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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale



Paolo Martinucci



PREMESSE STORICHE E CULTURALI DELL’INSORGENZA NEL BERGAMASCO E NEL BRESCIANO
(Prima parte)



1. PREMESSA

L’ultimo scorcio del Settecento in Europa si caratterizza per una serie di avvenimenti che, senza esagerazione alcuna, possono essere definiti epocali e tragicamente attuativi di un nuovo modo di intendere i rapporti sociali, politici e religiosi. È questo il periodo della Rivoluzione francese, la quale fu preceduta dall’azione livellatrice del cosiddetto «dispotismo illuminato», a sua volta frutto della cultura illuministico-razionalistica, la quale, in non poche vicende dei suoi esponenti, non era disgiunta da pratiche di vita che già da tempo si erano allontanate dal tradizionale costume cristiano.
E mentre in Francia la trasformazione, a livello di pensiero e di costume, presso i ceti borghesi ed aristocratici, era avvenuta in un lungo periodo, in Italia tale mutamento — pur lentamente già in atto — subì una fortissima accelerazione nel corso di un triennio, gli anni dal 1796 al 1799. In questi tre anni, nel nostro paese, trovava sbocco politico-cioè in istituti giuridici ed amministrativi-l’ideologia della Rivoluzione dell’Ottantanove.

2. BERGAMO E BRESCIA NELLA SECONDA METÀ DEL SETTECENTO

L’Armée d’Italie della Repubblica Francese, nella primavera del 1796, dilagava nella pianura padana, travolgendo le truppe austro-piemontesi. Napoleone Bonaparte occupava dei territori i cui istituti politici e la cui classe dirigente — anche se non certamente nella loro totalità — erano fortemente segnati dalla temperie culturale del secolo, la quale, lungi dall’essere di ostacolo alla penetrazione delle idee di cui egli era portatore, divulgatore e braccio militare, costituiva l’humus per l’accoglimento delle medesime.

L’Italia non era dunque «un’isola felice», ma territorio statualmente frammentato, che presentava caratteristiche politiche e religiose abbastanza omogenee.
Lo scenario era stato disegnato nel 1748, al tavolo delle trattative del congresso di Aquisgrana in Germania, che poneva termine alla guerra di successione austriaca. Al trattato era susseguito un quarantennio di pace e di stabilità politica nei rapporti tra i vari stati. All’interno di ognuno di essi, invece, il fermento riformatore dei principi «illuminati» si traduceva in trasformazioni sociali profonde e non indolori, mentre l’ecclesiologia e la pastorale del giansenismo — il movimento intra-ecclesiale pseudo-rigorista di origine olandese —, apertamente sostenute dalle corti in quanto favoriva le tendenze giurisdizionalistiche dei governi —, minavano l’unità e l’ortodossia cattoliche. Nel contempo, le «società» massoniche diffondevano il verbo del deismo e di una fratellanza amorfa e disincarnata e la cultura libertina si poneva come modello alternativo ai costumi cristiani.

2.1 Il dispotismo «illuminato» nei territori della Repubblica Serenissima

In questo periodo, le corti europee fanno proprie le tesi illuministiche di radicale critica alle tradizionali teorie dell’autorità, alle istituzioni di secolare consolidamento, alle leggi consuetudinarie e alle tradizioni dei vari popoli. In quest’opera di edificazione di un mondo secondo raison, peraltro già iniziata con moderazione dall’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo (1717-1780), primeggiava suo figlio l’imperatore Giuseppe II (1741-1790), il quale, al riguardo, manifestava uno zelo inimmaginabile. Voleva infatti che la realtà si conformasse rigorosamente alla teoria elaborata dai «lumi»: era il trionfo del fanatismo della ragione astratta che si esercitava sul tessuto sociale dei popoli dell’Impero, con la «sensibilità» di un rullo compressore.
Queste le tappe fondamentali del suo furore pianificatorio: tributo fondamentale imposto a tutti i ceti; abolizione della servitù della gleba; soppressione delle corporazioni; imposizione dell’approvazione regia a bolle e brevi papali; soppressione degli ordini contemplativi, perché ritenuti oziosi; inquadramento del clero nelle file dello Stato; nomina sovrana dei vescovi.
Con il decreto del 9 maggio 1782 l’imperatore presentava al Papa una lista di nominativi; dettatura di regole sull’educazione nei seminari; emissione di direttive statali riguardo all’esercizio del ministero ecclesiastico svolto; riforma del rituale del culto divino; limitazione all’orario delle preghiere per gli ecclesiastici; determinazione del numero dei ceri sull’altare; sfavore per le comunioni e le confessioni frequenti; introduzione di un catechismo di Stato; modifica dei libri di preghiera; abolizione delle cerimonie funebri; matrimonio considerato come un contratto civile risolubile col divorzio. Federico II di Prussia diceva di lui con sarcasmo: «Mio cugino sacrestano!» (1).

