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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 26 aprile 2009


Marco Invernizzi


Il Popolo della Libertà: un nuovo partito
al di fuori e contro le ideologie




Il 27 e il 28 marzo 2009 è nato il Popolo della Libertà (Pdl), un nuovo partito politico. Esso nasce nell’epoca «post-ideologica» apertasi con la rimozione del Muro di Berlino nel 1989 e con la fine dell’Unione Sovietica, nel 1991, dopo la Terza Guerra Mondiale, la cosiddetta Guerra Fredda, che ha contrapposto l’Occidente al sistema comunista insediatosi in Russia dal 1917 e nell’Europa orientale dopo la fine del secondo conflitto mondiale.

Non essendo ideologico, il Pdl non è quindi destinato a incidere nella vita della società nella maniera «invasiva» dei «partiti di massa» del Novecento, anzi di questo suo essere il partito dei moderati contrari alle ideologie, e in particolare ai totalitarismi del Novecento, si è fatto un punto di onore che gli ha portato molti dei consensi che oggi può vantare. Addirittura si potrebbe sostenere che la sua caratteristica più significativa è quella di voler essere una sorta di cintura protettiva dalle ideologie per l’Italia che sta oggi governando, un movimento-partito che privilegia la «cultura del fare» rispetto al «politichese», al linguaggio ipertecnico e criptico della politica moderna, come ha ribadito il suo leader, on. Silvio Berlusconi, durante il congresso costitutivo.

La sua nascita costituisce un fatto assolutamente importante, anche in ragione del consenso che riesce a mettere insieme grazie alla somma dei voti del primo – Forza Italia (Fi) – e del terzo partito – Alleanza Nazionale (An) – italiano e dall’essere accreditato da un recente sondaggio – citato da Berlusconi durante il congresso – del consenso del 43% degli italiani. Il Presidente del Consiglio e capo del nuovo partito ha poi dichiarato di voler puntare al 51% dei consensi degl’italiani.

 

1. Le origini prossime

La nascita del Pdl si può far risalire al 1993, quando Silvio Berlusconi, industriale di successo nel settore immobiliare e nelle televisioni non statali, decide di «scendere in campo», cominciando a lasciar intendere di voler fondare un partito, che poi nascerà ufficialmente il 18 gennaio 1994, Forza Italia, che non si definisce partito ma movimento politico. La formazione, infatti, non assomiglia né al «partito di notabili» ottocentesco che precede i partiti ideologici di massa nati in seguito alla Grande Guerra, né, naturalmente, a questi ultimi, che sono in qualche modo l’allargamento alle masse del modello «giacobino» di partito, che ha origine negli anni della Rivoluzione del 1789.

Forza Italia nasce dopo la fine del Muro e dopo «Tangentopoli» – l’operazione della magistratura milanese contro la corruzione dei partiti agli inizi degli anni Novanta –, fatti strettamente legati fra loro, che portarono al disfacimento delle forze politiche che avevano governato la Prima Repubblica, il Partito Socialista Italiano (Psi) e la Democrazia Cristiana (Dc). Forza Italia nasce dall’intuizione di un non-politico anticomunista, convinto che per impedire la vittoria elettorale della cosiddetta «gioiosa macchina da guerra» predisposta dal segretario del partito post-comunista, on. Achille Occhetto, nel vuoto di rappresentanza creato dai due fenomeni menzionati, bisognasse «inventarsi» qualcosa di nuovo. Occhetto infatti guidava un partito nuovo, sorto dalle ceneri del Partito Comunista Italiano (Pci) dopo la fine dell’Urss, un partito di sinistra, ideologicamente postcomunista, ma che continuava a fruire del formidabile apparato del partito creato da Palmiro Togliatti negli anni del Comitato di Liberazione Nazionale, fra il 1943 e il 1948. Una forza che non poteva garantire tranquillità agl’imprenditori e, in particolare, un futuro nella libertà politica ed economica a colui che aveva introdotto in Italia la televisione «commerciale» contro quella monopolistica dello Stato e che aveva sempre professato una profonda avversione per il comunismo.

