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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale




Stanley J. Parry C.S.C. (*)


Le premesse della teoria politica
di Orestes A. Brownson



La Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776

1. Premessa

Il tentativo del teorico d’interpretare le relazioni fra gli uomini nella società inevitabilmente germoglia, riflettendola, dalla sua più profonda concezione della relazione dell’uomo con l’universo e con Dio. Il senso e il significato ultimo di una teoria politica possono quindi essere acclarati soltanto individuando in modo preciso in che modo la visione del mondo propria del teorico si imprima nella sua concezione dello Stato. Nel caso di Orestes A. Brownson (1) ciò è particolarmente vero. Nel corso del suo spostamento dalle posizioni del trascendentalismo (2) a quelle cattoliche egli ha elaborato una metafisica genuinamente sua, che riassume la sua storia intellettuale, il suo pensiero fondamentale e che precede persino la sua teologia, dal momento che essa è il motivo della sua accettazione della Chiesa cattolica.

La mia tesi in relazione al pensiero politico di Brownson è, per prima cosa, che questa stessa metafisica rappresenta la premessa della sua teoria politica e, in secondo luogo, che la soluzione da lui proposta al problema in ultima analisi sollevato da tale teoria sia teologico, in quanto in definitiva la base metafisica di essa trova completamento nella teologia. Il mio scopo è d’indicare come queste metafisica e teologia determinino le concezioni basilari del suo pensiero nella sfera eminentemente politica.

2. Gli studi

Il lavoro preliminare in questa prospettiva è già stato svolto. A.[loysius = Louis] R. Caponigri, nel suo articolo Brownson and Emerson. Nature and History ha adeguatamente inquadrato la metafisica di Brownson (3). I suoi caratteri principali sono l’idea che Dio solo può creare e che, di conseguenza, tutto ciò che esiste in natura dev’essere il prodotto di una causa divina. La natura è però creata in uno stato di potenza e deve quindi attivare le sue potenzialità nel corso della storia. L’evoluzione storica è di fatto la continuazione dell’atto creatore, sì che la storia è semplicemente il dispiegamento della natura sotto la guida della causa rappresentata dalla divina Provvidenza. Nel corso dello sviluppo storico gli uomini, uniti dal possesso della medesima natura, agiscono come causa secondaria, la cui influenza si riduce tuttavia alla modificazione di quanto esiste e il cui problema teologico di fondo è la scoperta e la realizzazione delle finalità di Dio così come si possono scoprire nella natura e nella storia. Della teoria politica di Brownson, Roemer (4) e prima ancora Cook e Leavelle (5) hanno tracciato un profilo, che attendibilmente ritrova il nucleo centrale di essa nella teoria organicistica sull’origine della società, nella teoria del consenso come origine del governo e nella teoria della legge naturale quale norma della legge giusta. Indicando quali sono le relazioni fra queste aree di pensiero spero di rendere indirettamente meglio evidente l’analisi di Caponigri, mentre, più direttamente, spero di approfondire l’interpretazione che è stata finora proposta dai commentatori del pensiero politico di Brownson.

3. La teoria

3.1 La costituzione

Il punto centrale dove la visione del mondo di Brownson e la sua teoria politica s’integrano si rinviene nella concezione della costituzione profonda od organica dello Stato. Due sono gli elementi rilevanti ai fini della mia argomentazione, cioè che 1) la società e l’autorità sono dati di natura, e 2) che lo Stato è il prodotto di una evoluzione, nel senso aristotelico di «sviluppo» (6). Per Brownson le origini della società civile si spiegano solo in termini di creazione divina e di Provvidenza.

«Essa [la struttura organica della società] non è mai frutto di una deliberazione, ma è sempre opera della divina Provvidenza, la quale adopera gli uomini e le circostanze come propri strumenti. È sempre, mediatamente o immediatamente, […] imposta da Dio stesso, è espressione della volontà divina e, pertanto, legittima, sacra e commisurata alla nazione. […] Il principio generatore di tutte le costituzioni politiche in quanto tali è la divina Provvidenza, e mai il senno o la volontà intenzionali degli uomini» (7).

Sotto il profilo negativo, egli apre la formulazione della sua teoria con una critica del pensiero liberale democratico. Tanto nella sua formulazione contrattualistica, come in quella semplicemente consensualistica, il difetto che egli rileva nell’atteggiamento liberale e individualistico sta nel radicare la vita sociale e l’esistenza dell’autorità in un atto della volontà umana (8). Dal momento che tale atto in tesi pone in essere l’ordine sociale, esso implica, data la premessa della naturalità di tale ordine, che nell’uomo esista un potere creatore. Un tale assunto contiene in sé stesso la prova del suo errore, poiché «l’uomo non è mai un creatore: egli può soltanto svolgere e continuare, dal momento che egli stesso è una creatura e solo una causa seconda» (9). Ulteriore prova di ciò è comunque che simili teorie si risolvano, per una necessità logica intrinseca, in anarchia o in dispotismo e così si rivelano inadatte a fondare l’ordine politico umano (10). Effetto di questa critica è di rendere fondante il principio secondo il quale la questione delle origini non può essere spiegata in termini di causa umana e d’intenzionalità.

Nello sviluppare in senso positivo la sua teoria, pertanto, Brownson s’imbatte nel problema di spiegare le origini della società prescindendo da una causa di tale tipo. La soluzione che egli ne dà dipende dalla distinzione che introduce tra la finalità intrinseca all’atto umano libero e la ulteriore finalità a cui Dio può dirigere il medesimo atto. Esso dipende, inoltre, dalla premessa che, nel caso dell’essere morale, la causa efficiente può essere fatta coincidere con l’influsso dell’intenzionalità. All’interno dei limiti rappresentati da queste premesse Brownson risolve il suo problema per mezzo delle idee di Provvidenza, di natura e di storia.

La storia evidenzia infatti come lo Stato sia il prodotto dell’evoluzione della famiglia. Il punto critico di questa evoluzione si situa nel passaggio dalla società familiare patriarcale alla forma, essenzialmente diversa, della società politica (11). Così la divina Provvidenza prosegue la creazione originale dell’uomo guidando le azioni umane libere a uno scopo e a un fine non previsti e nemmeno voluti dall’uomo. Attraverso la guerra, la conquista, le migrazioni, le guide e i molteplici atti buoni e cattivi dell’uomo, Dio tesse fra gli uomini vincoli di natura psicologica che in un dato spazio assumono un assetto stabile. La società civile viene così a esistenza come risultato della causa divina (12). Nello sviluppare questo punto l’argomentazione che Brownson costruisce mostra in primo luogo che, se la loro causa materiale sta nelle azioni umane, i vincoli sociali hanno la loro causa efficiente nella divina Provvidenza (13). In secondo luogo, che essa è organizzata in modo tale da ribadire che la causa formale o l’idea in base alla quale la società esiste, preesiste nella mente di Dio (14). Mentre la società germoglia dalle azioni umane, la cui sommatoria va a costituire il contenuto della storia, esse, in relazione all’effettiva produzione delle relazioni sociali fra gli uomini, non operano neppure nella forma secondaria di causa cooperante (15). L’intento o lo scopo che guida lo sviluppo sta esclusivamente in Dio: «il senno o la volontà intenzionale dell’uomo non vi ha parte». Se gli uomini, quando esso esiste, possono riconoscerlo, l’esistenza del legame sociale deriva da Dio solo e non nella sua veste formale di Creatore – la forma della società viene ricavata da materiale pre-esistente –, ma nella sua veste di Governatore provvidenziale – e allora la forma viene introdotta e non ricavata. Qui, per divina Provvidenza bisogna intendere qualcosa che include tanto l’elemento della gubernatio divina quanto quello della creatio continuata. Per cui «la costituzione di uno Stato o il popolo di uno Stato, almeno nella loro origine, sono provvidenziali, dati da Dio stesso e operanti attraverso gli eventi storici o le cause naturali» (16).

