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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale






Cesare Mozzarelli



IDENTITÀ RELIGIOSA E IDENTITÀ NAZIONALE: UN RAPPORTO ANCORA DA COSTRUIRE?



Il terminus a quo: il Rinascimento

L’impostazione di una soluzione al quesito posto dal titolo di questo intervento richiede di partire dall’interpretazione del Rinascimento. Il Rinascimento viene visto come cristiano o come a-cristiano proprio come conseguenza della distorsione della memoria italiana. In realtà il Rinascimento, cioè il rinascimento degli antichi nei moderni, l’uso degli antichi come grande scatola di esempi dai quali trarre gli esempi più virtuosi e più adatti alla buona riuscita delle attività umane, questo Rinascimento è un Rinascimento che viene cristianizzato. Anzi, si può dire che uno degli elementi della «gara» tra mondo cattolico e mondo protestante nel Cinquecento è proprio quello della capacità di far propria tutta l’eredità classica e di dimostrarla coerente con la propria prospettiva religiosa. Questo è ciò che si chiama «classicismo cristianizzato», è il classicismo che esce dalla Controriforma, è il classicismo dei Gesuiti, che appunto riprendono Michelangelo Buonarroti e fanno erigere la Chiesa del Gesù di Roma, che diventa il modello per tutte le chiese gesuitiche nel mondo.
Questo dimostrare che cattolicesimo e classicità possono combinarsi in modo particolarmente efficace al fine di ordinare la vita individuale e collettiva dell’uomo, questo classicismo cattolicizzato conquista l’Europa. Nel Cinquecento e nel Seicento la cultura europea va da sud a nord, va dai paesi cattolici — l’Italia in primis, poi la Spagna, la Francia… — verso i paesi protestanti. Sono i libri italiani o spagnoli che si traducono in inglese o che si pubblicano in latino in giro per l’Europa, non certo i libri protestanti, che vengono tradotti in italiano o in francese, e non tanto per questioni di occhiuta repressione o altro, perché poi nel Settecento questi stessi libri scenderanno in Italia e ne cambieranno la cultura. Tuttavia, prima di allora, ci saranno di mezzo alcuni passaggi.

Italia e cultura europea

L’Italia del Cinquecento e del Seicento è considerata il riferimento culturale europeo per eccellenza ed è un riferimento inscindibilmente classico e cattolico. Non a caso tutti gli europei, appena possono, compiono il loro perfezionamento culturale attraverso il grand tour, che si svolge in Italia e che ha Roma come suo punto fondamentale di arrivo. Certo, noi possiamo leggere negli autori inglesi del Seicento che vengono in Italia, come il vescovo anglicano scozzese Gilbert Burnet (1643-1715) nel 1684, delle descrizioni impietose dell’Italia, ma pensiamo per analogia a quanto accade oggi con l’egemonia culturale americana: una settimana a New York è considerata anche qui un modo per conoscere la capitale del mondo. Poi si può tornare disgustati dai ghetti neri o dalla condizione di squallore di certi posti, ma sta di fatto che è lì che si va, non si va altrove: allo stesso modo allora si veniva in Italia. Poi si poteva anche trovare che gli italiani erano brutti, sporchi e cattivi, sta di fatto che l’Italia era un passaggio ineliminabile. Tanto è vero che William Shakespeare ambienta Giulietta e Romeo a Verona, così come poi è stato ambientata a New York l’opera West Side Story, guarda caso. Se noi guardiamo alla cultura europea, quella cultura di cui parlava prima Roberto de Mattei, citando uno dei più grandi libri europei, Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius (1886-1956), noi vediamo che a un certo punto tutto passa per l’Italia. In qualunque cultura europea si passa per un riferimento italiano.