Il regno di Giuseppe II si risolse in dieci anni di lotta con Roma: Papa Pio VI (1775-1799) andò a Vienna e dovette piegarsi al volere dell’imperatore.
Non può essere sottaciuto ciò che era già avvenuto ai danni dei gesuiti: dal 1764 al 1768 erano stati espulsi da tutti gli Stati, trovando rifugio presso Federico II di Prussia e Caterina II di Russia (1729-1796).
I gesuiti erano contrari alle tendenze gallicane — ossia separatiste —, presenti in Francia e alla formazione di chiese nazionali. Mentre quest’ultima era il fine della politica religiosa di Giuseppe II — influenzato da Johann von Hontheim (1701-1790), detto Febronio, vescovo coadiutore di Treviri in Germania — i gesuiti erano decisi sostenitori del primato papale.
Papa Clemente XIV (1769-1774), col breve Dominus ac Redemptor, nel 1773, davanti alle minacce delle potenze «cattoliche», dovette sopprimere la Compagnia di Gesù.
Attraverso l’opera del principe illuminato, di cui Giuseppe II ha rappresentato la migliore sintesi — per la concezione che aveva del proprio ruolo e per l’applicazione che metteva nello svolgerlo —, si veniva a sostituire un ordine antico con un nuovo stato di cose nel quale ogni aspetto della vita sociale — economia, educazione, religione — veniva regolato. Il re era a capo di una fitta rete burocratica che gli permetteva il controllo dell’apparato statale, esautorando in questo modo il secolare ruolo dell’aristocrazia. Il principe si poneva come capo assoluto di fronte ad uno Stato, da lui medesimo plasmato, che tendeva ad affermare la propria sovranità persino al di sopra del principe stesso.
E qui, forse, sta la spiegazione della rottura e degli aspetti di continuità tra il periodo delle cosiddette riforme e quello rivoluzionario.
Trattazione approfondita meriterebbe ciascuna delle innumerevoli iniziative di cambiamento, in ogni campo della vita sociale del nostro Paese, sollecitate dai vari circoli culturali illuministici a Milano, a Napoli, a Firenze — nei quali emergono le figure di Pietro (1728-1797) e Alessandro (1741-1816) Verri, Cesare Beccaria (1738-1794), Gaetano Filangeri (1752-1788), Pompeo Neri (1706-1776), Giulio Rucellai (1702-1778), Francesco Maria Gianni (1728-1821), ecc. — o di alcuni primi ministri — Bernardo Tanucci (1698-1783) a Napoli, Guillaume-Leon du Tillot (1711-1774) a Parma — o dei plenipotenziari asburgici a Milano Karl Joseph von Firmian (1718-1782) e Johann Joseph Maria von Wilczeck (1738-1819).
Tali progetti comunque si inserivano nell’alveo di una politica accentratrice e dirigistica, volta a restringere o a erodere i margini di autonomia e di concreta libertà dei corpi sociali.
Tuttavia la realtà non era così docile. Ovunque infatti i popoli dell’Impero asburgico — per esempio — difendono la libertà della loro fede, le tradizioni, le istituzioni che da secoli li guidavano e dappertutto i domini imperiali in quegli anni sono scossi dalla ribellione.
Leopoldo II di Asburgo-Lorena (1747-1792) fu costretto a rivedere non poche delle riforme del predecessore Giuseppe II, che egli stesso — quando aveva governato la Toscana, fra il 1765 e il 1790, con il nome di Pietro Leopoldo I — aveva imposto, suscitando già allora alcune sommosse: tumulti a Prato a difesa delle tradizioni ecclesiastiche; rivolta a Livorno per chiedere la sospensione della libertà di commercio dei cereali e per il ristabilimento delle tabelle sui prezzi; richieste di apertura delle cappelle chiuse e di riedificazione degli altari minori delle chiese. I fatti avvennero durante il periodo in cui governava il Consiglio di Reggenza, in quanto Pietro Leopoldo era diventato imperatore. Anche a Milano Leopoldo II, nel 1791, durante un soggiorno che si era prolungato per un mese, doveva revocare circa trenta delle più inopportune riforme ecclesiastiche.