Berlusconi, che non aveva mai nascosto – e continua a non nascondere – la sua amicizia con il segretario socialista Bettino Craxi – morto durante il suo esilio, volontariamente imboccato per sfuggire alle condanne inflittegli dalla magistratura di Milano –, spererà allora che fosse il politico già democristiano Mario Segni – promotore del referendum che modificava il sistema elettorale in senso parzialmente maggioritario – a guidare una coalizione moderata che si opponesse alle sinistre. Ma Segni rifiuterà questo ruolo e sceglierà di presentarsi come «terza forza» politica di centro, insieme al Partito Popolare nato dalla frantumazione e dalla scomparsa della Dc.

Il partito berlusconiano si forma utilizzando i quadri di un’azienda del fondatore, la Fininvest, e affronta il nuovo sistema elettorale parzialmente maggioritario alleandosi al Nord con la Lega di Umberto Bossi e al Sud con il Movimento Sociale Italiano (Msi), oltre che con il Centro Cristiano Democratico (Ccd), uno spezzone della Dc staccatosi dal resto del partito di ispirazione cristiana, il quale aveva cessato di esistere nello stesso giorno in cui nasceva Forza Italia.

La reale e profonda novità di Fi stava anche nel fatto che per la prima volta metteva alcune forze partitiche fino ad allora escluse in condizione di contare politicamente e con esse i milioni di elettori che il sistema politico del cosiddetto «arco costituzionale», rimodellato sull’unità antifascista del Cln, aveva sempre ghettizzato, a volte anche fisicamente. Ma tutto in quei giorni tendeva alla novità: l’intero mondo occidentale era in continua trasformazione per adeguare le proprie strutture politiche al mutamento globale seguito al 1989.

Berlusconi vince inaspettatamente le elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994 e si verifica così un cataclisma politico, che si può leggere come una vera e propria insorgenza contro il sistema dei vecchi partiti in nome del «Paese reale», di cui Berlusconi, «il Cavaliere» della Repubblica, l’uomo venuto «dalla gavetta», l’imprenditore di successo, il Presidente della più «vincente» delle squadre di calcio dell’epoca, il Milan, colui che aveva sfidato e vinto il monopolio dello Stato sull’informazione televisiva e che prometteva una «rivoluzione liberista» che avrebbe affrancato la società civile dalle lungaggini burocratiche e dalla corruzione statalista romana, era simbolo.

Ma la vittoria non è merito del solo Berlusconi, ma anche del localismo della Lega Nord, che era espressione del Paese reale: quello delle valli alpine, dei piccoli comuni della pianura padana, del «ventre» del Veneto. Gli italiani che avevano trovato nell’autonomismo dei leghisti una possibilità di partecipare alla gestione del potere locale contro i partiti, tutti in qualche modo dipendenti da Roma, e perciò ritenuti estranei agli interessi locali, grazie alla Lega e poi al governo presieduto da Berlusconi, nel 1994 consolidarono la loro forza locale e contemporaneamente si ritrovarono al governo nazionale di tutto il Paese. Con il neofederalismo di Bossi tornava altresì di attualità il problema politico dell’unificazione nazionale, dello Stato che il Piemonte nel 1861 volle centralizzato, copiando il modello francese e imponendolo a tutta l’Italia, dal Sud al Veneto e alla Lombardia.

