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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identitŕ Nazionale




Ronco, Rumi, Ghiringhelli, Invernizzi, De Francesco

Tavola rotonda
Regno d'Italia e identità nazionale

Milano, 19 novembre 2005

La tavola rotonda Regno d’Italia e identità nazionale ha concluso il convegno Napoleone e il Regno d’Italia (1805-1814). La Lombardia fra cesarismo post-rivoluzionario e prime forme di unificazione nazionale, tenutosi all'Università Cattolica di Milano il 18 e 19 novembre 2005. Vi hanno preso parte gli storici Antonino De Francesco dell’Università degli Studi di Milano, Robertino Ghiringhelli dell’Università Cattolica di Milano, Marco Invernizzi dell’Isiin (moderatore), Giorgio Rumi dell’Università degli Studi di Milano, e Mauro Ronco dell’Università degli Studi di Padova e membro del Comitato Scientifico dell’Isiin.

Il testo che proponiamo è la trascrizione della registrazione degl’interventi su nastro magnetico, con lievi ritocchi redazionali per migliorarne la leggibilità e con l'inserimento di alcune note esplicative; il testo non è stato rivisto dagli autori.



Invernizzi

Domanda

La prima domanda che viene spontanea, ma io non voglio cambiare la natura di questo convegno, sarebbe: ma chi era quest’uomo? chi era questo Napoleone, che ha attraversato la storia dell’Europa, arrivando anche oltre l’Europa e che per vent’anni ha tenuto in scacco le potenze europee, avendo alle spalle un regno, che dopo la Rivoluzione francese non godeva di buonissima salute? Invece la domanda è: che cosa è stato Napoleone per l’Italia? è stato il precursore del Risorgimento? o è stato colui che ha tentato una rivoluzione di origine straniera sul suolo italiano, Rivoluzione che non ha nulla a che vedere con il Risorgimento, cioè con la Rivoluzione nazionale, che prende avvio dopo la sua uscita di scena? Oppure, ancora, è stato un dittatore a-ideologico, come qualcun altro ha detto, e ha semplicemente seguito il suo istinto di potere?

Rumi

Questo, cioè quale è stato il ruolo di Napoleone nella storia d’Italia e quindi anche quello del suo Regno italico, è anche il "mio" problema. Francamente confesso che ero assai critico, ma invecchiando, leggendo, studiando, riflettendo, il mio giudizio è un po’ cambiato. Ecco io credo che la storia del Regno d’Italia, meglio: del primo Regno d’Italia ­— quello che ai miei tempi si chiamava ancora Regno Italico e gli storici lo chiamavano "italico" e non "d’Italia", come era il suo titolo, per distinguerlo dal secondo e per far vedere che era aurorale e parziale ­—, sia influenzata da una specie di misunderstanding, ossia fraintendimento, storiografico, cioè da una ipervalutazione degli antichi Stati, all’interno dei quali mai, che io sappia, gli storici hanno il coraggio di ricordare che, già agli inizi del Settecento, di italiano non c’era più niente. Erano infatti scomparsi in vario modo i Gonzaga, gli Estensi, tutto quello che c’era di dinastico e italiano in Italia. Tutti i sovrani erano stati sostituiti dalla diplomazia internazionale. Morti i Medici — tutti morti piuttosto ingloriosamente e spesso anche per degenerazione fisica ­— restavano le due repubbliche su cui forse è meglio stendere un velo pietoso, soprattutto su Genova, perché Genova riesce — altro errore catastrofico che torna nella storia d’Italia —, a pensare di fare qualcosa di politico senza avere le armi. Genova funzionava così: quando Camogli — non dico Savona o l’attuale Imperia — si ribellava, comprava un po’ di soldati svizzeri o tedeschi, finché questi riuscivano a soffocavare la locale rivoluzione. In Corsica non l’ha fatto, col risultato che Napoleone (1769-1821), nato suddito francese per pochi mesi, indosserà l’uniforme francese.

Questi vecchi Stati sono stati "pompati" — mi si passi il termine — all’inverosimile per via del loro riformismo: riformismo asburgico, riformismo familiare, ecc.: tutti presentano queste titolarità, che come scrive Rosario Romeo (1924-1987) alla fine della sua grande e insuperata biografia di Cavour [1], sembravano "lindi e aggraziati" — parole di Romeo —, ma nascondevano una realtà di estrema decadenza, di sfascio e di corruzione, soprattutto d’impotenza. Ricordo un piccolo aneddoto che riguarda Carlo (1716-1788), già Duca di Parma, nel momento di cui parlo re di Napoli e poi re — insuperato forse — di Spagna come Carlo III di Spagna, nei momenti delle controversie europee e con l’Inghilterra voleva che Napoli si schierasse. Ebbene, una mattina re Carlo si sveglia, apre le finestre del palazzo reale di Napoli e vede una squadra inglese che alza i portelli delle cannoniere e si trova due-trecento cannoni puntati sulla reggia. Allora si volge ai suoi e domanda: ma noi non abbiamo niente? No, maestà, non abbiamo niente. Ma come non abbiamo niente? E allora inventa la Marina napoletana, facendo venire John Francis Edward Acton (1736-1811), che credeva di far carriera nella Marina toscana — ometto di dire quale fosse la sostanza della Marina toscana del Settecento ai tempi del granduca Pietro Leopoldo (1747-1792) —, e poi combinerà qualcosa al servizio del re di Napoli.

La verità è che noi italiani eravamo una specie di budino, talliable et corvéable à merci [2]: la diplomazia europea può mandare un sovrano o un ministro a Parma, l’altro a Firenze, l’altro ancora a Napoli, oppure tagliare il territorio di Milano, cedere ai piemontesi l’Oltreticino — come avvenuto —, perché qualcuno ha deciso che Novara debba diventare Piemonte. E il perché era irrilevante. Nessuno osava neanche avanzare un interesse italiano. Sì, sappiamo dalla storiografia filo-sabauda che il principe Carlo Emanuele I (1580-1630) ci aveva pensato: sì, tutti ci avevano pensato, però non si concluse nulla. Il giudizio di questa specie di colonizzazione settecentesca dell’Italia a un certo punto bisognerà darlo, senza fermarsi ai palazzi e ai quadri — peraltro tutti in declino, perché, stranamente, la produzione artistica segue le fortune della forza politico-militare degli Stati, e questo vale anche per l’Olanda: più si scende geograficamente, più il "rifornimento" etico-artistico si depaupera.

In conclusione questi Stati italiani sono una cosa intollerabile. Prima o poi qualcuno lo dirà, a parte certe forme linde e aggraziate, che pur c’erano: un certo decoro, ma nulla più.