Sul territorio della Repubblica di Venezia, cui appartenevano le province di Bergamo e di Brescia, la circolazione di queste nuove idee politiche era ancora piuttosto limitata; il patriziato deteneva fermamente, ma anche paternamente e bonariamente, il potere.
Gli unici «cedimenti» alle nuove teorie politiche erano state la soppressione dell’appalto delle poste ad una compagnia di corrieri di origine bergamasca, la «Onoranda Compagnia dei Signori Corrieri» — il servizio veniva gestito dallo Stato, con creazione di un’apposita magistratura, per il cui incarico spesso si litigava — e la politica ecclesiastica, che si era caratterizzata nel senso di limitare l’influenza di Roma sul territorio.
Era stato più volte ribadito il divieto di applicare bolle o brevi papali senza l’approvazione del governo.
Il divieto era stato poi temporaneamente revocato nel 1758 da Papa Clemente XIII (1758-1769), veneziano della famiglia Rezzonico.
I gesuiti erano stati, a fasi alterne, ammessi — nel 1606 — oppure espulsi — nel 1773 — dallo Stato. I rapporti fra Stato e Compagnia di sant’Ignazio erano stati sempre difficili, basti pensare che, con un decreto del 26 marzo 1612, il governo comminava la pena di morte a chi faceva educare i figli presso i collegi dei gesuiti.
Nel 1767 era stato proibito agli ecclesiastici di intromettersi in questioni di amministrazione proprie dei laici.
Nel 1768, il vescovo di Brescia, mons. Giovanni Molino (1705-1773), si scontrava col Senato veneto, che con un decreto del 7 settembre 1768, aveva stabilito la sottomissione del clero regolare al vescovo locale.
Il vescovo, allontanatosi dalla sede, si era visto confiscare i beni ed era costretto a ritirarsi fino al 1769 negli Stati pontifici.
Nello stesso anno Papa Clemente XIII con la bolla In Coena Domini condannava quanto il duca di Parma Ferdinando di Borbone (1751-1802) aveva stabilito in materia di divulgazione e di applicazione delle ordinanze e delle scritture pontificie — imponeva l’exequatur del sovrano. Anche Venezia, come l’Impero asburgico, proibiva la diffusione della bolla. Il consiglio municipale di Bergamo ne prendeva atto il 10 marzo 1769. I parroci della diocesi di Brescia giuravano di non farne uso e di non spiegarla, nemmeno di esporla. Lo stesso doveva avvenire nella diocesi bergamasca. L’inquisitore Andrea Tron (1712-1785), apprezzato anche da Giuseppe II — come rivela l’incontro avvenuto fra i due il 22 luglio 1769 a Venezia —, aveva studiato un progetto di «sfoltimento» delle istituzioni religiose presenti in Venezia. Nel 1765, venivano così soppresse 147 confraternite, scuole, associazioni, erette senza autorizzazione statale, mentre nel 1772 veniva emesso un decreto di graduale soppressione dei conventi degli agostiniani, degli allora esistenti gerolimini, dei frati minimi e dei servi di Maria.