La rottura settecentesca e napoleonica

Le cose cominciano a cambiare — per vari motivi che sarebbe un po’ lungo adesso spiegare — nel corso del Settecento. Nel corso del Settecento la formazione delle grandi monarchie è ormai compiuta, l’emergere dell’idea di progresso, che è un’idea nuova, che non c’era prima, e, quindi, il perdere d’importanza degli antichi — e, dunque, del passato — come esempio, fa sì che la cultura italiana, che era stata l’eccellenza di questa cultura cristianizzata dell’Europa classica, faccia fatica ad ambientarsi nel nuovo contesto. E gli italiani cominciano a interrogarsi, facendo il rapporto con la Francia — ma con la Francia di Luigi XIV, la Francia potenza imperiale, piuttosto che non con la Francia degli illuministi —, cominciano a chiedersi come mai l’Italia non sia all’altezza degli altri paesi. E, a questo riguardo, esiste tutta una letteratura e una polemica.
Il punto di svolta è comunque rappresentato, nell’età napoleonica, dalla necessità di ridefinire una volta di più qual è il passato europeo, che è un passato nel quale appunto il classicismo cattolicizzato, l’Italia cattolica, che è stata culla e veicolo della cultura europea, non può non essere compresa. La nuova cultura, che s’impone dopo la Rivoluzione Francese, deve pur fare i conti con il passato, deve anch’essa «darsi» una memoria. Ed ecco che, rispetto all’Italia, appaiono un paio di libri fondamentali, non a caso di autori protestanti e ginevrini, Germaine Necker di Staël-Holstein «Madame de Staël» e Jean Charles Léonard de Sismondi, che fanno i conti per l’Europa e per l’Italia e per gli italiani che accoglieranno positivamente queste versioni del passato classico dell’Italia.
I due libri sono notissimi, sono Corinna o dell’Italia di Madame de Staël, che esce nel 1804, e La storia delle repubbliche italiane di Sismondi, che appare in più volumi negli anni Dieci dell’Ottocento.
Che cosa dice Madame de Staël? Dice: l’Italia è il luogo del passato, del sentimento, e, visto che i classici e il cattolicesimo non hanno più nulla da dire al mondo moderno, quello che l’Italia può aggiungere alla formazione dell’uomo moderno razionale e progressivo, è la dimensione del sentimento, dell’emozione. Infatti i protagonisti dell’opera sono Corinna, che è poetessa romana, che fa conoscere appunto il sentimento e la grandezza della memoria, una memoria che è a questo punto classica e cristiana in modo indifferenziato — sono i Fori romani, così come San Pietro —, a Lord Nelville che è lo scozzese moderno, ma appunto rovinato interiormente dall’aridità della sua formazione razionalista.
Sismondi completa l’opera dicendo che l’Italia ha avuto un grande periodo di sviluppo, quello medievale, quello delle repubbliche, che sono il modello della nuova libertà rivoluzionaria, ma che queste repubbliche sono poi fallite a causa della religione cattolica, del papato. Come sapete Manzoni risponderà, ma la linea di Sismondi è una linea destinata a diventare dominante, come la linea di Madame de Staël, per la quale appunto il nuovo viaggio nell’Italia dell’Ottocento sarà un viaggio nella memoria, nell’«altrove» rispetto alla modernità. Per questo completa l’opera — semplificando — Jacob Burckhardt, che scrive La civiltà del Rinascimento in Italia, e che è uno zurighese, anch’egli ovviamente protestante, che parla dell’Italia come del «dolce sud morto alla storia». Vado in Italia per togliermi dalla modernità, sostiene in essenza. E nel suo carteggio ci sono delle lettere terrificanti, potremmo dire, su questa alterità dell’Italia consegnata al passato, l’Italia del folklore, l’Italia che sarà poi quella tutta «pizza e mandolino» o cose di questo genere.
Un’Italia naturale rispetto all’artificialità della modernità, una naturalità, che è assicurata proprio anche dal cattolicesimo, in quanto il cattolicesimo tiene lontana la modernità, è opposto alla modernità, e quindi ecco che ancora oggi, se ci pensate, la grande attrazione degli europei del nord, per esempio, per le cerimonie religiose del periodo pasquale, tanto in Italia quanto in Spagna, ecco, è dovuta a questa idea che è questa la «vera» Italia, non certo luoghi come Milano.