Ecco invece, Napoleone, certo per i suoi motivi, però, qualcosa di "italico" l’ha fatto. È vero, lo fece con le cautele del buon generale, finalmente riuscendo ad annettere il Piemonte e, già che c’era, arrivando a tutta la costa tirrenica, anche per ragioni doganali, fino a Roma compresa. Però sotto Napoleone c’era uno Stato italiano e questo non avveniva da mille anni. Da mille anni noi italiani eravamo ridotti, nella migliore delle ipotesi, a campo di battaglia dell’Europa. Ci si chiedeva: per andare a Vienna passiamo lì sopra? passiamo da Basilea o passiamo dalla Val di Susa? Ecco, allora i diplomatici decidevano serenamente se passare di qui o di là, se "fare" Parma o passare di qui o di là... Abbiamo avuto dieci anni di Stato unitario, con una moneta, con un’uniforme italiana, verde se qualcuno se lo ricorda. Poi, questi italiani, per esempio, facevano una cosa stranissima, cioè combattevano, cosa mai vista. Nessuno poteva pensarlo, salvo i singoli generali e i singoli corpi di truppe: fra parentesi, nel 1700 Milano aveva dato all’impero asburgico più marescialli e più generali di qualsiasi altra provincia dell’Impero: lo diceva Franco Arese (1918-1994), che li aveva nominati tutti [3]. Avevamo un esercito e in alcuni momenti critici questo esercito è stato mandato avanti, e non messo di retroguardia, perché scappava facilmente. Nella battaglia di Smolensk dell’agosto 1812 la famosa superfortezza russa fu presa dai soldati del reggimento di Cremona, da cui nessuno avrebbe mai immaginato prodigi di valore. I pontieri, essenziali nell’andata e nel ritorno della Grande Armata in Russia, erano tutti pontieri italiani: piacentini, cremonesi, mantovani, ferraresi: il Mulino del Po [4] insegna. Amministrazione, università, un sistema di rapporti fra Stato e Chiesa: da buon guelfo sorvolo sui suoi contenuti, ma c’era comunque un sistema unitario di gestione del fatto religioso e un tentativo anche di "mandare i vescovi alla Camera dei Lords": se fossimo inglesi useremmo questo linguaggio. C’era un Senato del Regno, i nobili avevano avuto titoli da Napoleone, anche molti se li avevano già di casa loro, e così via. Si trattava delle cose essenziali: per quanto si poteva, esistevano un’ammi­ni­stra­zio­ne, un esercito, una diplomazia: e poi contava l’esistenza dello Stato medesimo. C’era dunque qualcosa di italiano. A molti oggi questo non interessa, o lo vivono in modo ideologico, cioè attaccandolo alla Costituzione, mentre io lo collego allo Stato, qualunque esso sia. Napoleone, dunque, queste cose essenziali, le ha fatte. I costi, è vero, sono stati elevatissimi: la rivolta popolare è stata tale che quando, nel 1809, Eugenio chiama la gendarmeria, come suo dovere, al fronte veneto, fra l’Isonzo e l’Adige, tutto lo Stato crolla. Si sa che allora lo Stato non riusce più a mandare una carrozza da Milano a Lodi, se non scortata dalla cavalleria: il brigantaggio è diventato legge col fenomeno della renitenza alla leva.

Non ho parlato di consenso, non ho detto che Napoleone ebbe consenso: se si va a scavare nei documenti, si vede che il consenso era alquanto ridotto, perché le anime erano molto diverse, sentivano e pensavano a un futuro molto diverso. Mi è capitato di studiare Federico Confalonieri (1785-1846) e ho visto in lui tante e tante oscillazioni e tante ambizioni personali: per esempio, il sogno, bellissimo, di avere un re inglese… Peccato che l’aquila volasse troppo alto: il progetto non era possibile, nonostante i suoi legami di amicizia.

In conclusione per me il problema non esiste. Effettivamente dopo la caduta dell’impero romano, dopo i Carolingi assolutamente mai si vide alcun tentativo di mettere insieme qualcosa di simile, anche se incompleto, parziale, impopolare, costosissimo dal lato sangue e soldi. Però, noi italiani o vogliamo essere servi sempre oppure dobbiamo apprezzare il tentativo dell’età napoleonica di non essere servi, per esempio delle grandi potenze. E quindi è stato, per un complesso di motivi un fatto positivo.

Tuttavia, se si pensa e si studia la caduta della Repubblica di Venezia a opera di Napoleone si può essere colti da una crisi depressiva. È una cosa infame quello che accade allora: una decrepita oligarchia, sì, ma si trattava di uno dei pochi edifici politici che avessimo in Italia. Ma Venezia è una banca, non è uno Stato.

Io non do un giudizio positivo sul passato, soprattutto sei-settecentesco, per cui quello che Napoleone ha fatto — e accetto a scatola chiusa tutte le critiche al Regno d’Italia — è per me anche il primo passo verso una identità nazionale.

Ghiringhelli

Indubbiamente attraverso la figura di Napoleone vi è un passaggio traumatico nel modo di fare storia, intendendo come storia il rapporto fra autorità e quotidianità. Con Napoleone nascono tre nuove categorie, che entrano a fra parte, non solo della cultura, ma anche della quotidianità del territorio italiano.

Il primo è il principio di identità che passa dal potere ai sudditi, un’identità non più imposta, ma che ha dietro di sé una lingua, delle tradizioni, delle consuetudini, un territorio, tutto un insieme di norme, di comportamenti e di conoscenze, che diventano in epoca napoleonica la stretta connessione tra fatto e conoscenza del fatto, nascita dell’opinione pubblica e ruolo politico e non più solo culturale e di erudizione dei periodici e, in secondo luogo, è l’aspetto di istruzione e di formazione concreta nella quotidianità di questa nuova identità, che non è ancora pienamente un’identità nazionale, ma ne ha già molte delle caratteristiche, che poi usciranno nell’evolversi degli avvenimenti.

Il secondo aspetto è stato accennato negli interventi precedenti, ma non è stato approfondito per il poco tempo a disposizione ed è quello del nuovo tipo di diritto che si viene a introdurre col Regno d’Italia o, meglio ancora, con l’età napoleonica. Un diritto che ha anche un problema non solo di enunciato, ma soprattutto di applicazione: con Napoleone si forma un nuovo tipo di autorità, ben visibile, con regole ben precise, che è una magistratura di un certo tipo, distribuita capillarmente in tutto il territorio, e che è anche una magistratura amministrativa. Ricordiamoci che con l’epoca napoleonica finisce nella realtà italiana lo Stato cetuale, nasce lo Stato moderno con le sue strutture, con le sue istituzioni, con le sue relazioni e con la sua ricerca di identità, non solo all’interno ma anche all’esterno. Il collega De Francesco ci ha dato tutta una serie di passaggi, di panorami, di considerazioni, ma anche di problemi su ciò che hanno significato la costruzione e il confronto di questa nuova realtà statuale con le altre realtà statuali presenti al di là e al di fuori dell’ormai riconosciuta sudditanza con l’impero francese o, meglio, con Parigi o, meglio ancora, con Napoleone.