Per il resto, non si devono segnalare iniziative di rilievo in campo politico nella Repubblica, se non, nel 1768, la creazione dell’Accademia degli Arvali per il progresso dell’agricoltura; ancora, nel 1770, la presentazione di un progetto di riforma scolastica a opera di Gasparo Gozzi (1713-1786); nel 1771, l’istituzione di una cattedra per il perfezionamento degli artigiani e, infine, nel 1781, alcuni provvedimenti per sollevare l’arte della lana.

2.2 La cultura libertina

L’illuminismo — con i suoi corollari laicistici — operava su un terreno culturale già dissodato dalla corrente di pensiero comunemente definita «libertina».

Nata nella Francia del Seicento — secolo in cui, secondo il filosofo Augusto Del Noce (1910-1989), si registra la definitiva frattura tra la concezione teocentrica del mondo, dell’uomo e dei suoi destini, propria della cristianità medievale, e quella antropocentrica dell’era moderna —, tale cultura, germinata dalle radici del naturalismo rinascimentale — quello, fra gli altri, di Pietro Pomponazzi (1462-1525), Giulio Cesare Vanini (1585-1619) —, aveva assunto poi connotazioni scettiche — con Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) — o moderatamente razionalistiche, riecheggianti dottrine stoiche.
Col tempo vennero persi anche gli aspetti dottrinari o ideologici e la cultura libertina si trasformò in un orientamento di vita, caratterizzato dall’indifferenza nei riguardi del soprannaturale e da un ideale di vita tutto «orizzontale», immerso nel quotidiano e nel finito, con conseguente erosione anche delle residue certezze naturali.
Si trattava di un modo di vita che, superata pure la pratica della «doppia morale», usciva allo scoperto, manifestando dissolutezza morale e coltivando l’erudizione come strumento demitizzante e provocatorio, con particolare riguardo alla fenomenologia delle religioni, alla teoria dello Stato senza fondamento trascendente e alla pratica della stregoneria in chiave medica.

2.3 Il mondo ecclesiastico

I vescovi italiani, dopo il Concilio di Trento (1545-1563), generalmente sapevano unire zelo pastorale, capacità di governo, sana dottrina.
Contro i rari casi di decadenza dottrinale o di scarsa dignità nello svolgimento della missione apostolica, si alzavano severi i moniti dei predicatori — nella seconda metà del secolo era ancora presente la traccia lasciata da san Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751), mentre, nello stesso periodo, nel Meridione era feconda l’opera di inculturazione della fede svolta da sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787).
Accanto ai non pochi problemi, aspetti vitali del mondo cattolico, che era senza dubbio in fase di ripresa, erano la diffusa pietà popolare; l’incremento e la riforma delle opere di carità; l’intensificazione dell’evangelizzazione popolare attraverso la predicazione delle missioni nelle campagne e nelle città; l’estrazione popolare di numerosi sacerdoti, che alimentava l’espansione missionaria della Chiesa.
In conclusione, l’attacco sferrato alla Chiesa da parte della «nuova cultura» non ne aveva scalfita l’incidenza sociale, anche se la sua cultura ufficiale era impegnata più nella polemica anti-giansenistica che contro l’immorale edonismo libertino.

Per comprendere la veemente opposizione anti-giacobina nelle valli lombarde dei territori della Serenissima, è indispensabile sottolineare la profonda religiosità della popolazione, conseguente allo zelo pastorale dei vescovi di questo secolo, i quali a Bergamo e a Brescia furono sempre veneziani di origine.