Al carattere apertamente organicistico di questa spiegazione delle origini può essere dato un senso preciso esaminando più da vicino le implicazioni della visione di Brownson in relazione alla Provvidenza e alla storia.

Nelle mani di Brownson la teoria organicista viene privata di parecchi dei suoi consueti corollari. Non vi si trova traccia alcuna dell’analogia fra il corpo politico e il corpo umano, né di alcuna sotto-finalità articolata o integrazione funzionale fra l’attività delle parti e quella del tutto (17). Il carattere organicistico della sua teoria deriva interamente dalla spiegazione delle origini in maniera indipendente dal volere della causa umana. In ciò Brownson può essere paragonato a Edmund Burke (18) che aveva proposto una teoria simile in opposizione alla teoria contrattualistica francese più radicale. La somiglianza fra i due è accentuata anche dalla comune conclusione che l’esistenza di ogni Stato è prodotto della sanzione divina e che la storia è svolgimento dei disegni provvidenziali di Dio. Ma, se l’analisi di Burke è mai arrivata a mettere in discussione lo sviluppo dello Stato del suo tempo, Brownson spinge il problema fino a porre la questione delle origini ultime. Così facendo, evita la possibilità – da cui Burke non è sufficientemente esente – di essere interpretato nel quadro di quel tipo di immanentismo che è l’hegelismo (19). Il suo rigetto dell’immanentismo a vantaggio dell’unione trascendentalistica fra il naturale e il divino viene ribadito decisamente nella sua teoria politica applicandovi in maniera rigorosamente logica il concetto di Provvidenza. Il provvidenziale esclude l’influenza fortuita di una causa secondaria creata e, cosa forse ancor più importante, somministra la forma secondo la quale lo sviluppo si attua nell’ordine meta-storico. L’evoluzione di una società non può dunque essere interpretata come il dispiegamento immanente di una forma esistente in natura oppure nel mondo delle idee (20). E l’inserimento della forma della società nel flusso della storia è il risultato della causa efficiente transitoria che agisce sull’ordine storico ma dal di fuori (21).

3.2 Il governo

L’influsso della causa umana e il problema che esso solleva compaiono nella struttura logica della teoria di Brownson solo quando egli si rivolge al problema dell’origine del governo giusto e legittimo. La sua analisi delle origini della vita sociale e dell’autorità si spiega alla luce del principio secondo cui ogni autorità viene da Dio: per questo la sua analisi dell’origine della costituzione politica formale di un Paese riflette la sua interpretazione del principio secondo cui il governo deriva i suoi giusti poteri dal consenso dei governati. Per scendere in dettaglio bisogna osservare la separazione che Brownson istituisce fra il problema di una buona costituzione e il problema di un buon governo. Il primo si occupa della conformità fra la costituzione scritta promulgata dagli uomini e la costituzione organica intima prodotta dalla Provvidenza. Il secondo invece affronta il tema della giustizia e della legittimità degli atti del governo. L’analisi ultima di Brownson dà la medesima soluzione a entrambi i problemi, ma egli percepisce che le difficoltà dell’applicazione dei principi nei due casi sono alquanto diverse e così preferisce trattarli separatamente.

In relazione al tema della buona costituzione, la teoria brownsoniana dell’origine provvidenziale della formazione di un popolo postula che la norma alla luce della quale la costituzione scritta viene giudicata sia la struttura organica della società.

«La costituzione che una nazione redige, dispone e proclama per sé è una legge […] e deve essere l’atto del potere sovrano. Questo potere sovrano, prima che possa agire, deve esistere e non può esistere se istituito in un popolo o in una nazione senza una qualche costituzione o senza qualche forma di organizzazione politica del popolo o della nazione. Ci deve quindi essere per ciascun Stato o nazione una costituzione che precede la costituzione che la nazione si dà e dalla quale quest’ultima deriva tutta la sua forza vitale e legale» (22).

«La costituzione provvidenziale è di fatto quella con la quale la nazione è nata ed è, finché la nazione esiste, la vera ed effettiva costituzione dello Stato. […] La costituzione che una nazione dice di darsi non è mai la costituzione dello Stato, ma è la legge emessa dallo Stato per il governo istituito al di sotto di sé» (23).

Dal momento che quanto alla costituzione organica la condizione effettiva è sempre di provvidenzialità, la riflessione di Brownson sulle costituzioni politiche è concentrata esclusivamente sul problema di come conformarsi alla situazione reale. La buona costituzione politica è infatti quella di cui Aristotele dice che «[…] è la migliore in relazione alla condizione reale [di un popolo, ndr]» (24). Nel ragionamento che sfocia in questa conclusione la premessa minore di Brownson è però assai diversa da quella di Aristotele. Egli adopera sì l’argomento politico di Aristotele, secondo cui una costituzione al di fuori del legame con la propria società non funziona e quindi non è buona per la società medesima (25), ma questo non è il punto di arrivo del suo pensiero. Il motivo vero per cui questo tipo di costituzione è cattivo è che essa è il prodotto di una causa seconda quando essa opera in disarmonia con il prodotto primari della Provvidenza. Essa viola così la legge fondamentale secondo cui l’azione umana deve conformarsi al modello creato e sviluppatosi sotto l’azione divina. Brownson ne è del tutto conscio, ma in realtà insiste su quanto questo implica e cioè che la costituzione organica è la norma divina concreta che deve dar vita alle costituzioni, nello stesso senso in cui la legge naturale è la norma dell’azione morale buona (26).

Così, nella trattazione del problema di quale sia la norma di una costituzione politica buona, la considerazione decisiva è quella che riguarda la natura e i limiti della causa umana. La regola-base prospettata è quella secondo cui la causa seconda deve operare in conformità alle norme determinate dalla Causa Prima (27): ciò significa che la causa umana opera rettamente solo quando porta a termine il disegno di Dio nello spazio della libertà umana.

«Siccome l’uomo deve agire dovunque egli sia e siccome egli non può agire al di là della misura in cui egli è libero, ne consegue che la sua azione deve sempre valere qualcosa in qualunque circostanza pratica in cui si riscontri l’espressione della volontà divina. Dipende in certa misura da me se la volontà di Dio troverà espressione nella mia vita oppure no» (28).

Con particolare riguardo al problema della costituzione ciò vale a dire che Dio trasforma gl’individui in popolo o in società civile ed essi a loro volta completano il piano di Dio dandosi da soli una costituzione politica adatta alla loro vita organicamente associata. In nessun’altra maniera l’uomo può mettere mano alla formazione della società che gli è propria. Così, se la teoria dell’origine provvidenziale della costituzione sociale organica di Brownson si apre con la premessa dell’assoluta inadeguatezza della causa umana a spiegare questa stessa origine, la sua teoria della relazione della costituzione politica con la società esordisce con la premessa che la causa umana che produce il governo ha un carattere secondario, ma necessario.