Poi, è emerso dal dibattito un altro aspetto, ed è quello secondo cui Napoleone è il primo grande mito non solo della storia politica, in positivo e in negativo. "Mito", infatti, vuol dire anche, da un certo punto di vista, "il diavolo", come abbiamo spiegato: e "il diavolo", nel nostro caso, sta anche nel fatto che Napoleone dà una spiegazione proprio certi tipi di insorgenze, che nascono da tutta una serie di insoddisfazioni, ma trovano il loro momento di sintesi nella lotta contro Napoleone. Napoleone è il primo che in epoca moderna usa l’opinione pubblica, la cultura, l’arte in funzione di un certo modello di potere, in funzione dell’identificazione del potere. In più, con il Regno d’Italia napoleonico la politica viene accentrata nelle città, nasce la peculiarità delle città, di chi vive nelle città, della popolazione attiva delle città. E questa sarà una caratteristica che troverà o non troverà spazio poi nel Risorgimento italiano, ma per tutto un altro discorso che non c’entra in questa tavola rotonda. Ma Napoleone è colui il quale nel suo modello di Stato dà un esempio di modernità da combattere o da seguire, ma è una pietra di paragone alla quale molta parte della vecchia aristocrazia italiana è impreparata e si trova a non saper rispondere se non col rifiuto, che non vuol dire che tutti i movimenti contrari a Napoleone fossero in queste condizioni — nelle relazioni ne abbiamo visti molti che avevano anche un aspetto costruttivo e non solo di rifiuto del nuovo modello e della nuova visione della società —, ma accanto a questo comincia a nascere quello che poi sarà il motivo saliente di chi vuol studiare la storia italiana alla ricerca di una identità nazionale: il problema del mondo delle campagne, che diventa subalterno in tutti i modi, abbandonato, e che risponde come può e che trova in alcuni settori — nell’aspetto della fede, nell’aspetto del bisogno materiale della quotidianità — un altro tipo di identità che lo porterà a essere estraneo a quel tipo di Regno nazionale e quindi a trasformare le insorgenze in qualcosa che va al di là dell’età napoleonica e a diventare un fenomeno "istituzionalizzato", di rifiuto di un certo concetto di nazione, di italianità, di stare assieme, di regole e via di questo passo. Accanto a ciò, Napoleone e la sua età hanno il merito di far uscire chiaramente le diversità, le inadeguatezze, i problemi che la Chiesa ha nei confronti della nuova quotidianità che sta sorgendo e nella relazione di don Apeciti abbiamo visto come addirittura nella diocesi di Milano nel giro di ottant’anni si hanno cinque tipi di catechismo diversi. Immaginatevi la gente che già allora non era profondamente acculturata, la gente comune che poi arrivò a coniare espressioni del tipo: "se non tiene più neanche la religione e seguita a cambiare, si è proprio rivoltato il mondo…". Napoleone rappresenta la novità in positivo o in negativo, ma ha questo grande merito di trasformare, trasportare le categorie della politica e del potere dalle teorie, dai libri, dai pochi, nella quotidianità. Ed è per questo che il Regno d’Italia napoleonico — che lo si chiami Regno d’Italia o Italico — è il primo impatto duraturo, che lascia un segno fra le diverse realtà italiane, la modernità in politica ma più ancora nella quotidianità.

De Francesco

Fortune e sfortune di Napoleone rispetto all’Italia possono essere individuate proprio nella differenza che intercorre tra il Regno "Italico" e il Regno "d’Italia". Non a caso negli anni del Regno d’Italia, cioè negli anni dell’Italia liberale, si definisce il primo "Regno d’Italia", il secondo, quello di epoca napoleonica, un "Regno Italico", ossia un regno che non può in alcun modo essere posto in relazione con quello che poi sarebbe uscito dal moto risorgimentale. E qui si misura, come dire, l’atteggiamento profondamente ostile del ceto dirigente italiano all’indomani dell’unificazione nei confronti di una tradizione politica che, soprattutto a far data dal 1870, dal crollo del Secondo Impero, dalla caduta di Luigi Napoleone (1808-1873) a Sedan, sempre caratterizzò appunto la politica dell’Italia unita, che si voleva, come dire, latrice di una cultura specifica, una forte cultura politica affatto nazionale, che nulla doveva, o nulla pretendeva dovesse, per esempio francese. Nell’Italia del secondo 1800 c’è proprio un tentativo di rimozione nei confronti del processo di formazione dell’idea nazionale, che invece ebbe sicuramente luogo, seppur in ambienti sociali sicuramente ristretti, negli anni rivoluzionari.

Il secondo punto sul quale vorrei insistere è che sotto questo profilo Napoleone è molto importante sul versante italiano non soltanto per le sue grandi gesta militari che lo portano, come dire, a essere l’eroe d’Italia per eccellenza, ma per quanto poi fa nel dicembre del 1799, cioè per il "colpo di Stato" di Brumaio. Non dimentichiamo che Brumaio sarà salutato con molto entusiasmo, a destra come a sinistra nello schieramento patriottico italiano, perché, sia quanti erano più conservatori, sia quanti erano legati all’ideale, come dire, di democrazia politica, vi ravvisano il ritorno in forze della Rivoluzione. Brumaio è il passaggio attraverso il quale le fazioni vengono sciolte e Bonaparte, che si presenta uomo di nessun partito, restituisce alla Francia un ruolo-guida a livello europeo, la cui la "prova provata" avrebbe dovuto essere il pronto ritorno degli eserciti francesi in Italia, cioè Marengo, cioè la ricostituzione della Cisalpina, e l’accettazione del fatto che la Cisalpina si dovesse chiamare "italiana". E poi sul versante italiano Napoleone I è molto importante perché è uno zio, è lo zio di un nipote che, nonostante Victor Hugo (1802-1885) lo chiamasse "piccolo", tanto piccolo non era. E questo nipote non soltanto svolge un ruolo determinante nel processo di formazione della statualità italiana, cioè nella nascita di quel Regno d’Italia, che così volle intitolarsi e che intitolò "Italico" quello precedente, ma si pensi alla stessa pratica del plebiscito. Il plebiscito introdotto da Napoleone all’indomani di Brumaio e ripreso dal nipote all’indomani del colpo di Stato del 2 dicembre 1851, è lo strumento mediante il quale si va costituendo poi, tra il 1860 e il 1861, il Regno d’Italia, e la dipendenza politico-ideologica dell’Italia del 1800 nei confronti di Napoleone è assolutamente innegabile.