La rinascita del machiavellismo nella seconda metà dell’Ottocento

Come detto, Burckhardt in La civiltà del Rinascimento in Italia, questo libro del 1860, destinato a non uscire mai più di produzione — ancora oggi se voi andate in libreria lo potete trovare nella traduzione italiana, ma con un grandissimo successo in tutta Europa — , nel quale si completa il discorso di Sismondi, scrive: la grandezza di quella che lui chiama la «civiltà del Rinascimento» — e dal successo di quest’opera nasce poi quell’idea che il Rinascimento sia quello che lui dice — nasce dal fatto che, pur di mantenere il potere, questi uomini, questi principi italiani, che fino a quel momento erano stati definiti come tiranni, sono capaci di qualunque spregiudicatezza. Il loro modo di fare politica è del tutto sganciato da una dimensione etica. E questo, notate, è quello che la cultura europea liberale intorno al 1860-1870 comincia a pensare, nella crisi del liberalismo, di fronte alla Comune di Parigi del 1871, o, in Italia, davanti alla sconfitta nella Terza Guerra d’indipendenza. Ma come? Noi siamo lo Stato nuovo, la nazione, e veniamo sconfitti dal passato, dall’Impero asburgico che rappresenta un relitto della storia? Ci deve essere qualcosa che non funziona! Non funziona l’idea di uno sviluppo progressivo naturale, occorre che questo sviluppo progressivo sia incardinato, sia sostenuto dalla forza del potere, dalla forza dello Stato. Ed ecco allora che Burckhardt ci dice: guardate, gli italiani del Rinascimento sono quelli che hanno inventato lo Stato come opera d’arte, quindi uno Stato, come Stato artificiale, in cui l’importante è il potere. E questo è anche il momento nel quale, guarda caso, viene riscoperto il Niccolò Machiavelli del Principe, perché fino a circa il 1855-1856 il Machiavelli del Principe è un Machiavelli del quale nessuno si proclama erede, imitatore, nessuno dal Cinquecento in poi, nessuno in tutta Europa. Machiavellici sono sempre gli avversari, perché l’idea del principe di Machiavelli, sul quale si potrebbero dire tantissime cose, è in sostanza: l’importante è appunto il mantenimento del potere, l’importante è non essere buoni, non essere virtuosi nel senso cristiano, ma ottenere il risultato. Ecco questa idea è incompatibile con la cultura politica di antico regime, con la cultura politica europea — naturalmente dentro a questa cultura ci sono poi degli svolgimenti che permetteranno di pensare in chiave positiva Machiavelli —, ma è significativo che nessuno si proclami allievo di Machiavelli fino al 1860, quando invece, da quel momento in poi, Il Principe di Machiavelli diventa il modello per la politica. E allora al Principe di Machiavelli si rifarà Antonio Gramsci col Nuovo Principe, cioè il Partito, al Principe di Machiavelli si rifarà Benito Mussolini, al Principe di Machiavelli si rifarà tutta la cultura europea e italiana.

E qui c’è un punto di svolta, che ci porta poi a quello che vorrei dire in conclusione: nel momento in cui si pensa che le idee liberali da sole non siano in grado di realizzarsi, e quindi occorre puntare su un’armatura statale che costringa le masse a capire la bellezza del liberalismo e a garantirne i risultati, ecco che la politica diventa equivalente di potere, non più di autorità, di autorevolezza, di capacità di convinzione, ma a questo punto, eliminando il rapporto con gli ideali, che fossero quelli liberali oppure, prima, quelli etici cristiani, si dice che appunto: la politica è il potere. Se voi prendete qualsiasi libro di teoria della politica, di cosiddetta scienza della politica — materia inventata — del Novecento, scritta da democratici alla Norberto Bobbio o da persone di altra inclinazione, trovate sempre: la politica è il potere. Questo è un punto di svolta drammatico, ed è chiaro che in questa prospettiva il cristianesimo, e il cattolicesimo in particolare, non hanno spazio. E notate: nell’Ottocento quell’Italia rifiuta il classicismo, perché poi bisognerebbe dire che il classicismo è cristiano e allora questo non andava bene. Per esempio, il fondatore degli studi italiani e degli studi danteschi in America, cioè Charles Eliot Norton, che viene a Roma, affascinato appunto da Dante Alighieri e da altri grandi letterati italiani, è la stessa persona che scrive — in realtà era un mingherlino senza alcuna capacità fisica —: «[…] mi piacerebbe tanto trovare un cardinale in una via oscura di notte e poterlo pugnalare!». Ecco, quindi emergere questa contraddizione fra un’Italia del passato, grandissima, e una realtà del presente del tutto inadeguata.
Naturalmente poi tutto questo si lega alle vicende specifiche dell’unificazione politica e, quindi, è causa e conseguenza allo stesso tempo del modo con cui si arriva all’unificazione. È quindi chiaro che la Questione Romana diventa uno dei punti dolenti del nuovo Stato italiano e anche a quel punto uno dei luoghi dai quali si può capire perché l’Italia sia rimasta indietro rispetto al resto dell’Europa; perché, dunque, come dicevano prima gli altri relatori, sia necessario «fare» gli italiani, come se gli italiani già non fossero esistiti da mille anni o quasi.