Il tipo di causa che l’uomo può rappresentare è diverso. Per la causa efficiente Brownson è del tutto chiaro: essa si riduce interamente all’agire umano (29). Riguardo al problema della causa formale che determina il tipo di governo definito dalla costituzione, Brownson opera una distinzione. L’intenzionalità umana è la causa formale prossima della costituzione, ma la forma definitiva secondo cui il governo dovrebbe essere organizzato è implicita nella costituzione organica. Così il problema fondamentale per l’uomo, intenzionalmente, è di scoprire la forma di governo spontaneamente esigita dalla società in cui vive.

«Le nazioni sono solo individui su larga scala. Esse hanno una loro vita, una loro individualità, una loro ragione, una loro coscienza e i loro istinti. […] Per una nazione è altrettanto importante e non meno difficile di quanto sia per l’individuo conoscere sé stessa, comprendere la ragione della sua esistenza, i suoi poteri e le sue capacità, i diritti e i doveri, la costituzione, gli istinti, le tendenze e il destino» (30).

Il che equivale a dire che, dal momento che non crea, la causa umana dev’essere essenzialmente cooperatrice. Come causa efficiente, essa deve ordinarsi e conformarsi a qualche idea-modello che abbia esistenza separata rispetto all’agente. Nel caso specifico della promulgazione di una costituzione, l’uomo deve così riprendere il lavoro concretamente già svolto dalla Provvidenza e condurlo a termine.

«Aggiusta la scarpa al piede. […] La costituzione del governo deve germogliare dalla costituzione dello Stato e in accordo con il genio, il carattere, le abitudini, i costumi, e i voleri del popolo oppure andrà male. […] Le costituzioni immaginate dai filosofi sono fatte per Utopia e non per un qualunque popolo reale, vivente, che respira» (31).

Il principio dell’illimitata volitività umana è in sostanza irreale: il vero principio del governo è il carattere limitato di tutte le azioni che operano come cause seconde. E l’applicazione di tale principio porta a concludere che l’elemento che definisce la meta dell’attività costituente è la forma da dare a una società storicamente concreta, piuttosto che un insieme di valori astratti.

Il significato preciso di un tale modo di accostare il problema si può vedere mettendolo a confronto con autori come Rousseau e Platone. Entrambi concordano con Brownson che fra la costituzione sociale e quella politica vi dev’essere conformità, nel senso che ogni tipo di costituzione politica si appoggia su una base sociale a esso appropriata. In effetti, ciascuna costituzione definisce in maniera alquanto estensiva la costituzione sociale che è il necessario pre-requisito della costituzione politica ideale. Ma entrambe accostano il problema dal punto di vista dell’analisi razionale astratta. La loro premessa di base è che il primo problema del costituzionalista è di definire i valori astratti da promuovere e nella cui prospettiva attuare la dislocazione dell’autorità che serve per realizzarli. Di conseguenza, esse si approssimano al problema adattando il contesto sociale ai bisogni del sistema politico e per tale adattamento essi dipendono dall’azione di un «legislatore», che possegga la scienza della politica e allo stesso tempo l’arte di edificare una società (32). Per Brownson, come detto, il problema è piuttosto quello di riconoscere la forma che esiste nel gruppo sociale e nell’adattare la costituzione a esso.

Ma la differenza-base fra queste due modalità di accostamento non va ritrovata nella semplice differenza fra i punti di partenza. Dietro questa diversità ve n’è una assai più importante, che getta altresì parecchia luce sulla misura in cui la teoria politica di Brownson è implicata nella sua metafisica.

L’assunto latente in Rousseau e in Platone è che, sebbene le società possano emergere storicamente in maniera inconsapevole e indiretta, questo non sia una cosa desiderabile. Il «Legislatore» è semplicemente un uomo che inietta uno scopo razionale nel processo storico. Ammessa questa premessa, diviene impossibile accettare la società esistente come la norma che determina la buona costituzione. In Brownson, invece, il dovrebbe e l’è tendono a identificarsi nella premessa che lo sviluppo della società è sempre un’attività diretta e che questa crescita ha la proprietà di essere diretta solo da Dio. Di conseguenza, la forma di una siffatta società è non solo buona ma, cosa più importante, è la forma che Dio vuole dare a un dato popolo. In questa logica il problema della conformità della costituzione politica a quella sociale si riduce a quello di trovare la dislocazione dell’autorità nella forma migliore dato un concreto complesso di circostanze storiche disposte in una forma intrinsecamente predeterminata da Dio. La questione astratta della forma dello Stato diviene così per Brownson indifferente. Le costituzioni non possono essere confrontate fra loro: possono solo essere comparate con la forma innata delle società in cui si trovano a esistere.

3.3 La legge giusta

Fintantoché il problema in discussione è quello, politico, della miglior forma di governo, l’identificazione fra ordine esistenziale e ordine normativo è operata senza altra qualificazione. Quando, al contrario, la discussione verte sul problema etico della giustizia e della legittimità della legge positiva, Brownson vede che la costituzione organica, ovvero l’ordine storicamente concretizzatosi, non può servire da norma. L’idea di Brownson che in tale contesto domina è che egli attribuisce all’azione diretta della divina Provvidenza solo l’esistenza dello Stato e della sua struttura intima. Per sostenere questa tesi egli deve insistere, come segnalato sopra, sul fatto che Dio ha prodotto la costituzione mediante le azioni moralmente cattive dell’uomo così come attraverso quelle buone. Per questo, ben lungi dall’essere una norma di azione morale, l’ordine sociale deve esso stesso essere valutato in base alle idee astratte evincibili, grazie alla riflessione filosofica, dall’ordine ontologico piuttosto che in relazione allo studio empirico e storico. Cionondimeno, Brownson esita ad abbandonare del tutto l’ordine storico. In ciò si rivela profondamente influenzato dalla lotta contro l’accostamento del tutto soggettivo alla verità proposto dalla teoria dei trascendentalisti. Come Brownson vede chiaramente, il rifiuto della storia proprio di quest’ultima e la sua confusione fra la preferenza soggettiva e la verità oggettiva implica il rigetto dell’ordine ontologico obiettivo, precisamente perché ricerca le norme in una coscienza che pone sé stessa non come un riflesso dell’ordine reale, ma come una proiezione di sé su quell’ordine per misurarlo (33). Per sfuggire a tale soggettivismo Brownson si aggrappa all’ordine reale contingente, il quale con tutta evidenza esiste al di fuori della mente. Riconoscendo come ineluttabile il bisogno di norme astratte di valore, egli tende così a identificare la storia come l’ordine entro il quale le conquiste sostanziali fatte da un popolo si esprimono e sono difese. E riguardo alla norma della legge positiva giusta egli propende per la tesi, di sapore conservatore, implicita nel generalmente elevato apprezzamento che egli ha per il prodotto della storia, secondo cui la norma ordinaria della legge giusta sono sempre i valori insiti nell’ordine esistente. Su questo tema i commentatori hanno notato una similitudine fra la visione di Brownson e la teoria di Montesquieu dello spirito delle leggi (34). In definitiva la sua teoria, come in Burke, è il «miglioramento conservativo»: la legislazione dei rapporti sociali dovrebbe infatti sempre conformarsi al bene e quando una riforma si rendesse necessaria, il male dovrebbe essere rimosso in modo tale da rafforzare il bene esistente (35).