Il fatto che la si sia voluta rifiutare è un percorso tradizionale presso quanti vogliono, come dire, "uccidere i padri" per poi avere una propria specifica collocazione. E se noi pensiamo alla tradizione storiografica degli altri paesi d’Europa, che vennero pesantemente condizionati dalla presenza napoleonica — si pensi alla storiografia olandese, a quella belga, a quella spagnola, a quella tedesca… — ritrovate sempre puntualmente la negazione del significato della stagione napoleonica sul processo di formazione di una identità nazionale. È come cioè se si fosse voluto rimuovere l’artefice, diretto o indiretto, di un processo di crescita nazionale perché altrimenti si sarebbe in qualche misura sottolineata la dipendenza da un modello straniero, mentre invece tutti cercavano una via nazionale alla modernità. Credo che l’Italia da questo punto di vista non faccia eccezione alcuna.

Un ultimo elemento, se vogliamo rimanere nell’ambito strettamente lombardo, settentrionale, se pensiamo a un personaggio che l’epoca napoleonica sicuramente incarnò in maniera compiuta, di cui si è parlato, Francesco Melzi d’Eril (1753-1816), la sua italianità era molto limitata rispetto alla Penisola, ed egli non pensò mai che la Repubblica italiana dovesse allargarsi a tutta la Penisola, come invece altri all’epoca ritenevano, ma anche in questo non è che poi differisse molto da un Carlo Alberto di Savoia (1798-1849), che pensava nel 1848 a un regno dell’alta Italia, e anche sotto questo profilo, sotto il profilo delle scelte strategiche e delle prospettive di definizione dello Stato italiano, gli anni napoleonici ebbero un peso determinante lungo il corso del Risorgimento.

Ronco

Il professor Rumi ha impostato una riflessione di carattere identitario e ha individuato nel Regno italico un momento di inizio di una certa consapevolezza, di una certa identità. E il professor Rumi ha detto una cosa che mi ha colpito: prima ero molto contrario, molto sfavorevole all’esperienza napoleonica, oggi invece ho mutato il mio orientamento.

Io penso invece di essere ancora molto legato all’orientamento antico del professor Rumi, pur non conoscendolo esattamente, ma mi permetto di contraddirlo, lui con la sua autorità, io con la mia competenza di giurista, sia pure interessato di aspetti storici e filosofici della storia giuridica italiana. Ecco, io sono profondamente contrario alla tesi del professor Rumi. Ho una opinione radicalmente contraria, radicalmente sfavorevole al periodo napoleonico e anche al Regno d’Italia, come apice di un certo momento storico.

In questa sede stiamo elaborando valutazioni globali della storia italiana nell’area europea e dobbiamo considerare soprattutto la contrapposizione che ha caratterizzato nella storia europea, a partire certamente dal Cinquecento in avanti, cioè nella modernità, l’Impero, da un canto, e la Francia dall’altro: Francia che si allea — si è sempre alleata — con l’islam, con la Turchia ottomana, con i regni islamici e, invece, Impero, che cerca di resistere contro l’oppressione islamica e contro la pressione protestante.

E l’Italia, o, meglio, gli italiani, ha combattuto con l’Impero. I tercios spagnoli e i reggimenti assurgici, che costituiscono il nerbo delle truppe dell’Impero, sono pieni di napoletani, sono pieni di lombardi, sono pieni di emiliani e di romagnoli. A Lepanto, nel 1571, le truppe imbarcate sulle navi spagnole erano per quasi il 60% truppe napoletane: e c’erano le navi dei Savoia, le navi del Papa, le navi di Venezia. Se le navi di Spagna avevano almeno il 60% di uomini di Napoli e lombardi, quindi tutta la mitologia dell’"italiano che non combatte" è vera — in questo ha ragione il professor Rumi certamente — per quanto riguarda la storia italiana del 1700 solo in riferimento alla potenza militare dei singoli Stati, ma non è vera con riferimento agli italiani. I grandi comandanti dell’Impero, da Raimondo Montecuccoli (1609-1680) a Eugenio di Savoia (1663-1736), sono comandanti italiani, e l’epopea di Eugenio di Savoia, al comando di reggimenti asburgici pieni zeppi di napoletani e di lombardi, a partire dal 1683 — anch’egli era presente sotto le mura di Vienna — è poi continuata fino alla riconquista di Belgrado, alla riconquista di tutta l’Ungheria nella controffensiva contro gli islamici, che erano arrivati sotto Vienna e nel cuore dell’Europa.

La decadenza dei regni italiani e dei ducati italiani è invece legata alla decadenza dell’Impero nel corso del secolo XVIII, che segna anche la grande decadenza dell’Italia dal punto di vista strettamente politico. Però non possiamo dimenticare, in questo contesto, la grandezza italiana, che è una grandezza legata non tanto al concetto di nazione, quanto all’idea di impero, e quindi all’universalità. I regni italiani sono grandi e importanti, e gli italiani combattono per un’idea universale, e non per un’idea nazionale. E questa è la grandezza italiana. Non dimentichiamo quello che ha fatto Venezia per il contenimento dell’espansione islamico-ottomana: a Famagosta, nell’isola di Creta, nel Peloponneso, a Corfù Venezia dà fino all’ultimo uomo.

Se mai il problema è perché è caduto l’Impero in Oriente, quali sono le colpe della cristianità occidentale nella sua caduta: è un problema enorme, che coinvolge anche, per così dire, i "guelfi" e, per così dire, anche le autorità clericali e quindi la Chiesa, non come "ecclesìa", ma come potere politico.

In che misura si è combattuto e non si è difeso adeguatamente l’Impero d’Oriente? La linea fondante della sua perdita è la linea, straordinariamente pesante, costituita dalla continua lotta della Francia contro l’Impero, e spesso contro la cristianità, di una sua alleanza permanente con l’islam, alleanza che schiaccia o tenta di schiacciare l’Impero, favorendo l’espansione islamica.

Nell’epoca napoleonica abbiamo in qualche misura il risorgere di un’idea italiana, che potrà aver dato dei frutti positivi sotto il profilo della formazione amministrativa, però non dobbiamo dimenticare il profilo ideologico che era soggiacente a questi problemi. La relazione del professor Mola ci ha mostrato anche qual era l’infiltrazione massonica nello Stato napoleonico e in particolare quella di una massoneria di tipo militante come la massoneria francese, che aveva una posizione fortemente anti-clericale, e questo è uno degli fattori che condizionano poi in modo grave tutto il periodo risorgimentale. Il prevalere — ripeto — della massoneria francese all’interno stesso del mondo massonico, delle influenze massoniche, favorisce una linea strettamente e rigorosamente anti-clericale di contro a una possibile linea di tolleranza e di eventuale collaborazione sui principi di carattere spirituale, che avrebbe potuto ispirarsi alla massoneria inglese e comunque alle logge più tradizionali.