A Brescia la vita religiosa di inizio secolo era stata segnata dalla pastorale del vescovo «santo», il cardinale Giovanni Badoaro (1706-1714), figura austera, legato ai gesuiti, osteggiato quindi dalla nascente corrente giansenista.
Mons. Badoaro curava la formazione del clero, diffondeva il culto eucaristico, favorendo le iniziative dei Teatini — chierici regolari della divina provvidenza — sull’adorazione perpetua del Santissimo Sacramento.
I vescovi successivi ne continuavano l’opera feconda. Mons. Giovan Francesco Barbarigo (1714-1723) curava l’educazione della gioventù e quella catechistica, introduceva gli esercizi spirituali per il clero secolare, rinnovava l’insegnamento nel seminario — dotandolo di docenti di prestigio —, diffondeva la devozione alla Vergine — si moltiplicavano agli angoli delle strade le edicole mariane —, praticava il ricordo dei morti durante il carnevale e sollecitava la partecipazione ai sacri tridui. Il card. Angelo Querini (1727-1755), benedettino di grandissima cultura — fondò, tra le altre cose, la pubblica biblioteca Queriniana —, armonizzava l’erudizione e lo zelo pastorali e dotava ogni convento di scuole di teologia.
Sotto la sua direzione il numero dei sacerdoti era aumentato sul territorio della diocesi — nel 1727 vi erano 4.270 preti, di cui 478 in Brescia, e 1.200 seminaristi -; numerosi erano anche i membri del clero regolare divisi nei vari ordini — benedettini, teatini, frati Minori conventuali, frati minori osservanti, frati minori riformati, gesuiti, domenicani, carmelitani, filippini).
Venivano diffuse le missioni del popolo, si circondava di collaboratori di grande cultura.

Nello stesso periodo la cappuccina madre Maria Maddalena Martinengo (1687-1737) — la contessa Margherita da Barco —, beatificata da Papa Leone XIII (1878-1903) nel 1900, dava esempio di perfezione cristiana attraverso una severa vita di penitenza; la consorella Maria Nazarena Sandri (1701-1749), di Verolanuova, la imitava e, nelle estasi, si sentiva dire «Io sono Gesù Nazareno, tu sarai Maria Nazarena» (2).
La vergine Teresa Saodata (1715-1757) di Salò, dopo trent’anni di lavoro come domestica, fondava il Pio Luogo della Misericordia per le orfanelle di Salò.
Nel 1770, sostava a lungo in Brescia, facendo umili lavori presso le clarisse del monastero di Santa Chiara vecchia, il santo pellegrino Benedetto Giuseppe Labre (1748-1783).

A Bergamo moltissime erano le comunità religiose, che vivevano con le offerte del popolo.
In occasione della beatificazione di san Gregorio Barbarigo, il governo veneziano offriva un contributo di 2.000 ducati; grandi festeggiamenti venivano fatti nel 1766, in occasione della traslazione delle reliquie dei santi Fermo, Rustico — vescovo di Narbona in Provenza (?-461ca) — e Proclo — vescovo di Cizico nei pressi di Costantinopoli (?-446).
Queste celebrazioni contribuivano a tenere alte l’identità e la «temperatura» religiosa del territorio.

Destava allora grande interesse, anche all’estero, il «caso Rubis», dal nome del parroco di Sorisole, in provincia di Bergamo, don Giovanni Antonio Rubis — o Rubbi — (1693-1785), che godeva fama di essere un guaritore, sì che giungevano al suo vescovo e a lui medesimo molte lettere di approvazione e di stima da parte di esponenti della gerarchia; ma la sua figura favoriva anche animate discussioni.

In quel tempo si stava affermando anche la devozione al Sacro Cuore di Gesù, non senza contrasti con l’autorità civile.
Nel 1777, diventava vescovo di Bergamo Giampaolo Dolfin (1777-1819), che, pur essendo «di malfermo carattere» (3), caldeggiava la diffusione del culto del Sacro Cuore di Gesù, disciplinava i costumi ecclesiastici, anche censurando coloro che disprezzavano l’uso della veste talare e il suo colore nero.