Con questo accorgimento Brownson cerca spazio per la valutazione astratta del contenuto di una società reale senza tuttavia proporsi di abbandonare il concetto secondo cui l’ordine è il punto focale del giudizio di valore. Il principio su cui si basa in questa ricerca è quello dei limiti che realtà impone alle opzioni umane. Come ho segnalato, Brownson attacca i riformisti dottrinari proprio perché costoro, nel loro assunto secondo cui l’uomo in ogni momento possiede una illimitata possibilità di scelta fra diversi percorsi di azione, trascurano i limiti imposti della realtà. Per Brownson il passato, così come è riflesso nella condizione concreta dell’ordine sociale, determina quali sono le possibilità di azione di una società. In realtà la sua intera teoria riformistica non è molto più di un’applicazione di questo principio (36). In questo egli attua una straordinaria integrazione fra la sua idea di cambiamento e il modo di operare della causa umana che egli intravede. Quando la società viene a esistenza, in effetti, l’uomo, che dispone ora in natura di una realtà da cui può attingere più facilmente la conoscenza, può cominciare a operare in collaborazione con i disegni di Dio impressi in quella realtà. E quando la mens di Dio che si può scoprire nella natura non viene attuata nell’ordine storico, l’uomo può agire per mettere in accordo i due elementi (37).

Ma perché una riforma possa aver luogo, l’ordine storico con le sue imperfezioni dev’essere distinto dal disegno divino perfetto espresso nella natura delle cose. «Poiché i fatti sensibili non sono intelligibili da soli, in quanto non esistono per sé, se la mente umana non potesse penetrare al di là del fatto singolo, al di là della mimesi spingendosi verso la metessi [(38)] o al di là del principio trascendentale copiato o imitato dal fatto singolo, essa non potrebbe mai conoscere il fatto medesimo» (39). Posta l’ammissione che i valori astratti sono la base per l’azione correttiva dell’ordine esistenziale, era impossibile che Brownson evitasse il problema che si apre quando si prende in considerazione l’elemento necessariamente soggettivo insito in ogni giudizio di verità e di giustizia. Il suo tentativo di risolvere il problema si complica a causa del particolare duplice aspetto sotto il quale viene trattato. Poiché il problema filosofico generale della norma del vero e del buono s’inserisce nella teoria politica della norma della legge giusta esattamente nel punto in cui esso a sua volta si complica allorché prende in considerazione l’esistenza di due fonti di giudizio sulla norma: quella della coscienza e quella dell’autorità. In tale contesto il problema della legge giusta, se considerato nel suo aspetto generale, si divide in due sotto-questioni, ovvero 1) qual è la norma generale della verità del giudizio? e 2) quando si formulano due giudizi di giustizia – quello secondo l’autorità e quello secondo la coscienza – quale dev’essere preferito in caso essi si trovino in conflitto?

Brownson formula il problema in maniera particolarmente penetrante e complessa in quanto reputa inammissibile separare i due elementi per poi risolverli in sequenza. Il problema secondo lui è come instaurare un rapporto armonico fra legge e coscienza che assicuri la verità obiettiva del giudizio sociale e di quello individuale. «La libertà non può essere concepita senza la giustizia e ovunque vi è giustizia vi è libertà. La libertà, poi, dev’essere difesa nella esatta misura in cui difendiamo il regno della giustizia. Ciò avviene in misura proporzionale alla garanzie che noi abbiamo che la volontà che governa sia una volontà giusta» (40). È importante notare che per lui il problema non era scoprire, quando coscienza e legge fossero in conflitto, se vi fosse una via di compromesso. Accettava come ovvia la verità che non vi può essere compromesso con la coscienza. In effetti la sua insistenza su tale aspetto, nonostante la sua generale antipatia verso i principi del trascendentalismo, è essenziale: il nocciolo del problema – e altresì il tratto distintivo della concezione che di esso ha Brownson – sta nel fatto, su cui insiste, che si deve accettare come ugualmente imperativo il principio che la legge, una volta promulgata, va osservata: non vi può essere alcun compromesso con la legge. «La necessità primaria dell’uomo è la società e la prima necessità della società è di essere governata. La questione se il governo debba o non debba essere assecondato è in fin dei conti solo il problema se la razza umana debba continuare a sussistere o meno. […] In nessun caso nessun uomo può mai essere giustificato se accantona o resiste a un decreto civile a meno che ciò avvenga in nome di un’autorità più alta della propria e di quella del governo stesso» (41) Da questa visione del problema deriva – e Brownson accetta questa conclusione – che in una situazione di conflitto non vi è nessun modo umano o politico per risolverlo. In effetti, chi è in grado di giudicare fra coscienza e legge?

«Il principio del privato giudizio adottato dai protestanti in materia religiosa […] ha distrutto in loro il concetto di Chiesa come corpo dotato di autorità e messo fine a qualunque cosa assomigli a un’autorità ecclesiastica; trasposto nell’ambito civile, questo pone allo stesso modo fine allo Stato e abolisce ogni autorità civile mentre instaura il regno dell’anarchia o della licenza. Chiaramente, se il governo dev’essere mantenuto e deve governare, il diritto di decidere quando un decreto civile è o meno in conflitto con la legge di Dio non può essere collocato nel singolo soggetto. Dove dovrebbe allora essere collocato? Nello Stato? Allora saremmo tenuti all’obbedienza assoluta a qualunque e ogni legge che lo Stato possa promulgare; trasformeremmo così lo Stato in supremo e assoluto e derogheremmo al nostro stesso principio che esiste una legge superiore a quella civile. Non avremmo allora nessuna possibilità di appellarci allo Stato, né di ricorrere alla coscienza individuale e ciò ha un nome: dispotismo civile assoluto» (42).

Il primo tentativo di Brownson di risolvere il dilemma – secondo uno schema che egli più tardi tuttavia respinge – s’incentra sulla sua antica teoria secondo cui l’universale consenso degli uomini in materia di giudizio morale costituisce prova evidente della verità di tale giudizio (43). Basandosi su un principio del genere, la soluzione era relativamente semplice, in quanto la situazione che egli necessariamente postulava era di consenso e non di conflitto. Egli vedeva che, se vi era un accordo in questioni morali sufficientemente universale da farlo ritenere come norma oggettiva, sarebbe stato impossibile che si verificasse un conflitto fra legge e coscienza, almeno all’interno del processo democratico che egli presumeva esistere nel gruppo. Tale soluzione, considerata solo nel suo aspetto logico, soddisfaceva a tutte le condizioni che Brownson poneva: l’armonia fra coscienza e legge, sì che la stessa esistenza di tale armonia costituiva una prova evidente della verità del giudizio oggetto del consenso. Quasi subito però, appena questa soluzione si affacciò, Brownson la scartò, poiché era pervenuto nel contempo alla conclusione che la teoria del consenso del gruppo quale prova della verità del giudizio andava respinta (44).