Se l’alleanza con la Lega al Nord funziona, altrettanto bene va al Sud l’intesa con il Msi, che Berlusconi aveva indicato quale possibile futuro alleato politico già in occasione delle elezioni comunali di Roma, nel novembre 1993. In quella circostanza, infatti, il Cavaliere aveva pubblicamente dichiarato che, se avesse dovuto votare, avrebbe scelto il segretario del Movimento Sociale, Gianfranco Fini – candidato contro Francesco Rutelli –, che stava allora trasformando il partito nato neofascista in Alleanza Nazionale, una formazione conservatrice che rompeva con l’eredità ideologica del Ventennio. Anche l’elettorato di destra che aveva come riferimento obbligato il Msi – un voto conservatore che poco o nulla aveva a che fare con il fascismo del Regime e con il neofascismo ma che non si fidava di una Dc che si spostava sempre verso sinistra – esprimeva una parte del Paese reale. Si trattava di un elettorato non aveva mai avuto in Italia una rappresentanza politica di destra autentica, per l’identificazione forzata fra destra e fascismo operata dai partiti di governo del dopoguerra, soprattutto dal Pci, almeno a partire dalla caduta del governo dell’on. Fernando Tambroni nell’estate del 1960 dopo i moti comunisti di Genova, e dal successivo avvio dei governi di centro-sinistra. Grazie alla scelta di Berlusconi milioni di italiani ritornavano così protagonisti, come elettori ma anche come attori della vita politica.

Anche l’alleanza con il Ccd funziona. Ed è questo un avvenimento molto rilevante perché, anche qui, per la prima volta nella storia repubblicana un settore significativo della Dc si stacca dal tronco principale «da destra», spostandosi verso la parte conservatrice dell’elettorato, mentre fino ad allora si era sempre assistito a un progressivo scivolamento del partito d’ispirazione cristiana verso sinistra, prima attraverso l’ostilità della classe dirigente democristiana verso i Comitati Civici di Luigi Gedda, poi con l’«abbandono» di Tambroni nel mezzo della crisi del suo governo, nel 1960, per favorire l’«apertura» ai partiti di centro-sinistra; poi, infine, con i governi neociellenisti detti di «solidarietà nazionale», aperti al Pci, avutisi fra il 1976 e il 1979.

 

2. Il precedente della «maggioranza silenziosa»

Anche durante la breve stagione della «maggioranza silenziosa», che intercettava molta parte dell’elettorato della Dc, quest’ultima preferirà allinearsi con le forze politiche di sinistra.

In effetti, se torniamo indietro nella storia italiana, il primo fenomeno politico che assomigli a quello che oggi rappresenta Forza Italia è proprio la «maggioranza silenziosa», ossia quel movimento di reazione a base popolare contro la «Rivoluzione culturale» del Sessantotto, che porterà in piazza a Milano nel marzo 1971 decine di migliaia di persone – nonostante il clima da guerra civile tollerato dalle autorità, in un grandioso corteo svoltosi tuttavia con gli attivisti della sinistra extraparlamentare che filmano il corteo allo scopo di individuare per poi intimidire i partecipanti –, uomini e donne comuni, di orientamento conservatore e moderato, esasperati dalla violenza che infuriava nelle scuole e nelle fabbriche per colpa del movimento studentesco e dei gruppi rivoluzionari della sinistra extra-parlamentare.

Entrambe le realtà, la «maggioranza silenziosa» e Forza Italia, nascono nello spazio di poco tempo – qualche mese – come risposta a un’oggettiva emergenza e riescono a unire forze politiche e culturali molto eterogenee fra loro, mostrando come l’estendersi della violenza rossa degli anni Settanta e la probabile vittoria elettorale degli ex comunisti nel 1994 fossero un pericolo analogo e comune. Entrambe non opporranno un’ideologia al socialcomunismo, ma solo quel senso comune che rifiuta il sovvertimento di alcuni dei valori tradizionali, e che, soprattutto, si oppone alla penetrazione dell’ideologia marxista nelle strutture della Repubblica e nella vita quotidiana. Come farà specie allora, in quel famoso sabato pomeriggio del 1971, osservare non i soliti bellicosi rivoluzionari muniti di caschi e di bastoni, ma signore perbene sfilare – magari un po’ imbarazzate – per le vie di Milano, così allo stesso modo verranno guardati con stupore i dipendenti, gli avvocati o gli amici – anch’essi non privi di un imbarazzo che traspariva dal loro modo di affrontare la scelta politica – di Silvio Berlusconi che «scendevano in piazza» con il Cavaliere.

