi che avevano consentito a un ampio pubblico di percepire l’esistenza di una comunità nazionale e di un passato comune, il cui fascino era ingigantito dal filtro delle opere d’arte romantiche, che avevano la capacità di evocare intense risposte emotive e di creare sentimenti di appartenenza comune.
Ovviamente i mutamenti politici non sono semplice espressione dell’opinione pubblica nazionalista. La connessione fra cultura e azione è garantita dal pensiero politico, che combina l’appello emotivo all’identità nazionale con una pesante critica all’ideologia e ai governi della Restaurazione, anche se i diversi gruppi rivoluzionari dissentivano apertamente fra loro sui metodi e sugli obbiettivi politici. Un ruolo importante in questo senso è svolto da Giuseppe Mazzini (1805-1872), che "[...] cercò di collegare i sentimenti di melanconia romantica diffusi fra la gioventù colta di entrambi i sessi a lui vicina a un concreto programma di azione politica" (p. 15). Il fallimento di una serie di rivolte ha fatto passare in secondo piano quella che la Riall considera la maggiore realizzazione dell’agitatore genovese, cioè la creazione di un’ampia rete politica radicale, con il suo centro a Londra e una serie di ramificazioni in gran parte dell’Europa e nelle Americhe, e il grande successo di opinione pubblica ottenuto con la creazione del mito garibaldino. In Mazzini si può individuare il punto di raccordo fra il nazionalismo come identità culturale e il nazionalismo come movimento politico. "Il suo successo consiste nell’aver compreso che l’elemento decisivo per dare una valenza politica all’idea romantica dell’Italia risiedeva nel processo di comunicazione, e che, nel mondo post-rivoluzionario, la vittoria politica consisteva nella capacità di persuadere e di promuovere azioni simboliche tanto quanto nel controllo del potere politico" (p. 142).
In conclusione, l’azione di Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), è cinica e d’impronta elitaria ma si appoggia alla legittimità che l’idea dell’unificazione italiana aveva conquistato nell’opinione pubblica interna ed esterna, presso la quale sembrava rappresentare la soluzione più praticabile alla crisi politica in corso nell’Italia del tempo. "In questa prospettiva, furono la formazione dello Stato e più in generale i problemi connessi alla modernizzazione economica e sociale, e non le aspirazioni e i sogni dei nazionalisti italiani, a determinare nell’Ottocento il cambiamento politico dell’Italia" (p. 160).
Il libro di Riall svolge una sostanziale revisione della lettura di un periodo chiave della storia nazionale, esaminato alla luce degli studi più recenti, giungendo a conclusioni che mettono in discussione tutti i canoni risorgimentali e che potrebbero portare a risultati ancora più interessanti se integrati con le acquisizioni della "nuova" storiografia, volta a reinterpretare la storia d’Italia in termini assolutamente non convenzionali.
Francesco Pappalardo
Note
(1) Lucy Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni,trad. it., Donzelli, Roma 2007. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera.
(2) Cfr. Eadem, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2007.
(3) Cfr. Alberto Mario Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi Torino 2000.
(4)Ibid., pp. 44-45.
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