Tormentato dal problema di fondo di erigere una norma sociale oggettiva per la direzione di coscienza, Brownson si rivolge di nuovo al problema della coscienza e della legge. Credo cha la sua tesi definitiva in materia sia che la libertà, l’ordine e la giustizia possano esistere con sicurezza e in via di principio solo in una società cattolica (45). Brownson stesso lo afferma: «La tesi che proponiamo di sostenere è quindi che senza la religione cattolica romana è impossibile preservare un governo democratico e difendere la sua azione libera, ordinata e sana. Gl’infedeli, i protestanti, i pagani possono istituire una democrazia, ma solo il cattolicesimo può sorreggerla» (46). Brownson trova che l’unica fonte di giudizio, che eviti le difficoltà incontrate nell’avvicinamento alla verità e che non sia separabile dall’elemento soggettivo individuale, sia l’infallibilità della Chiesa. In risposta al dilemma che si era proposto di affrontare, la sua tesi è dunque: «Chi dunque [deciderà la questione del diritto]? Evidentemente il potere, la cui funzione è di proclamare la legge di Dio. Dal momento che il governo deriva la sua autorità da Dio ed è docile a tale legge, evidentemente può essere chiamato in causa solo sotto tale legge e davanti a un tribunale che abbia l’autorità di applicarla e di pronunciare sentenze in accordo con essa. […] Dio onnipotente non potrebbe mai dare una legge senza istituire un tribunale per applicarla e per giudicare le sue violazioni» (47). Questa soluzione è connessa con il suo pensiero sul problema della conformità fra autorità e coscienza quando le due sono in disaccordo.

3.4 Il conflitto fra legge e coscienza

Chiuderò la mia analisi con un breve esame delle premesse del suo pensiero a riguardo.

Il problema che Brownson si pone in concreto è: quando due giudizi soggettivi sono divergenti, vi è qualche modo per risolvere il conflitto senza fare a meno di uno di essi? Come suggerito, fintantoché Brownson si limita alla pura teorizzazione politica, la risposta è no (48). Cioè, nell’ordine naturale il problema è insolubile. Perché nella sua risposta, ovvero nell’appello che fa all’autorità infallibile della Chiesa, egli abbandona del tutto il contesto della sua metafisica razionale di base e della sua teoria politica. Egli cerca la soluzione non nell’ordine provvidenziale ordinario della storia e nemmeno nel ricorso a una pura conoscenza razionale del piano di Dio, ottenuta mediante considerazioni astratte, ma piuttosto egli la cerca in un nuovo e soprannaturale introito del divino nell’ordine della storia: in Cristo, vale a dire, proiettandolo attraverso la storia, nel suo Corpo mistico, la Chiesa.

Questa soluzione è fortemente indicativa dell’intensità con la quale Brownson combatteva contro l’individualismo e il soggettivismo della teoria trascendentalistica. Il ricorso all’autorità docente della Chiesa non è per lui semplicemente un appello disperato all’unica voce in grado di fare da arbitro nel conflitto. È invece, nel suo senso ultimo, un segno che egli aveva deciso che il conflitto fra coscienza e legge non poteva essere mai risolto per decisione della coscienza individuale. Non è, comunque, il suo un ricorso totale a un’autorità distinta dalla coscienza, in quanto la sua soluzione parte dal principio che la coscienza «[…] uniformemente e invariabilmente ci comanda di obbedire alla legge. […] Quindi noi domandiamo una obbedienza in quanto dovere e non in quanto mero sentimento, bensì in quanto virtù» (49). Un conflitto fra coscienza e legge può provocare in qualunque individuo ben ordinato una divisione interiore di coscienza. In questa concezione dello scontro il ricorso alla decisione della Chiesa si fonda sul principio che la Chiesa ha un’autorità sopra la coscienza, che è divina sia nella sua origine sia nel suo esercizio (50). Essa è quindi lo strumento appropriato con il quale si può dissolvere la paralisi della coscienza che il conflitto generata, non potendo essere risolto mediante le risorse interiori dell’individuo. Dunque, la sua soluzione può essere chiamata autoritaria in senso politico solo se gli si appioppa senza tanti complimenti una premessa che egli non ha mai fatto sua, e cioè che l’autorità della Chiesa è un’autorità puramente umana. Brownson respinge l’autoritarismo proprio perché esso è incompatibile con la libertà di coscienza. Inoltre, egli non sostiene che l’autorità della Chiesa si debba estendere attivamente su tutti gli uomini solo per il fatto di esistere: nella sua argomentazione è presente un elemento apocalittico, che mira a che un giorno tutti i cittadini siano cattolici e accettino universalmente la dottrina della Chiesa. Solo allora il problema della libertà e dell’ordine sarà risolto, almeno in via di principio. Attraverso questo elemento Brownson reintroduce nel suo pensiero la tesi del consenso originale propria della sua prima soluzione del problema: l’autorità della Chiesa non può affrontare il problema se non in una situazione in cui la società è caratterizzata dal consenso sulla natura della Chiesa. «Se gli uomini, rigettando l’interprete divinamente autorizzato della legge di Dio, si pongono volontariamente in una condizione tale che non abbiano altra alternativa che il dispotismo civile o la resistenza all’ordine di Dio, la colpa è loro». Brownson, forse senza averne chiara coscienza, ci dice così che il prerequisito per una libertà compatibile con la garanzia dell’ordine è il consenso sui principi fondamentali.

Riguardo al criterio obiettivo di verità, il suo ricorso alla Chiesa risolve il problema senza abbandonare la via della norma per aderire a una soluzione puramente autoritaria, e attraverso una norma la cui oggettività è assicurata dalla sua indipendenza dalla causa umana. Solo in una Chiesa che parla in nome di Cristo egli ritrova il giudizio obiettivo definitivo che ha cercato per gran parte della sua vita. Brownson è costretto dalla sua logica stessa a concludere che alla fine nulla di quanto esiste nell’ordine della storia da solo può valere come norma assoluta. La premessa a tale conclusione si trova nella sua asserzione che in definitiva il divino può brillare attraverso l’ordine naturale della storia solo in maniera rifratta e quindi che esso deve essere giudicato in base a qualche sorgente non rifratta della Mente divina. Nell’infallibilità della Chiesa Brownson trova la forma di giudizio in cui la causa seconda, l’uomo, sorgente della rifrazione nell’ordine storico, viene soppressa al fine di consentire il chiaro emergere del disegno di Dio. In definitiva, quindi, la soluzione al problema propria della sua teoria politica viene raggiunta nell’ordine soprannaturale. E in essa si riflette il suo spostamento dalla metafisica razionale degli esordi al campo della teologia. La definitiva coerenza del suo pensiero va trovata nel fatto che la sua soluzione ultima si basa sull’accettazione della nuova relazione fra il naturale e il divino che si instaura in Cristo e nella nuova rivelazione dei modi in cui Dio opera nella e attraverso la storia.



* * *

 

L’articolo è la traduzione redazionale di The Premises of Brownson’s Political Theory, apparso su The Review of Politics – la rivista fondata nel 1939 dal politologo conservatore americano di origine russo-tedesca Waldemar Gurian (1902-1954) all’Università di Nôtre Dame nell’Indiana –, XVI, 2 (aprile 1954), pp. 194-211. L’apparato critico è stato lievemente ritoccato con l’introduzione di alcune note esplicative e note biografiche dell’estensore e del soggetto, mentre il testo, per agevolarne la lettura, è stato suddiviso in paragrafi: la loro titolazione è redazionale.