Naturalmente fra queste realtà vi sono anche non poche differenze. Anzitutto il fenomeno «maggioranza silenziosa» durerà pochissimo come espressione organizzata perché sarà travolta dalle provocazioni di diverse forze istituzionali e politiche e dalle sue divisioni interne. Il disastro politico organizzativo è conseguenza della violenza dell’epoca e, soprattutto, della mancanza di un forte punto di riferimento organizzativo e politico, che invece sarà sempre chiaro in Forza Italia, con l’indiscussa leadership di Berlusconi. Tuttavia, come espressione popolare, la «maggioranza silenziosa» sopravviverà al fallimento organizzativo e, per esempio, influirà in maniera determinante nella forte avanzata del Movimento Sociale – denominatosi nel frangente anche «Destra Nazionale» – nelle elezioni politiche del 1972 e, soprattutto, caratterizzerà la resistenza popolare degli anni Settanta sia contro il «compromesso storico» post cileno fra Dc e Pci, sia contro il terrorismo comunista, continuando a votare senza alcun entusiasmo la Dc, la «grande diga» contro il possibile regime comunista in Italia, e a volte premiando il maggiore anticomunismo del Msi-Dn.

 

3. Un altro precedente: il 18 aprile 1948

Ma, tornando ancora più indietro nel tempo, si può trovare un antecedente delle due realtà evocate nelle elezioni del 18 aprile 1948. Anche in questo caso la decisione di costituire lo strumento che farà la differenza durante la campagna elettorale, cioè i Comitati Civici (Cc), sarà presa solo tre mesi prima del 18 aprile per iniziativa di Papa Pio XII, il quale chiederà al Presidente degli Uomini di Azione Cattolica italiani, Luigi Gedda, di predisporre uno strumento operativo che rimediasse alla debolezza organizzativa della Dc.

Naturalmente la più evidente delle differenze fra allora e oggi sta nella diversa condizione del corpo sociale italiano, allora molto più omogeneo quanto ai valori di riferimento. Se oggi i cattolici praticanti sono fra il 20% e il 30%, a quel tempo erano molti di più e questo spiega il ruolo determinante dei Cc e della Chiesa nel positivo esito elettorale. Ma anche allora si trattò di mettere insieme forze cattoliche e non cattoliche, per diversi motivi, profondamente anticomuniste, ossia i socialdemocratici, i liberali, i repubblicani.

Oggi la società è molto più frastagliata, quasi «coriandolizzata», e in Forza Italia i principi vengono affermati occasionalmente, oppure «vengono fuori» nelle emergenze, come avvenuto con il «caso» di Eluana Englaro.

Sarebbe ovviamente ridicolo paragonare Berlusconi a Gedda, ed anche ad Alcide De Gasperi, per le troppe differenze personali, culturali fra i tre personaggi. Sono gli episodi di cui furono protagonisti che si assomigliano, nella genesi e nel risultato, oltre che nel significato culturale e politico. Se i personaggi sono molto diversi, altrettanto però non si può dire della parte di popolo attrice dei due episodi.

 

4. L’«insorgenza» come categoria politica permanente

Come accennato, si può dire che nel 1993 si manifesti una specie di «insorgenza» popolare – sul modello remoto di quelle contro Napoleone – contro quei poteri e quelle forze di natura ideologica pronte a plaudire alla «inevitabile» vittoria elettorale degli ex comunisti. Infatti, intellettuali e giornalisti – con rare eccezioni –, grande industria e burocrazia, dirigenti e dipendenti pubblici – il Paese «legale» – stavano allora tutti dalla parte della sinistra, quando non del centro di Mario Segni e del nuovo Partito Popolare. Anche molte curie episcopali non nascosero la loro preferenza, né lesinarono il loro impegno per il centro o per la sinistra, in un trend che durerà almeno fino alla Nota sull’impegno dei cattolici in politica della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2002 (1), che stabilirà dei criteri oggettivi e ragionevoli per il comportamento elettorale – eletti ed elettori – dei cattolici.