Anche da questo punto di vista non dobbiamo dimenticare quale fosse l’input che proveniva a Napoleone da parte della massoneria francese. In definitiva le linee del nuovo governo, del nuovo Regno Italico, erano linee dirette ed etero-dirette dalla Francia, in particolare dalla massoneria francese. Bellissimo il cenno, che fa il documento, che il relatore Aldo Mola ha citato e che parla di un Grande Oriente "en Italie", non di un Grande Oriente "d’Italie", e questo spiega molto di tutto quello che accadrà nel Risorgimento.

Per concludere, il mio è un giudizio drasticamente negativo sia per le ragioni che ho cercato di esprimere nella mia relazione generale [del 18-11, NdR]. Lo è sotto il profilo soprattutto giuridico perché con il Regno d’Italia si trasferisce in Italia l’idea secondo la quale il potere domina il diritto e quindi il diritto viene cancellato, viene eliminato: il diritto si forma da parte dello Stato, da parte del potere e tutta la ricchezza giuridica italiana, che era straordinaria, viene meno. Anche nel diritto penale, ovvero in un settore particolare, in cui noi italiani avevamo la primogenitura, non soltanto grazie a Cesare Beccaria (1738-1794), ma grazie alla storia giuridica italiana e alla giurisprudenza italiana a partire almeno dal tardo Rinascimento. Allora si forma la consapevolezza della responsabilità individuale e personale e ciò avviene proprio presso i giureconsulti italiani: non dimentichiamo Tiberio Deciani (1509-1582), i cui manuali vanno per tutto l’Impero per due secoli come manuali fondamentali, che commentano in senso umanitario la stessa Carolina e la stessa legislazione del diritto comune. Né dimentichiamo l’originalità del nostro Francesco Carrara (1805-1888), lucchese, che mantiene una sua novità profondamente italiana di contro al giusnaturalismo utopistico francese e di contro alle impostazioni statalistiche che poi prevarranno in Germania con Karl Binding (1841-1920).

Questa nostra originalità dovrebbe essere difesa anche sotto il profilo politico. Quando l’Italia, nel 1796, crolla sotto la spinta delle armate di Napoleone, anche la casa Savoia crolla. Questo è importante: il sovrano di Savoia è sempre stato a metà strada fra l’Impero e la Francia. Anche se, in definitiva i Savoia pencolavano verso l’Impero, erano però poi costretti dalla Francia a scendere a compromessi e a composizioni. La lunga Guerra delle Alpi del 1792-1796 è una guerra che il Piemonte, o, meglio, la dinastia di Savoia, conduce da sola, perché l’Impero non la sostiene abbastanza. Bellissimo quel volume, anzi meraviglioso, che il marchese Joseph-Henri Costa de Beauregard (1752-1824) dedica al "vecchio Piemonte nella bufera" [5]: si resiste per quattro anni sulle Alpi sperando che l’Impero dia un sostegno, un aiuto, e l’Impero non dà aiuto, l’Impero non sostiene. Perché l’Impero, decaduto, non ha più la forza per sostenere, e il vecchio Reggimento di Susa (Torino) si forma tutto, dal primo all’ultimo uomo nel 1794, il 6 gennaio, giorno dell’Epifania, si ricostituisce integralmente, continua a combattere anche quando la Rivoluzione trionfa dappertutto, ed è questo un segno profondo di una grande forza, che avrebbe dovuto essere autonomamente prospettata in un risorgimento nazionale, il quale avrebbe dovuto avere caratteristiche non "francesi", ma italiane. Il che non è stato: le ragioni sono infinite, però la valorizzazione dell’epoca napoleonica mi sembra profondante incoerente rispetto al suo significato anti-religioso, anti-cristiano, che hanno ben dimostrato di comprendere le popolazioni italiane che si sono opposte, che hanno resistito per molti anni, fino al 1815, fino ad avere la dimostrazione del completo tradimento da parte dei loro governi e anche, per una certa verità, da parte del loro clero.

Invernizzi

Domanda
Noi siamo uno strano popolo, un popolo che — come avvenne a Milano nel 1996, proprio in contemporanea con il nostro primo convegno nazionale sul tema delle insorgenze — celebra i suoi invasori, i suoi spoliatori. Abbiamo sentito raccontare quanto ci ha portato via Napoleone, ma non soltanto in oggetti d’arte, ma in vite umane, cioè quante decine di migliaia di italiani sono andati a combattere per le battaglie di Napoleone, che non avevano — se vogliamo uscire dalla polemica ideologica — nulla di interessante per l’Italia: sul fronte russo, piuttosto che in Egitto, o altrove. Quindi domando: mentre altri popoli — penso per esempio al popolo spagnolo — celebrano come cosa ovvia la resistenza contro Napoleone, noi che celebriamo l’insorgenza contro Napoleone perché dobbiamo fare tanta fatica per riparlare serenamente di insorgenze? La nostra identità di italiani dove la cerchiamo? in un côrso che ci ha dominato, ci ha spogliato, ci ha derubato? o in quei giovani e meno giovani che hanno dato la vita, anche se non avevano la cultura, l’intelligenza, per apprezzare le cose raffinate che la Francia ci ha portato?