Nota biograficaOrestes Augustus Brownson nacque a Stockbridge, nel Vermont, uno Stato della Nuova Inghilterra (New England), nel 1803. Di origini contadine studiò da solo i classici religiosi con cui l’appartenenza presbiteriana lo metteva in contatto. Profondamente religioso divenne in breve una delle figure di punta della predicazione e della comunità riformata del New England, optando per le correnti più rigorose. Nominato pastore coprì diversi incarichi pastorali nella regione. Aderì al movimento trascendentalista svolgendo anche qui incarichi ministeriali. Fra i più brillanti letterati e filosofi della sua epoca, fu uno dei pochi che s’interessò sistematicamente del pensiero filosofico e politico europeo. Negli anni 1840 conobbe un momento di aridità spirituale che – unitamente al suo senso di solidarietà cristiana con le classi popolari esposte alla drammatica rivoluzione industriale del primo Ottocento – lo avvicinò alla corrente socialista utopista e ad ambienti spiritisti. Ripresosi, iniziò un percorso di revisione intellettuale e religiosa che nel 1844 lo portò ad abbracciare, con la famiglia, il cattolicesimo. Immediatamente dopo la conversione porrà il suo lucido ingegno al servizio della Chiesa americana, fornendole strumenti teorici di prima qualità, per esempio sul rapporto con il liberalismo e sulla vita all’interno di un quadro religioso pubblico libero ma pluralista. Prese altresì parte alle campagne che vedevano i cattolici americani al centro delle polemiche, come quella sul protestantesimo e quella contro il «nativismo», il movimento xenofobo anti-irlandese di matrice anglosassone, particolarmente forte negli Stati dell’Est, così come quella sullo schiavismo. Il carattere schietto e irruente – fu uomo di alta statura e di corporatura massiccia –, nonché la sua verve polemica e la sua mancanza di rispetto umano gli alienarono molte simpatie, sia fra gli antichi sodali ideologici, sia fra i cattolici e in specifico fra gli esponenti del clero americano. Pubblicò pochi libri e di vario genere: l’unica formulazione compiuta delle sue idee politiche post-conversione si ebbe solo nel 1866 con la pubblicazione del trattato The American Republic. Diresse diverse riviste, fra le quali le più importanti ai fini del pensiero furono The Boston Quarterly Review e la Brownson’s Quarterly Review, per le quali redasse centinaia di articoli. Nella guerra civile, nonostante la vicinanza delle sue idee al conservatorismo del Sud, si schierò a sorpresa con l’Unione, sostenendone in lungo e in largo le ragioni e pagando il duro prezzo della perdita di due dei suoi cinque figli. Dopo la guerra a poco a poco s’isolò per morire nel 1876 a Detroit, ultima tappa del suo inesausto peregrinare fra le città della East Coast. È sepolto nella chiesa principale dell’Università cattolica di Nôtre Dame nell’Indiana. La sua memoria si perse fino agli anni Quaranta del secolo scorso, quando la sua figura fu riscoperta e divenne un’icona del nascente movimento conservatore americano. Brownson può essere il primo pensatore conservatore cattolico americano; animato da un inesauribile impulso alla ricerca del vero religioso e intellettuale, dotato di una forte capacità di ragionamento e di argomentazione, come pure di una efficace oratoria, per un non breve periodo rappresentò un riferimento imprescindibile per la vita e per le opzioni del giovane cattolicesimo di oltre Atlantico.