E il termine «insorgenza» non è casuale, ma significa qualcosa di concettualmente e di storicamente preciso. Come scrive Giovanni Cantoni, «Insorgenza» è un fenomeno storico e anche una categoria politica – per cui è lecito scriverla con l’iniziale maiuscola, come, per esempio, «Resistenza» –, con cui si può denominare la reazione di parti consistenti del corpo sociale di fronte al malessere indotto dal modo in cui si viene articolando il mondo moderno dopo il 1789. Una sorta di disagio popolare «dentro» la modernità, originato in particolare dal tentativo dello Stato moderno di costruire ideologicamente una società nuova e radicalmente difforme da quella pre-moderna. «Mi pare lecito ipotizzare – scrive Cantoni – l’esistenza di una “legge” storica - meglio, di un “ritmo” storico - per cui la società, cioè ogni società storica, dopo aver resistito all’inverosimile, reagisce all’imposizione di un abito organizzativo e istituzionale inadeguato e/o al tentativo di snaturarla per renderla docile a tale imposizione. Come pure ipotizzare, quindi, che l’Insorgenza sia l’espressione incarnata, socio-politica, quasi motus primo primus, “moto primo primo”, del corpo sociale, dell’“eterno ritorno del diritto naturale” (2), un “eterno ritorno” da intendersi non come periodica ripresentazione ciclica, ma come potenziale, permanente reattività di un “diritto naturale”, che non può essere trascurato, compresso oltre un determinato limite» (3).

La nozione di insorgenza si ricollega storicamente alle numerose insurrezioni antinapoleoniche avvenute in Italia e in numerosi Paesi europei nel periodo 1796-1799 – il cosiddetto Triennio Giacobino – e nel periodo imperiale, fino alla sconfitta definitiva di Napoleone. Di esse la storiografia italiana non si è occupata e quando lo ha fatto, lo ha fatto perché costretta, liquidandole come episodio antimoderno, come disperato e anacronistico tentativo di riportare indietro la storia di un Paese proiettato nella modernità, verso un progresso indefinito.

Ora, non vi è nulla di più moderno dei due esempi che ho portato: sia i Comitati Civici sia Berlusconi e il partito nato dalla sua vicenda politica si sono sempre autorappresentati come soluzione moderna ai problemi posti dalla modernità – si scusi il gioco di parole. In effetti, lo stile propagandistico, le parole e i mezzi utilizzati, in entrambi i casi sono stati profondamente innovativi.

Ma questo uso dei mezzi moderni è messo al servizio di «qualcosa» di quel «diritto naturale» di cui scrive Cantoni, ossia di quei principi che anche nell’epoca moderna sono rimasti, magari assopiti o contraffatti, nel cuore di una parte del nostro popolo e sono stati a lungo in cerca di qualcuno che avesse le capacità e l’opportunità di dare loro visibilità e forza organizzata.

Si tratta di principi che non sono né vecchi né moderni, ma semplicemente perenni, ovvero presenti nella natura umana creata a immagine e somiglianza di Dio e non completamente sradicati dal peccato di origine. Essi si ritrovano anche nel comune sentire dei popoli occidentali, residui presenti e vivi, anche se allo stato latente, magari in modo parziale e a volte confuso, a dispetto della cateratta d’ideologia che si apre nel 1789 e dura per due secoli fino al 1989, in parti significative della società. Nel tempo di quella forma dominante di modernità, caratterizzata dall’egemonia culturale della sinistra, sono sentimenti di cui è rimasto custode e promotore il Magistero della Chiesa e, per alcuni aspetti, hanno trovato spazio anche in quella che è stata definita «cultura di destra».

Quest’ultima, nella storia dell’Italia moderna, a livello politico non avrà mai la possibilità di essere veramente e genuinamente rappresentata: tuttavia i suoi valori di riferimento non scompariranno. Scrive il politologo Roberto Chiarini: «La destra in buona sostanza si trova ad operare nell’Italia repubblicana come un fiume carsico»; e ancora: «ad occhio nudo un osservatore può pensare che non esista, se non fosse per le sparute schiere dei nostalgici. Ma nelle pieghe della società civile essa è presente» (4).