Ronco

L’identità italiana è una identità universale e l’Italia è troppo diversificata al suo interno: le cento le mille città dimostrano che l’identità italiana è sì un’identità particolare, ma per l’universale. D’altra parte, anche oggi, nel nostro tempo così difficile, in Italia lo spirito, per così dire, universale, lo spirito di adesione al cattolicesimo come religione universale è di nuovo vivo. Ecco, a[lla Giornata Mondiale della Gioventù di] Colonia [nel 2005] ho visto molti ragazzi — mio figlio, amici di mio figlio, e tanti altri —: erano varie centinaia di migliaia di persone, ma gli italiani erano quasi la metà, perché da noi maggiore è l’adesione all’universale. Allora credo che noi non dobbiamo pensare tanto al profilo nazionale, perché per noi non è prioritario. In fin dei conti nell’Ottocento l’italiano era una lingua parlata da pochi: a Milano si parlava il milanese, in Torino non si parlava l’italiano, ma si parlava il francese anche se esisteva un dialetto, bellissimo, un finissimo torinese, che per la verità alla Corte si parlava. Allora in Italia non si parlava l’italiano perché l’italiano era una lingua colta, scritta, non parlata da tutti, in cui l’Italia non si riconosceva. Però esisteva una identità universale, che veniva da tutti riconosciuta e accettata e il compito degli italiani è stato quello di difendere questa idea dell’universale, ossia di uno spirito non nazionalistico. C’era bisogno certamente di una Italia, di una Italia potenza fra le potenze. Il professor Rumi ha detto una cosa profondamente vera, che condivido. È chiaro che senza le armi, quindi senza una disponibilità al sacrificio e a dotarsi strumento di carattere militare uno Stato non poteva non essere un "vaso di coccio" distrutto fra i "vasi di ferro": quella dell’unità era una esigenza fondamentale. E il tempo era ormai maturo perché anche l’Italia trovasse una federazione fra le varie potenze al suo interno. Fra le varie forze, fra i vari regni, fra i vari ducati, fra le varie realtà di carattere politico, era certamente un’esigenza fondamentalmente giusta quella di una unione. Tuttavia la modalità con cui è stata realizzata, proprio con all’origine quel Regno italico, non mi sembra che abbia favorito una identità italiana corrispondente alla vocazione italiana. Ribadisco quindi quello che dicevo prima, in una prospettiva sia pure meno estrema, meno critica, in una versione, anzi, propositiva: siamo in grado di ritrovare una nostra identità italiana in vista di un universale, della tutela e della diffusione e della promozione dell’universale? Questa è una domanda che dovremmo risolvere con il nostro impegno e il nostro sacrificio nei prossimi decenni e dei prossimi secoli.

De Francesco

Io — oltre ad esprimere plauso nei confronti del grande interesse che i presenti a questa tavola rivelano nei confronti dell’età moderna in quanto tale, perché siamo partiti da Napoleone e siamo risaliti alle origini dell’età moderna, cosa che, in quanto modernista, non posso che apprezzare — al tempo stesso confesso anche una qualche perplessità a fronte di taluni discorsi che sono stati qui avanzati, perché credo che talvolta ci debba esser il bisogno di qualche precisazione, che si debba in qualche modo ricordare determinati aspetti, che non possono essere raffrontati.

Il primo è questo raffronto che viene spesso fatto con le insorgenze nella Penisola e le insorgenze per eccellenza, che sono quelle della resistenza della popolazione di Spagna nei confronti dell’esercito napoleonico. Le similitudini sono veramente molto molto significative, ma gli esiti sono molto differenti, nel senso che la resistenza del popolo di Spagna all’invasore francese declina poi in una soluzione costituzionale, la costituzione di Cadice del 1812, che apre poi una stagione di liberalismo e una declinazione affatto particolare di liberalismo, tanto che il modello della costituzione di Cadice sarà non a caso ripreso nel Meridione d’Italia in occasione della Rivoluzione costituzionale del 1820-1821 e che sembra essere una soluzione che possa garantire una sorta di equilibrio tra le ragioni della Chiesa cattolica e le ragioni della modernità politica.

Se noi guardiamo le insorgenze nella penisola, prendiamo quelle del triennio come prendiamo quelle degli anni successivi, non troviamo tutto questo. Cioè l’insorgenza per eccellenza, che conosco bene, cioè il sanfedismo del 1799 nel Mezzogiorno peninsulare, si conclude con un nulla di fatto, con un ritorno su posizioni ancor più retrive della monarchia dei Borbone, ancor più retrive perché nel 1799 consentono di far piazza pulita di quello che era il coté riformatore in seno alla Corte borbonica. Quindi non si possono introdurre a mio avviso questi raffronti, perché da una parte un moto che nasce come resistenza di popolo nei confronti dell’invasione, nei confronti anche di tutto quanto l’invasione francese comportava, trova la forza per declinarsi in termini politici originali e significativi e duraturi, e dall’altra parte tutto questo non ha luogo. Quindi, di volta in volta, bisogna verificare anche che cosa queste insorgenze possano rappresentare in prospettiva. Lo stesso discorso io non colgo quando si parla di questa vocazione italiana all’universalità, perché qui stiamo parlando di una identità italiana che, volenti o nolenti, si rifà al modello della Rivoluzione francese e che sia accettato più o meno consapevolmente, questo è un altro discorso. Ma se non si pone al centro dei problemi il fatto che l’identità italiana, così come si è venuta sviluppando a far data da questi anni e lungo tutto l’Ottocento, è un’identità fondata sui valori del liberalismo, che sono insiti nel processo di rivoluzionamento del 1789, allora è chiaro che stiamo parlando di cose differenti.

Un ultimo dettaglio, che però non è un dettaglio: questi napoletani, questi lombardi che hanno combattuto a lungo per tutta l’età moderna, lo hanno fatto in un quadro di riferimento che era quello della monarchia di Spagna, nel senso che erano dei soldati di Stati che si riconoscevano sotto un unico sovrano e quindi partecipavano alle vicende politiche e belliche condotte dalla Corona di Spagna. Altrimenti rischiamo a mio avviso nuovamente di diluire un poco quello che è un fatto invece caratteristico della vicenda italiana in età moderna.

Ghiringhelli

Questo dibattito conferma la complessità e la diversità di approccio al tema e alla questione "Napoleone". Io non faccio l’infermiere della storia e non ho medicinali che curano le ferite o portano a vedere nella storia ciò che invece rimane nel sogno. Mi attengo agli avvenimenti e a ciò che ha rappresentato Napoleone. Chiaramente Napoleone è stato una cesura fra universalità e singolarità e come tutte le cesure ci sono dei vincitori e degli sconfitti: ha vinto la particolarità in politica, che ha preso il nome di nazione dalla Rivoluzione francese e da Napoleone, con il Regno d’Italia il nome di Stato nazionale italiano, sia pure che non occupasse tutta quella che era invece la realtà geografica italiana. Ha lasciato però aperto un problema, che le insorgenze hanno documentato come fatto incontrovertibile e che era il problema di quella cultura e di quella tradizione dell’universalità alla quale era venuto meno, da un lato — e qui è la storia che lo dice, non è la simpatia che me lo fa nascondere o meno —, una casa dinastica che rappresentasse, sostenesse, noi diremmo concretizzasse in fatti questo spirito di universalità, e, dall’altro, la crisi dal punto di vista temporale delle diocesi italiane in relazione alle novità che il finire del 1700, da un lato, e l’arrivo di Napoleone, dall’altro, portarono. Vi furono delle risposte differenti, delle risposte che, da un lato, portarono all’adesione al catechismo nazionale, mentre, dall’altro, come abbiamo visto nella diocesi di Milano, ad avere quattro tipi di catechismi, dall’altro ancora, delle risposte, magari primordiali, attraverso i vari momenti delle insorgenze che richiedevano o cercavano di capire o magari di difendere una concezione nebulosa che la realtà dei fatti aveva dimostrato superata.