Note


(*) Stanley J. Parry (1918-1972), sacerdote americano della Congregazione della Santa Croce, ha insegnato teoria politica (primo grado) all’Università di Nôtre Dame negli anni 1950. Egli è stato uno dei primi protagonisti del movimento conservatore statunitense. Su di lui cfr. John A. Gueguen, Stanley Parry. Teacher and Prophet, in Logos. A Journal of Catholic Thought and Culture, X, 2 (primavera 2007), pp. 95-112.
(1) Cfr. la nota biografica su Brownson in calce al testo.
(2) Il trascendentalismo (dal latino transcendere, oltrepassare) è stato un movimento letterario e filosofico fiorito nel New England all’incirca fra il 1836 e il 1860 da un piccolo gruppo d’intellettuali religiosi, come reazione allo stesso tempo contro l’ortodossia calvinista e il razionalismo, e a favore invece – sul piano religioso – di una fede umanitaria e naturalistica e – sotto il profilo filosofico – di un accostamento alla verità più fondato sulla comune (trascendentale) intuizione del vero mediata dal divino naturale. Si tratta di una sorta di preromanticismo che affonda le radici nella filosofia immanentistica tedesca, fra Immanuel Kant – il movimento si formò intorno al dibattito sul carattere trascendentale della conoscenza umana nella filosofia kantiana – e l’idealismo. Non fu esente da influssi della metafisica indiana e cinese. La credenza che Dio sia immanente in ciascun uomo e nella natura e che l’intuizione del singolo sia la fonte migliore di conoscenza portava a dare enfasi all’individualismo ottimistico, alla fiducia in sé e al rigetto dell’autorità tradizionale. Massimi esponenti ne furono Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau; ne fecero parte George Ripley, Bronson Alcott, Margaret Fuller, Theodore Parker, and Brownson. Il loro organo fu The Dial (1840-1844), edito dalla Fuller e da Emerson; diede vita anche a una comunità socialista utopistica, Brook Farm (1841-1847), e si schierò contro lo schiavismo del Sud. Influenzò diversi letterati Nathaniel Hawthorne, Herman Melville, and Walt Whitman [cfr. The Columbia Encyclopedia, 6a ed., Columbia University Press 2007, sub voce (ndr)].
(3) Cfr. Louis R. Caponigri, Brownson and Emerson. Nature and History, in The New England Quarterly, XVIII, 3 (settembre 1945), pp. 368-390.
(4) Lawrence Roemer, Brownson On Democracy and the Trend Toward Socialism, Philosophical Library, New York 1953.
(5) Thomas I. Cook e Arnaud B. Leavelle, Orestes A. Brownson’s The American Republic, in Review of Politics, IV, 1 (gennaio 1942), pp. 77-90; e IV, 2 (aprile 1942), pp. 173-193.
(6) Cfr. L. Roemer, op. cit., cap. 5, dove egli sviluppa il pensiero di Brownson su questo punto. L’espressione più sintetica di queste idee si trova in Brownson in Political Constitutions (cfr. Henry F. Brownson (a cura di), The Works of Orestes A. Brownson, 20 voll., Presso il curatore, Detroit 1884, vol. XV, pp. 546-572).
(7) Ivi, p. 560; cfr. anche ivi, vol. XVIII, p. 91 e p. 126. [L’espressione «Il principio generatore delle costituzioni politiche […]» è ripresa palesemente dal titolo di Joseph de Maistre, Essai sur le principe générateur des constitutions politiques et des autres institutions humaines, Société Typographique, Parigi 1814; trad. it., Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, trad. it., con una introduzione di Roberto de Mattei, il Falco, Milano 1982 (ndr)].
(8) Cfr. L. Roemer, op. cit., cap. 2.
(9) H. F. Brownson (a cura di), op. cit., vol. XVIII, p. 33.
(10) Cfr. L. Roemer, op. cit., pp. 19-28, nonché il saggio di Brownson Protestantism Ends in Trascendentalism, in H. F. Brownson (a cura di), op. cit., vol. VI, pp. 113-134.
(11) Cook e Leavelle (cfr. op. cit., p. 83) negano che Brownson identifichi una tale rottura. Ma, cfr. una dichiarazione quale: «Se il mio diritto di comando scaturisce dal mio diritto di padre, perché ciascun padre all’interno della tribù non ha il medesimo diritto di esserne il capo? Questa domanda, da sola, mostra che è impossibile dedurre lo Stato dalla famiglia. Io non considero la famiglia come il germe dello Stato» (H. F. Brownson (a cura di), op. cit., vol. XV, p. 325). In The American Republic, saggio scritto ventitré anni dopo la citazione di cui sopra (cfr. The American Republic. Its constitution, tendencies, and destiny, P. O’Shea, New York 1865; n. ed., con una introduzione di Peter Augustine Lawler, Isi Books, Wilmington (Del.) 2003; trad. it., La repubblica americana: costituzione, tendenze e destino, a cura di Dario Caroniti, Gangemi, Roma 2000), Brownson rifiuta la teoria patriarcale dell’origine dell’autorità politica (cfr. ivi, vol. XVIII, pp. 24-27 e p. 73). Quest’argomentazione implica un importante principio: l’autorità non può essere spiegata in nessun modo tale che assegni ad alcuno un diritto personale a essa (cfr. ivi, p. 24).
(12) La Costituzione è un «fatto» che preesiste alla causa umana (cfr. ivi, pp. 105-109 e pp. 113-116).
(13) Cfr. ivi, pp. 107-109.
(14) «Il popolo di questo Paese [gli Stati Uniti] non ha fatto e non poteva fare la nostra costituzione politica. Essa è stata imposta da una competente autorità ed si è sviluppata, fino a essere ciò che è, grazie alla Provvidenza di Dio. Il popolo non ne ha mai avuto – né ha – il controllo. Non è stata né la preveggenza, né la saggezza, né le opinioni o il volere del popolo a farla repubblicana. La Costituzione fu repubblicana fin dal primo momento: alla fine della Guerra d’Indipendenza non abbiamo istituito una monarchia, né una nobiltà per la semplice ragione che nessuna delle due era nella nostra Costituzione» (ivi, vol. XV, p. 562). Brownson rifiuta ogni «volontaria e deliberata azione del popolo» nell’istituzione dell’autorità. In The American Republic (cfr. ivi, vol. XVIII, pp. 47-54) rifiuta l’evoluzione «spontanea». Nella stessa opera (cfr. ivi, pp. 54-58) rifiuta ogni istituzione divina per mezzo delle leggi positive. E, ancora (cfr. ivi, pp. 58-66), egli rifiuta l’idea che Dio abbia istituito lo Stato attraverso la Chiesa. Avendo così rifiutato sia la causa umana sia queste forme di causa extra-umana, si apre la strada per sviluppare la sua teoria dello sviluppo provvidenziale secondo cui Dio adopera gli uomini e le circostanze per formare le nazioni.
(15) La relazione fra la causa divina e l’azione umana nel produrre la costituzione-base è discussa ivi, vol. XV, pp. 356-361.
(16) Ivi, vol. XVIII, p. 74; cfr. anche: «La costituzione provvidenziale è di fatto ciò con cui una nazione è nata» (ivi, p. 88). L’azione umana può influirvi solo in via di modificazione.
(17) Anche nella sua trattazione del pluralismo, Brownson non si lascia coinvolgere nella consueta analogia fra le parti del corpo e i corpi intermedi dello Stato; cfr. la sua trattazione del federalismo negli Stati Uniti ivi, capp. 9-11.
(18) Edmund Burke (1729-1797) è stato un politico, filosofo e scrittore britannico di origine irlandese e di confessione cristiana anglicana; fu il primo (1790) critico della Rivoluzione francese e il fondatore del movimento conservatore in area culturale anglo-sassone.
(19) La filosofia di Georg Friedrich Wilhelm Hegel (1770-1831) concepiva panteisticamente il reale come manifestazione immanente dell’Idea umana in perenne sviluppo dialettico.
(20) Potrebbe sembrare che il concetto che Brownson ha delle relazioni fra umanità e individuo possa celare un aspetto hegeliano (cfr. ivi, vol. IV, pp. 115-120, e ivi, vol. XV, pp. 363-366). La sua idea, tuttavia, viene usata in termini generali, per spiegare il carattere sociale della natura umana; la forma e il contenuto della società civile vengono somministrati dalla Provvidenza per ovviare a questo bisogno naturale della società.
(21) Brownson osserva: «Le mie idee politiche, in misura considerevole, sono basate sulla dottrina platonica delle idee» (ivi, p. 364). E aggiunge: «In senso platonico […] le idee sono situate al di fuori della mente umana, nella mente divina. […] Le idee sono i generi delle cose. […] Sono le esistenze reali» (ibidem).
(22) Ivi, vol. XVIII, p. 77.
(23) Ivi, p. 80.
(24) Aristotele, Politica, libro IV, cap. 1, 1288b. Brownson rifiuta totalmente la visione dello «Stato ideale»: «La costituzione di uno Stato non è una teoria e nemmeno è compilata e proclamata in base a una qualunque teoria preconcetta. […] Le costituzioni concepite dai filosofi nei loro studi sono solo costituzioni da Utopia o da terra dei sogni» (cfr. H. F. Brownson (a cura di), op. cit., vol. XVIII, p. 81).