E così è avvenuto. Le insorgenze popolari antinapoleoniche, i Comitati Civici di Luigi Gedda, la «maggioranza silenziosa» e, infine, la discesa in campo – e la sua permanenza alla ribalta per oltre quindici anni – di Silvio Berlusconi sono cose diversissime fra loro, ma esprimono tutte un «idem sentire» popolare, che si esprime in forma rudimentale nel rifiuto, che nasce «dentro» il Paese profondo, di ogni tentativo di imposizione, da parte dello Stato o di un’autorità superiore, di un modo di concepire la vita pubblica e privata ideologico ed radicalmente ostile alle radici storiche del «Bel Paese». Sempre Chiarini ha messo bene in luce questo tratto, che accompagna tutta la storia dell’Italia contemporanea: «Il fatto è che questa impronta giacobina, lungi dal rientrare una volta cessata l’emergenza della rivoluzione risorgimentale, dura nel tempo e si consolida fino a divenire uno stabile tratto caratterizzante della cultura e dello stile politico dei gruppi dirigenti partitici italiani, con una produzione a cascata di conseguenze nel lungo periodo. La più rilevante sul fronte della dinamica politica intercorrente tra istituzioni e cittadini è la presunzione, che sarà pressoché di tutti i partiti futuri, di essere portatori di una “verità”, ideologica o morale, da far calare sulla società civile ritenuta assiomaticamente immatura per governarsi da sola. La seconda è l’investitura degli intellettuali di una funzione politica privilegiata quanto strategica: quella di essere “costruttori di valori”. La terza è la torsione progressista che resta impressa in Italia alla politica, costretta solo a guardare avanti e a considerare destituita del benché minimo fondamento storico, oltre che morale, qualsiasi idea che attinga o si richiami in qualche misura a patrimoni morali, valoriali o politici premoderni in quanto intrinsecamente regressivi» (5).

 

Indicazioni bibliografiche

Una recente analisi dei mutamenti dei partiti italiani in Luciano Bardi, Piero Ignazi e Oreste Massari (a cura di), I partiti italiani. Iscritti, dirigenti, eletti, EGEA, Milano 2007. Una cronaca-testimonianza della «discesa in campo» di Berlusconi in Maria Latella, Come si conquista un paese. I sei mesi in cui Berlusconi ha cambiato l’Italia, Rizzoli, Milano 2009. Una cronaca della nascita del Pdl in Laura della Pasqua, La svolta del predellino. Svolta, segreti e retroscena della nascita del Popolo della Libertà, con una Prefazione di Gianni Baget Bozzo, Bietti, Brescia-Milano 2009.

Marco Invernizzi


Note

(1) cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, del 24 novembre 2002, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003.
(2) Cfr. Heinrich Albert Rommen (1897-1967), L’eterno ritorno del diritto naturale, trad. it., con Prefazione di Giovanni Ambrosetti (1915-1985), Studium, Roma 1965.
(3) Giovanni Cantoni, L’Insorgenza come categoria storico-politica, in Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, anno XXXIV, n. 337-338, Piacenza settembre-dicembre 2006, pp. 15-28 (p. 28).
(4) Roberto Chiarini, Destra italiana dall’Unità d’Italia ad Alleanza Nazionale, Marsilio, Venezia 1995, pp. 76-77.
(5) Ibid., p. 25.



Identità
nazionale



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Alle origini del conservatorismo americano. Orestes Augustus Brownson: la vita, le idee,

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in appendice: Orestes Augustus Brownson, De Maistre sulle costituzioni politiche Biblioteca del pensiero conservatore,
D'Ettoris Editori, Crotone 2013,
282 pp., € 17,90



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Sugarco Edizioni, Milano 2008,
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Giovanni Cantoni,
Per una civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo

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Cattolici e Risorgimento. Appunti per una biografia di don Giacomo Margotti
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