Dietro a questo che cosa c’è? C’è che purtroppo questo modello nazionale, piaccia o no, che con Napoleone era entrato nella quotidianità, si trova davanti a una serie di risposte che porteranno poi a uno stato nazionale, che si "impone" su quelle che, dotate tuttavia di una loro radice, una loro storia, un insieme di interpretazioni nella realtà stessa del paese. Il discorso di fondo, il pericolo qual è? Se prima si esaltava Napoleone come il re dello Stato nazionale, non vorrei che oggi, nel cercare di difendere la diversità di quelle che oggi la storia ha fatto diventare minoranze, ci si dimenticasse l’originalità, la novità di quel periodo, la risposta concreta che è venuta dai fatti di Francia prima e dalle varie campagne d’Italia poi e che ha significato, qualificato la storia nazionale. L’importante è ricordarsi e sostenere che in questo quadro vi furono diverse posizioni. Il movimento delle insorgenze — essendo uno storico uso il plurale, perché in Italia le insorgenze furono diverse, con diverse motivazioni, non interessa adesso quali, molte ebbero il suffragio, l’aiuto, la direzione di carattere etico-religioso, altre erano di carattere economico, altre erano di carattere cetuale-aristocratico, altre erano di carattere, noi potremmo dire di spontaneità —, denotava nel suo complesso un fastidio, un rifiuto della modernità. Molto bella frase di Monaldo Leopardi (1776-1847) che dice: ai francesi preferisco le pulci della mia casa in campagna, e denota tutto uno stato d’animo che non apparteneva soltanto agli umili e all’aristocrazia delle grandi città, ma anche a una certa media-aristocrazia di paese. È un periodo che cambia totalmente il modo concreto di far storia nella quotidianità e pone chi è religioso di fronte a nuovi problemi, con delle risposte che ufficialmente spesso non ci sono e che però danno dei risultati sul campo di diverso tipo. Questo è quello che dice la storia.

In secondo luogo nasce un nuovo tipo di religione, una religione, atipica, nuova, è una religione della concretezza, della quotidianità, che prende il nome di Stato nazionale. Poco importa che sia lo Stato nazionale dei Savoia o lo stato confederale, che poi anche molti e sottili pensatori cattolici da Vincenzo Gioberti (1801-1852), a Cesare Balbo (1789-1853), ad Antonio Rosmini (1707-1855), teorizzeranno oppure sia una federazione di Stati come in altri settori Carlo Cattaneo (1801-1869), e altri, porteranno avanti. O che Giuseppe Mazzini (1805-1872), nel suo versante, porterà avanti intorno al concetto di unificazione. Napoleone fa esplodere le contraddizioni che ci sono all’interno di una realtà composita e indubbiamente poco chiara come è la realtà italiana di fine 1700 dal punto di vista politico, culturale e, occorre avere il coraggio di dirlo, anche religioso, per debolezze, per non conoscenze approfondite dell’impatto di queste nuove idee che arrivano e per un concetto di universalità e un concetto di particolarità che purtroppo vengono lasciate soltanto ai pochi mentre la storia cominciano a farla i tanti.

Rumi

Io apprezzo molto le cose che ha detto il mio cortese interlocutore e qui non sono lontanissimo, cioè capisco, sento i suoi argomenti, soprattutto uno, direi, su cui di solito gli storici, salvo il compianto Cesare Mozzarelli (1947-2004) stanno prudenti e cioè il concetto di impero. Mozzarelli stava avvicinandosi a studiare questa dimensione. Noi non sappiamo che cosa sia l’Impero: sì, lo sappiamo dalla lettera delle leggi, ma quale fosse la consistenza del Sacro Romano Impero della nazione germanica, chissà... Certamente nel Sei-Settecento scompare, è un vuoto, e anche prima ha qualche problema. Pensate che in Italia alcuni facevano parte del Sacro Romano Impero, altri no. Non Venezia, per esempio. Il Sud ne faceva parte, in quanto una delle corone del sovrano di Madrid e finché le cose andarono in un certo modo, non in quanto tale anche giuridicamente. Qual era la consistenza di un tale legame? Da qui nasce un grosso problema nostro, che è quello della identità nazionale. Io sono meno ottimista su questa vocazione universalistica della coscienza politica italiana, perché spesso è un grosso alibi per appartenenze fumose e così via. I piemontesi, che han fatto tutte le guerre che dovevano fare, dal 1500 le hanno prese, ma le hanno anche date, all’Assietta, nel 1747, per esempio. Ci sono proprio delle battaglie dove questi poveri soldati le hanno date ai francesi: la battaglia di Torino del 1706 e così via…: tutti soldati di leva. È noto che lo scherzetto di Camillo di Cavour (1810-1861), cui abusivamente gli uomini politici italiani ogni tanto si attaccano, la guerra di Crimea del 1856... Vi immaginate mandare 150.000 uomini, fatte le proporzioni, di leva? Dove? A Timor? Non esiste un paese più lontano… Ma perché un buon soldato di Caraglio (Cuneo) doveva andare in Crimea? Non aveva mai visto e sentito parlare un russo, salvo forse e infelicemente due generazioni prima, nel 1799… Ma perché questo senso dell’obbedienza al sovrano credo andasse oltre a ogni concetto universalistico. Certo c’è il "problema Gioberti". Io ho letto tutto Gioberti devo dire che questi mi pone dei problemi, cioè: chi siamo noi? Non mi basta l’unità geografica, non mi basta quella gastronomica, non mi basta quella linguistica, con tutte le eccezioni sulla lingua popolare. Non mi dà una risposta. Secondo me, alcuni elementi di Gioberti possono e debbono essere ritirati fuori perché fanno parte, come le insorgenze, della nostra storia. Io non amo quelli che nell’albero genealogico nascondono un ramo. Credo che questo fondo giobertiano, questa "cristianità", che non è necessariamente di popolo, faccia parte a pieno titolo del "chi siamo noi" e, quindi, fate bene a dirlo, anche nei suoi aspetti meno popolari in una certa aristocrazia intellettuale di Torino: non ci sono solo le insorgenze, ma anch’esse fanno parte della edificazione nazionale. Lo dico con franchezza ai miei amici che studiano le insorgenze: non c’era solo l’"anti-Risorgimento" come strada percorribile. Secondo me allora la Curia romana, e soprattutto il cardinale Giacomo Antonelli (1808-1876) sbagliarono, perché Antonelli non è Mariano Rampolla del Tindaro (1843-1913), non è Pietro Gasparri (1852-1934), non è Carlo Borromeo (1538-1584), non è uno dei grandi segretari di Stato della Chiesa, e sbagliò clamorosamente, non teologicamente — Dio mi salvi — a prendere le distanze da Rosmini quando questi diceva: "ma questi non capiscono un accidente: è la Chiesa, come in Irlanda, come in Spagna, che si deve mettere alla guida del movimento nazionale, andando all’essenziale" e del movimento nazionale tedesco sosteneva: "bisogna che sia l’Austria a guidare il Risorgimento". Non disse la parola "Risorgimento", ma "unificazione tedesca". Se lo avesse ascoltato, la Germania avrebbe avuto come capitale Vienna, non Berlino, e saremmo noi, sarebbe stata la Chiesa di Roma, a essere la madre dei popoli — e fu anche colpa di Mazzini, per tanti motivi, per tanti errori, altro che Sacro Romano Impero —, perché sono stati gli Asburgo a mollare, nella sostanza prima che nella forma, perché il Sacro Romano Impero, l’idea di Sacro Romano Impero, fu sconfitta, fu accantonata, dagli Asburgo stessi, che vi rinunciarono. Clemens von Metternich (1773-1859) non era del Sacro Romano Impero, non era austriaco, era tedesco, nella tradizione di prendere chi collabora. E allora Montecuccoli ed Eugenio di Savoia, sono sì italiani di Dna, ma non è mai stato soldato italiano Eugenio di Savoia: ha tentato di essere francese poi è stato asburgico, ma non è mai andato in Savoia, anzi col duca di Savoia ebbe parecchi problemi.