(25) Per la critica della costituzione francese, cfr. ivi, vol. XV, p. 564, e vol. XVIII, p. 81.
(26) Il problema non è etico ma strettamente politico. La costituzione organica è determinante in questioni del tipo «se la struttura federale sia idonea agli Stati Uniti» (cfr. ivi, vol. XVII, pp. 560-594). E anche nella scelta della forma generale del governo: «la costituzione [degli Stati Uniti] era repubblicana fin dall’inizio e non abbiamo istituito una monarchia né una nobiltà […] per la semplice ragione che nessuna delle due era nella nostra costituzione» (ivi, vol. XV, p. 562). Ma egli sostiene altresì che «la nazione, in quanto sovrana, è libera di costituire governi secondo il proprio criterio e in qualunque forma le piaccia: monarchica, aristocratica, democratica o mista» (ivi, vol. XVIII, p. 95). E aggiunge: «[…] ordinariamente la forma di governo adatta a una nazione è determinata dalla costituzione provvidenziale del popolo stanziato su un territorio» (ivi, p. 96).
(27) Questa è per Brownson la regola più generale per valutare gli atti umani. La causa seconda viene a coincidere con lo spazio della libertà umana (cfr. ivi, vol. XV, pp. 355-372). Dio deve raggiungere i suoi scopi in questo spazio, attraverso la collaborazione dell’uomo. E l’uomo, dal canto suo, può raggiungere i suoi veri fini solo attraverso la collaborazione con Dio (cfr. ivi, pp. 389-394); cfr. anche il suo saggio The Problem of Causality (ivi, vol. I, pp. 381-407).
(28) Ivi, vol. XV, pp. 360.
(29) Cfr. la discussione del vero fondamento della regola di maggioranza ivi, pp. 339-346. La maggioranza non ha alcun diritto intrinseco a comandare. Se comanda, ciò è semplicemente frutto di un accordo fra cittadini. Il principio di base è espresso ivi, pp. 357-358, dove si dice che l’autorità è divina nella sua origine; Dio governa l’uomo nello Stato. Ma poiché questo governo deve attuarsi nel rispetto della natura libera dell’uomo, l’uomo determina la forma in cui tale governo viene esercitato.
(30) Ivi, vol. XVIII, p. 6.
(31) Ivi, pp. 97-98.
(32) Per Jean-Jacques Rousseau, cfr. Idem, Il contratto sociale, libro II, cap. 7; per Platone cfr. Idem, Le leggi, libro I, p. 627, p. 628, e p. 630; e libro II, p. 671, p. 684 e p. 691.
(33) Per l’interpretazione che Brownson dà del trascendentalismo su questo punto cfr. ivi, vol. VI, pp. 1-18. Per un’analisi generale del tema, cfr. Charles N. R. McCoy, The Turning Point in Political Philosophy, in American Political Science Review, XLIV, 3 (settembre 1950), pp. 678-688.
(34) Cfr. T. I. Cook e A. B. Leavelle, op. cit., p. 177. [Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e de Montesquieu (1689-1755), filosofo francese, pubblicò nel 1748 la Défense de l’Esprit des lois (Difesa dello spirito delle leggi) in cui esprime la teoria politica del costituzionalismo illuministico (ndr)].
(35) Nel caso della controversia sull’abolizione della schiavitù, l’argomentazione di Brownson è che la causa abolizionistica non doveva essere posta in modo tale da «[…] subordinare la costituzione degli Stati Uniti all’emancipazione» (H. F. Brownson (a cura di), op. cit., vol. XVII, p. 539). Obiezione a questo assunto è che l’ordine sociale è il bene fondamentale dell’uomo. Implicitamente, in ogni discussione che Brownson fa della rivoluzione, si rirova il principio che non vi è alcun diritto alla rivolta contro la società.
(36) Brownson ne offre un breve enunciato nel suo saggio Reform and Conservation, ivi, vol. IV, pp. 79-99. A p. 79 il vero scriba è per lui «[…] chi mantiene una salda presa sul passato, ma si addestra a conquistare il futuro; riforma è progresso e il vero riformatore si sforza sempre di adempiere ciò che è antico e mai di distruggerlo». Nel suo saggio The Higher Law egli sviluppa la sua tesi sottolineando, forse in misura eccessiva, considerando il suo successivo lavoro, il carattere divino dell’ordine sociale (cfr. ivi, vol. XVII, pp. 1-17).
(37) Si deve ricordare il dilemma creatosi per i contrattualisti (contractarians): «Questi uomini primitivi (in stato di natura) non hanno alcuna esperienza, nessuna conoscenza, il se pur minimo concetto di vita civile o di un qualunque stato di vita superiore a quello in cui hanno vissuto fino al momento. Come possono […] anche solo concepire una civiltà o addirittura realizzarla[?]» (ivi, vol. XVIII, p. 31). Brownson lo afferma nel quadro dell’argomentazione secondo cui il progresso non può neppure iniziare se una forma di civiltà, almeno nel suo primo stadio, non esiste già. Roemer analizza in dettaglio questo argomento (cfr. op. cit., pp. 20-25).
(38) Nella filosofia platonica mimesi indica che gli oggetti sono copie semplici delle idee; metessi che le cose partecipano all’esistenza delle idee (cfr. gli entes rationis, es. gli enti matematici); e parosia che le idee sono presenti nelle cose e ne rappresentano l’essenza (ndr).
(39) Cfr. H. F. Brownson (a cura di), op. cit., vol. XVII, p. 48. Brownson difende vigorosamente il potere della ragione naturale di afferrare la natura delle cose. La sua tesi sulla rivelazione e sull’infallibilità della Chiesa rappresenta per lui il tentativo di definire con esattezza quel potere; cfr. il suo saggio What Human Reason Can Do (ivi, vol. IV, pp. 306-323).
(40) Orestes A. Brownson, Essays and Reviews, Sadlier and Co., New York 1870, p. 399.
(41) H. F. Brownson (a cura di), op. cit., vol. XVII, p. 10. Quasi in ogni suo saggio politico Brownson ripete tale idea. Il principio della natura sociale dell’uomo è sviluppato in esteso ivi, vol. IV, p. 115 e ss.
(42) Ivi, p. 8. La stessa idea in O. A. Brownson, Essays and Reviews, cit., p. 403. Anche questo dilemma è a tema in quasi tutti gli scritti politici di Brownson.
(43) La formulazione più chiara di questa teoria di Brownson sta nel suo saggio Leroux on Humanity (cfr. H. F. Brownson (a cura di), op. cit., vol. IV, pp. 100-139).
(44) La modifica del suo pensiero in ordine alla norma-consenso appare ivi, vol. XV, pp. 548-549. Tre sono i fattori importanti di questo mutamento: 1) il consenso del singolo gruppo non può essere equiparato a quello di tutti gli uomini, 2) tale consenso è una norma di ragione pratica e non di ragione speculativa, e 3) esso non è altrettanto affidabile dell’autorità della Chiesa. Nei suoi Essays and Reviews (cit., p. 402) egli arriva a diffidare del consenso come norma perché potrebbe far pensare che nel gruppo esista una qualche forma d’infallibilità.
(45) Dico «con sicurezza e in via di principio» poiché Brownson pensava che la libertà e la giustizia sostanziali esistessero negli Stati Uniti. Egli pensava che si trattasse di una situazione de facto e la sua maggior preoccupazione fu di trovare un fondamento di principio atto a sorreggerla.
(46) Ivi, vol. X, p. 1.
(47) O. A. Brownson, Essays and Reviews, cit., p. 403. Il suo ragionamento si svolge così: 1) nessun individuo può respingere la legge di sua propria autorità (cfr. ivi, p. 401); 2) ma, quando l’autorità è male usata, essa dev’essere corretta (cfr. H. F. Brownson (a cura di), op. cit., vol. XVII, p. 6); e 3) la correzione deve avvenire sotto l’autorità, l’autorità di Dio e la religione.
(48) Cfr. ivi, p. 11. Brownson sostiene che il dispotismo è inevitabile in questo conflitto, se lo Stato prevale. Ma, se l’individuo prevale, il governo della forza piuttosto che il governo della legge è accettabile in via di principio (cfr. ivi, vol. XVIII, p. 229).
(49) Ivi, vol. XV, pp. 557-558.
(50) Cfr. ivi, vol. XVII, p. 11. Tuttavia, egli pensava che in America, grazie alla perfezione della sua costituzione e il suo modo pragmatico di affrontare la legge, gli uomini potessero conservare e la libertà e la giustizia, in termini fattuali, per un lungo periodo (cfr. ivi, vol. XVIII, pp. 214-215).



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350 pp., € 24,90.







OSCAR SANGUINETTI
E IVO MUSAJO SOMMA,
Un cuore per la nuova Europa. Appunti per una biografia di Carlo d'Asburgo,

invito alla lettura di don Luigi Negri,
prefazione di Marco Invernizzi,
a cura dell'Istituto Storico dell'Insorgenza e per l'Identità Nazionale,
3a ristampa,
D'Ettoris,
Crotone 2010,
224 pp., con ill., € 18,00.





ROBERTO MARCHESINI,
Il paese più straziato. Disturbi psichici dei soldati italiani della Prima Guerra Mondiale,

prefazione di Oscar Sanguinetti,
presentazione di Ermanno Pavesi,
D'Ettoris,
Crotone 2011,
152 pp., € 15,90.





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