La Storia della letteratura di Francesco De Sanctis

Chi sistematizza, e sistematizza fino ad oggi, e dà alla nostra cultura — anche alla cultura di coloro che sono qua oggi —, alla fine, il senso comune, il significato culturale di quella che è la storia italiana, è Francesco De Sanctis nella sua Storia della Letteratura Italiana, che esce nel 1871-1872 ed è un altro libro che è tuttora continuamente in commercio.
È un libro di riferimento e, se voi lo andate a leggere, vi trovate tutti gli stereotipi della nostra cultura, in particolare la notazione che, accanto al predominio straniero, conseguenza del papato, il quale ha impedito l’unificazione — con tutto quel che segue —, esiste il fatto che la cultura italiana, in quanto cultura cattolica, condizionata dalla Chiesa cattolica, dal Cinquecento in poi decade. Che l’Italia del Seicento sia l’«Italia della decadenza» è un’invenzione colossale, perché invece questa l’Italia era uno dei paesi culturalmente più avanzati d’Europa e nel quale si viveva meglio, uno dei paesi più ricchi — non a caso ancora Napoleone, quando deve convincere i suoi soldati ad attraversare le Alpi nel 1796, dice loro: «avete davanti a voi le più fertili pianure d’Europa, i più ricchi paesi», con quanto segue. E infatti farà poi l’elenco delle quantità d’oro, di denaro e di materiali artistici e non, che porterà in Francia. Allora, se questo Paese era così decaduto e decadente, non si capisce come ancora due secoli dopo possa essere additato come uno dei paesi più ricchi rispetto alla Francia, non ancora imperiale, ma sulla strada di diventarlo. Qual è il meccanismo — è questo il punto —, che si trova nella Storia della letteratura italiana di De Sanctis? Il meccanismo è questo: De Sanctis finisce dicendo: dobbiamo trovare il progresso, dobbiamo metterci alla pari con gli altri europei: c’è stata la decadenza, la colpa è appunto della Chiesa, è del cattolicesimo. Però, se dicesse solo questo, direbbe troppo perché toglierebbe ogni speranza di mutamento, e allora la sua Storia è la storia dei pochi che ci sono, di quelli che considera i «veri italiani», che vengono via via tutte le volte sconfitti dalla Chiesa che, attraverso l’inquisizione, l’oscurantismo, il controllo delle coscienza, e ogni altro espediente, impedisce a questi «pochi ma buoni» di prevalere: pochi ma buoni che, tuttavia, rinascono sempre. Si tratta anche qui di una linea interpretativa che dura fino ad oggi: pensate, appunto, alla mitologia che si fa degli eretici italiani, che sembrano i grandi protagonisti del Cinquecento italiano, quando erano in realtà letteralmente «quattro gatti» e spesso di modestissimo livello, che poi, magari — come l’iberico Miguel Servet y Reves, italianizzato in Michele Serveto —, se ne vanno dall’Italia per finire bruciati sul rogo protestante a Ginevra. Oppure, sempre a proposito di pochi ma buoni, tutti noi lo conosciamo, Galileo Galilei, che viene condannato. Tuttavia, nessuno racconta mai che il germanico Johannes Kepler, luterano, viene scomunicato dalla sua chiesa perché sosteneva le stesse cose di Galileo. Gli eretici del Cinquecento, gli illuministi del Settecento, fra i quali il milanese Pietro Verri. Questi è divenuto veramente un personaggio mitologico, mentre in realtà tutta la sua vicenda è la vicenda di un fallimento, che ha poco a che fare con la storia delle idee e molto con la storia sua personale e del suo egocentrismo: ma questa è un’altra storia, anche divertente da raccontare, perché anche qui il mito continua. Su Verri due anni fa Carlo Capra ha pubblicato un libro, che s’intitola addirittura Vita di Pietro Verri: i progressi della Ragione, un titolo che adombra l’idea che l’aristocratico illuminista incarni addirittura l’andamento della modernità.