Allora io dico: perché non pensare, accanto a una impossibile vittoria politico-morale delle insorgenze — che debbano essere nel mio albero genealogico lo accetto, perché ci sono. Ma esisteva un’ipotesi alta: quella di Gioberti, quella di Rosmini… In questo il mio Alessandro Manzoni (1785-1873) mi tradisce perché lui era per la soluzione piemontese, quindi: una dinastia, un esercito, che "per fortuna abbiamo nel marciume generale: giochiamo quello e buonanotte". Al contrario di Rosmini — che io guardavo e guardo con molto sospetto per altri motivi, checché ne dica adesso La Civiltà Cattolica —, che ha questa idea di un Risorgimento tedesco e cattolico. Molte volte la Chiesa si è rifiutata di sostenere i movimenti nazionali. Perché la Chiesa doveva essere il gendarme dei trattati del 1815, dove sta scritto? trattati, per altro, poi mollati da tutti? Solo il cardinale Antonelli, solo la Curia di quel momento a un costo anche di cuori e di anime immenso, poteva pensarlo. Quindi io sostengo che l’anti-Risorgimento non era la sola qualifica possibile: poteva essere, se intelligentemente guidato, in Italia e in Germania una terza soluzione, che non nacque — ma noi siamo di fronte a varie nascite mai avvenute —, che però poteva essere almeno ragionata, perché non abbiamo idea di che cosa voleva dire una Germania con capitale Vienna… Tuttavia, ma anche in quel caso l’Austria si mise a dire "no, no, no", e il risultato, lo sappiamo tutti, è quello che è stato.



Note:

[1] Cfr. Rosario Romeo, Vita di Cavour, Laterza, Roma-Bari 2004.
[2] Ovvero passibile di taglia e di corvée; asservibile a piacere.
[3] Cfr. Franco Arese, Le supreme cariche del Ducato di Milano e della Lombardia austriaca. 1706-1796, in Archivio Storico Lombardo, anno CV-CVI, 1979-1980, serie X, vol. 5, dicembre 1980, p. 535 e ss..
[4] Cfr. Riccardo Bacchelli (1891-1985), Il mulino del Po. Romanzo storico, 3a ed., con una Introduzione di Indro Montanelli (1909-2001), 3 voll. [vol. I: Dio ti salvi; vol. II: La miseria viene in barca; vol. III: Mondo vecchio sempre nuovo], Mondadori, Milano 1993.
[5] Cfr. Henri Costa de Beauregard, Vecchio Piemonte nella bufera, con una prefazione di Umberto Marcelli, trad. it., 2a ed., Fògola, Torino 1985.



Identitŕ
nazionale



Alfredo Mantovano
Lettera al «Corriere della sera»:
Nazione spontanea, già prima del 1861


Marco Invernizzi
Il Popolo della Libertŕ: un nuovo partito al di fuori e contro le ideologie

Oscar Sanguinetti
Identità, non memoria, condivisa?

Stanley J. Parry C.S.C.
Le premesse della teoria politica di Orestes A. Brownson

Ronco, Rumi, Ghiringhelli, Invernizzi, De Francesco
Tavola rotonda Regno d'Italia e identitŕ nazionale
(Milano, 19 novembre 2005)


Cesare Mozzarelli
Identitŕ religiosa e identitŕ nazionale: un rapporto ancora da costruire?

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Verso un'identitŕ nazionale compiuta

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L'identitŕ italiana e i suoi percorsi

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L’esigenza della restaurazione di una memoria pubblica comune come condizione per il rilancio dell’identitàitaliana. Una riflessione

IL LIBRO DEL MOMENTO

Gonzague de Reynold,
La casa Europa. Costruzione, unitŕ, dramma e necessitŕ.

Introduzione di
Giovanni Cantoni

D’Ettoris Editori, Crotone 2015,
282 pp., € 22,90.



Oscar Sanguinetti,
Metodo e storia. Princěpi, criteri e suggerimenti di metodologia per la ricerca storica

Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma 2016
320 pp., € 22,00.



Oscar Sanguinetti,
Pio X. Un pontefice santo alle soglie del «secolo breve»,

con una prefazione di Roberto Spataro S.D.B.,
Sugarco Edizioni, Milano 2014,
336 pp., € 24,80



Oscar Sanguinetti,
Alle origini del conservatorismo americano. Orestes Augustus Brownson: la vita, le idee,

con una prefazione di Antonio Donno,
in appendice: Orestes Augustus Brownson, De Maistre sulle costituzioni politiche Biblioteca del pensiero conservatore,
D'Ettoris Editori, Crotone 2013,
282 pp., € 17,90



Marco Tangheroni,
Della storia.
In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila

Sugarco Edizioni, Milano 2008,
144 pp., € 15,00


Giovanni Cantoni,
Per una civiltŕ cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo

Sugarco Edizioni, Milano 2008,
264 pp., € 18,50


Oscar Sanguinetti,
Cattolici e Risorgimento. Appunti per una biografia di don Giacomo Margotti
con una prefazione di Marco Invernizzi

D'Ettoris Editori, Crotone 2012,
160 pp., € 15,90


Christopher Dawson,
La crisi dell'istruzione occidentale
trad. e cura di Paolo Mazzeranghi

D'Ettoris Editori, Crotone 2012,
218 pp., € 19,90


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