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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito l'8 gennaio 2011


Oscar Sanguinetti


Una bandiera «politica»?


Ieri, 7 gennaio 2011, il Presidente della Repubblica ha dato inizio da Reggio Emilia alle solenni celebrazioni del 150° dell’Unità. E lo ha fatto rievocando come la memoria nazionale annovera fra i suoi cardini proprio la nascita dell’attuale bandiera italiana dai tre colori, bianco, rosso e verde, adottata per la prima volta a Reggio, nel gennaio del 1797, dalla neonata Repubblica Cispadana.

E quel vessillo fu innalzato ancora prima dalle forze armate della «repubblica sorella». Infatti, il Congresso costitutivo, tenutosi nell’ottobre dell’anno precedente, aveva deliberato anche la creazione di una Legione, che fiancheggiasse i francesi nella guerra contro l’Austria al tempo della Prima Coalizione. E che «[…] la […] Legione Italiana [dovesse] avere come bandiera il vessillo bianco, rosso e verde adorno degli emblemi della libertà».

La Legione Cispadana, composta da sette coorti di sette centurie di militi ferraresi, bolognesi, modenesi e reggiane, non è infatti un fulgido esempio d’italianità, nonostante abbia marciato per prima sotto il tricolore.

Nei suoi pochi mesi di vita — confluirà nel giugno del 1797 nella Legione Cisalpina — la legione venne impiegata soprattutto contro gl’insorgenti — ovvero contro altri italiani, che combattevano in difesa della propria libertà, e per l’onore del loro duca e del Papa-re — e in non poche operazioni si segnalò per abusi e violenze, che ricordano tutt’altra e più recente stagione.

Trascrivo qualche passo dall’accurata Storia militare dell’Italia giacobina. Dall’armistizio di Cherasco alla pace di Amiens. 1796-1802 (Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito, Roma 2001, vol. I, pp. 425-429) di Virgilio Ilàri, Piero Crociani e Ciro Paoletti.

«La coorte ferrarese rimase di guarnigione a Milano fino al gennaio 1797, trasferendosi poi a Lecco e ai primi di febbraio a Bergamo, ancora soggetta al governo veneziano. Il suo primo servizio fu trasportare a braccia i cannoni sulle colline circostanti. […] Finalmente […] Rusca [il generale francese che comandava la legione] potè marciare in Garfagnana, seguendo però la strada di Lucca e Gallicano, essendo le altre interrotte dagli insorgenti. I modenesi rimasero di presidio a Livorno, Castelnuovo e Monte Alfonso, mentre il 6 gennaio 1797, compiuta la "pacificazione", i reggiani tornarono a Modena con Rusca. Scendendo verso Bologna [lungo la vecchia strada della Futa], nel tratto tra Barberino e Loiano, un centinaio di questi facinorosi si dette al saccheggio, con particolare ferocia a Santa Maria dei Boschi [frazione di Monghidoro, dove esiste un antico santuario]. Il generale Berruyer, subentrato a Rusca, li fece processare dall’uditore Finucci. Il 26 il promotore venne fucilato a Bologna in piazza Mercato e una ventina di correi condannati a pena detentiva assistettero all’esecuzione incatenati, insieme con l’intera coorte reggiana schierata sui lati della piazza. […] Tre ufficiali di quella modenese, due dei quali francesi, fecero parte del consiglio di guerra che emise 14 condanne a morte (9 in contumacia) di insorgenti garfagnini. […] Non è chiaro quale parte abbiano avuto i cispadani al forzamento del Senio [il fiume romagnolo, dove avvenne il primo scontro tra francesi e pontifici che difendevano i confini dello Stato del Papa Pio VI], il 2 febbraio 1797. […] Dopo la battaglia, lombardi e cispadani rimasero alcuni giorni di presidio in Romagna, commettendo furti di bestiame e rapine contro la popolazione locale e suscitando perciò, il 7 febbraio, un duro richiamo di Bonaparte con minaccia di severe punizioni. […] Il 16 la legione proseguì per Ancona […]. Aggregata alla colonna mobile di Rusca, il 21 la legione raggiunse Macerata e il 23 prese parte al massacro di S. Elpidio (136 vittime, senza contare le successive fucilazioni). Furono i 3 pezzi di Astolfoni a salvare la colonna, che si era lasciata imbottigliare dagli insorti in una strada angusta e infossata alle porte del paese. La legione ebbe 10 morti e 12 feriti, soprattutto fra gli artiglieri […].

Una lettera indirizzata l’11 luglio dall’ispettore Cicognara al comitato centrale cispadano illumina le ragioni del risentimento accumulato dai legionari durante le campagne della Garfagnana e delle Marche. Secondo Cicognara i francesi li avevano usati come manovalanza o carne da cannone contro gli insorgenti, arrivando a cose fatte e riservando solo a sé stessi il diritto di saccheggiare, mentre Rusca e Victor "intascavano e rubavano" i tributi di guerra destinati alle coorti cispadane di guarnigione ad Ancona. […] Il 1° aprile, proprio mentre a Ferrara Rangone vergava questa lettera avvocatesca e servile, il distaccamento di granatieri ferraresi del tenente Vincenzo Rota, aggregato alla colonna Cavalier, partecipava alla strage di Cennati in Val Sabbia [Brescia] ("dove non ne lasciarono vivo nemmeno uno per gridare San Marco!", si compiacque poi di rapportare Guidetti). Il 2 toccò a Trescore, dove, uccisi tutti i maschi, il villaggio fu dato alle fiamme. Il 3, espugnato l’epicentro di Nembro, quel filosofo di Andreuil offerse il perdono a quelle "bestie", convinto, secondo Guidetti, che il terrorismo funzionasse soltanto con gli esseri umani ("dilucidare il loro accecamento con un migliaio di morti"). In queste operazioni i ferraresi ebbero 2 morti e 6 feriti, inclusi Rota e il valoroso caporale quindicenne Carlo Traversi».

È questo solo uno piccolo scampolo, un brandello — colto al volo da un’opera documentata e onesta — della storia di quella gigantesca e lunga guerra civile, l’Insorgenza, che si combatté allora e di cui la memoria si è persa.

Dunque, il tricolore è nato in un frangente tutt’altro che «idilliaco», durante una guerra civile.

Che cosa voglio dire? Che bisognerebbe gettarla via o bruciarla, come oggi è di moda? No, di certo. È la bandiera dell’Italia unita, di ieri e di oggi: i nostri nonni e i nostri padri hanno combattuto e sofferto per essa, per quello che rappresentava, senza pregiudiziali «politiche».

Semplicemente stona e rincresce che dopo anni di studi si continui a sorvolare su una verità che, lungi dal mettere in discussione il mito, semplicemente non lo fa confondere con la verità storica. Basterebbe anteporre un «nonostante» — «nonostante la nostra bandiera nasca in un tempo di divisione fra italiani…» — e tutto andrebbe a posto. E invece si invoca l’unione e la concordia fra italiani del terzo millennio, fondandola poi su una memoria mistificata e mistificante.

Che senso ha — se non ideologico: salvare tutta una cultura politica in sfacelo dopo il 1989 — individuare nelle «gesta» e nei simboli dei «giacobini» italiani, ovvero quanto di meno nazionale e di più «divisivo» si possa concepire, gli albori dell’Italia? Gl’insorgenti non erano italiani come gli altri? E non si può non sapere che sono esistiti…



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