Anti-modernità o modernità alternativa?

Il modello che De Sanctis propone è quello che legittima l’élite liberale e anti-cattolica del Risorgimento, come quella che rappresenta i veri italiani e, quindi, quelli che hanno il diritto di cambiare le masse, di trasformare gli italiani, di farli diventare come loro. Anche qui, per dire come il modello si perpetui, si può osservare, che quasi tutti a scuola hanno letto Lessico familiare di Natalia Ginzburg, e non è un caso perché si tratta di un libro su figure nobilissime, ma marginali rispetto alla società italiana, cioè quella minoranza che non si piega e quanto segue. Ma Natalia Ginzburg ha scritto anche un altro libro: La famiglia Manzoni. Mettete a confronto la famiglia Ginzburg come Natalia ce la descrive e la famiglia di Alessandro Manzoni, sempre descritta da lei. La famiglia Manzoni rappresenta per lei il concentrato di tutti i difetti e i limiti del cattolicesimo, sì che essa rappresenta la maggioranza degli italiani da risvegliare e la famiglia Ginzburg la minoranza positiva, tenacemente dedita a quest’opera. Questo meccanismo porta appunto all’idea del «fare» gli italiani, come dicevo, e all’idea che il vero italiano è anti-italiano. E questo vale a destra come a sinistra: che si tratti di Giuseppe Prezzolini o di qualunque giornalista di Repubblica, di un Paolo Flores d’Arcais, per dire un nome. Non a caso Giorgio Bocca credo che tenga ancora oggi una rubrica su L’Espresso, che si intitola L’Antititaliano. Non c’è nessun posto in Europa con una rubrica con un titolo simile: l’anti-francese, l’anti-spagnolo, l’anti-tedesco… Non c’è, perché soltanto noi abbiamo costruito un’identità come identità «dei pochi che giudicano i molti» e, quindi, un’Italia che è «tutta da rifare», è «tutta sbagliata», lo dica Bocca o lo dica Indro Montanelli. Perché anche la storia alla Montanelli è fatta nello stesso modo, da destra invece che da sinistra, ma è lo stesso modo.
Se questo è lo spirito, è allora chiaro che tutta la storia dell’Italia unita è la storia dello sforzo di queste élite generose di trasformare gli italiani, di nazionalizzare le masse, in senso coerente con loro. E in questo senso di nuovo possiamo leggere tutta la storia italiana: dagli sforzi dello Stato liberale e dalla sua lotta contro la Chiesa, vista come il punto di forza del passato, come quella intorno alla quale si poteva pensare un’alternativa alla trasformazione sociale dentro la modernità. Perché questo è l’altro e più vero problema: non è che si trattasse di andare contro la trasformazione: l’Italia si modernizza come si modernizzano tutte le altre nazioni europee; semplicemente ci sarebbero stati altri modi di questa modernizzazione. È qui presente la professoressa Maria Bocci, che ha scritto un bellissimo libro su padre Agostino Gemelli, nel quale si dimostra appunto come Gemelli avesse, con la sua Università Cattolica, a cui ho l’onore di appartenere, anche se oggi è un po’ diversa da quella di padre Gemelli, un progetto di confrontarsi con la modernità senza subire le strettoie del liberalismo anti-cristiano. Ed è solo uno degli esempi possibili.
Quindi, sono esistite alternative a tutto questo sforzo di nazionalizzazione delle masse, che lo facesse lo Stato liberale, che lo facesse, come diceva prima Francesco Pappalardo, il fascismo. Nel caso del fascismo, che cos’è in fin dei conti l’esaltazione di Roma se non un modo per trovare un’eccellenza alternativa a quella della modernità? «Noi abbiamo avuto Roma: voi che cosa facevate a quei tempi? vi arrampicavate sugli alberi?», disse più o meno Benito Mussolini ai tedeschi nel famoso discorso di Bari del 6 settembre 1934.
Anche con lui, in realtà, è sempre lo stesso sforzo di trasformare gli italiani, che continua anche dopo la seconda guerra mondiale con il Partito d’Azione, con il Partito Comunista e arriva fino agli epigoni odierni, tipo, appunto, Flores d’Arcais e simili.

Uscire dall’anti-cattolicesimo

Il problema, secondo me, è proprio qui: che se non si esce da questa logica, che è una logica, come dicevo prima, che può appartenere tanto alla destra quanto alla sinistra — posto che le parole abbiamo ancora il senso pre-1989 — non si riuscirà a cambiare la situazione, cioè gli italiani continueranno ad essere preda di un complesso di inferiorità per cui tutto quello che succede all’estero è più bello, sono più bravi, più saggi, più onesti, più tutto! Se poi uno ha un po’ di esperienza di questo famoso «estero», anche se fa solo una gita a Chiasso, si rende conto che l’estero non è poi così tutto rose e viole come ci viene. Noi, a differenza loro, abbiamo avuto la fortuna che, malgrado tutto, il cattolicesimo è rimasto innervato nella società italiana. Per certi versi bisogna dire che è così forte la sua innervatura, che su determinati aspetti persino gli avversari sono stati costretti a prendere a modello il cattolicesimo. Per esempio, c’è un libro di un’autrice che in questo momento non ricordo sulla morale comunista negli anni 1950, che è esattamente la stessa morale cattolica, certo virata sul laico, ma per il resto nei comportamenti è uguale. Noi abbiamo avuto la fortuna che, malgrado tutto, questo radicamento sociale dell’essere cattolici è rimasto. E questo credo che possa essere un elemento di grande speranza e che possa dare prospettiva proprio al nostro paese, anche una prospettiva di cultura politica, perché se la cultura politica della modernità, del progresso, è fallita, non fosse altro perché non sappiamo più se vogliamo più aria pulita o più automobili, per dirla banalmente — ma il progresso in realtà confligge sempre con se stesso, e quindi bisogna andare oltre questo conflito: non è più possibile immaginare che le risorse siano infinite —, allora mettere nella ricetta della cultura politica presente e futura una punta almeno di cattolicesimo potrebbe essere molto utile. Questa realtà terrena, come diceva De Mattei prima, è una realtà imperfetta, quindi nessun sistema può pretendere di chiudersi e di essere definitivo, nessuna prospettiva può essere assoluta, e questo comporta la consapevolezza del limite, quindi della provvisorietà delle soluzioni che ritroviamo e, quindi, anche — se vogliamo — della tolleranza, della speranza di trovare nel futuro una mediazione. Questa potrebbe anche soltanto essere una speranza metafisica, tuttavia è un modo di vedere le cose nel quale la politica non è più solo il potere, in cui la politica torna a essere questione di responsabilità, che dà autorevolezza, che dà autorità, perché si dimostra efficace, coerente con le attese dei più e non ha la pretesa di «mettere le braghe» al mondo, come è stata la grande pretesa della modernità.

A queste linee certo si potrà arrivare forse per altre strade, ma noi abbiamo, per fortuna, nella nostra esperienza, ancora vivente, il cattolicesimo, e questo credo possa essere uno dei contributi più importanti che una cultura cristianamente orientata possa dare all’Italia, perché permette anche di ripensare tutto questo passato, questa «memoria riconciliata», non come una memoria unitaria in cui tutto è uguale o in cui c’è un altro canone, che si afferma contro il precedente, ma come una memoria compassionevole — se vogliamo —, una memoria che riconosce anche le alterità, ma che in qualche modo le relativizza, le storicizza, le accetta dentro un pensare la storia come un qualcosa che non è del tutto nelle nostre mani, che non ha senso attraverso un’idea di progresso materiale che dipenda da noi. Ecco, io credo che in questo senso sia possibile proprio ripensare il nostro passato uscendo da quella micidiale alternativa tra quei pochi italiani buoni e i tanti incapaci, ottusi, arretrati, che saremmo poi credo anche noi qua dentro, fra gli altri.

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