2.4 L’influenza giansenista

A Brescia la vita religiosa di inizio secolo era stata segnata dall’«affare Beccarelli», dal nome di don Giuseppe Beccarelli (1666-1716), un prete quietista — ossia seguace della corrente mistico-religiosa che mirava all’unione con Dio attraverso la totale passività dell’anima —, che godeva di ampie simpatie nel mondo aristocratico e del quale fu memorabile il processo pubblico in piazza — con condanna finale — da parte dell’Inquisizione.
Già durante l’episcopato del card. Querini la città era diventata uno dei più importanti centri di cultura in Italia e nei decenni successivi sarebbe diventata un laboratorio delle idee rivoluzionarie.
Fin dai tempi del card. Querini «[...] bollivano in città i dissidi e le contese tra molinisti e partigiani di S. Agostino e S. Tommaso» (4).
Tra il 1705 e il 1757 venivano pure pubblicate numerose opere gianseniste e parecchi membri del clero secolare e di quello regolare erano seguaci di questa dottrina.
Durante l’episcopato di mons. Molino il movimento giansenista prendeva ancora più corpo e, per opera di don Pietro Tamburini, esso si fondeva con le correnti illuministiche provenienti dalla Francia. La politica religiosa dei vari principi era in larghissima misura ispirata dai giansenisti, che, nel Settecento, erano più attivi in Italia che in Francia. I giansenisti concordavano con gli illuministi su diversi punti, quali: l’attacco all’autorità del papa e contro la cosiddetta onnipotenza del clero, la polemica anti-gesuitica, l’apologia della povertà del cristianesimo primitivo, l’esaltazione del regalismo.
Fra i massimi esponenti del giansenismo italiano spiccavano i bresciani don Pietro Tamburini (1737-1827) e don Giuseppe Zola (1739-1806) — ai quali mons. Molino aveva dato il permesso di insegnare in seminario — e l’arciprete di Cividate Camuno don Giovan Battista Guadagnini (1723-1807).
Il vescovo Molino nel 1772 allontanava don Zola e don Tamburini dal seminario, prendendo chiaramente posizione a favore dell’ortodossia romana.
I due avrebbero poi insegnato all’università di Pavia fino alla vigilia della rivoluzione bresciana, pur essendo stati rimossi nel 1794, per decreto dell’imperatore, dall’insegnamento alla facoltà teologica, il che testimonia quanto grande fosse la loro influenza. Don Giuseppe Zola aveva scritto: «Il governo dello stato ha da essere il duce, i professori all’incontro ed il clero hanno da essere gli esecutori di questa impresa» (5).
Nel 1786 il vescovo di Pistoia e di Prato mons. Scipione de’ Ricci (1741-1809) convocava un sinodo a Pistoia — diventato poi noto come il «Conciliabolo di Pistoia» —, che riuniva gli ecclesiastici della diocesi e i più attivi giansenisti italiani, tra i quali don Tamburini e altri di Brescia.
Al termine dell’assemblea venivano redatti 57 articoli, sorta di Magna Charta della «nuova Chiesa», sintesi delle istanze giansenistiche e di quelle assolutistiche e giurisdizionalistiche.

2.5 La situazione economica

Dopo la pace di Aquisgrana, in tutti gli Stati italiani, a causa del prolungato periodo di pace, vi fu un lento, ma continuo incremento demografico.
L’assenza di saccheggi alle colture e la disponibilità di mano d’opera determinano il rifiorire dell’attività agricola e l’afflusso di capitali nelle campagne.
In Piemonte e in Lombardia — più nel primo che nella seconda — si assisteva a una naturale evoluzione della dinamica sociale: l’aristocrazia perdeva le caratteristiche feudali: mentre quella lombarda tendeva a imborghesirsi, la piemontese assumeva un carattere più militare e burocratico e i patriziati ligure e veneto erano versati nei traffici e nella speculazione.
I gravami feudali, secondo Raimondo Luraghi (6), in Piemonte — ma nella Lombardia asburgica la situazione era pressoché analoga — incidevano soltanto per l’1,36% sul reddito agrario complessivo — in Francia era il 42,84% —, mentre le terre a titolo feudale immune del clero e dell’aristocrazia non superavano il 10% dell’intera proprietà fondiaria.
Carlo Zaghi presenta (7) invece dei dati percentuali ben superiori circa la proprietà della nobiltà, vicina al 50% del totale in Lombardia e in Emilia in media al di sotto del 40%: tali dati sono però riferiti al solo 1730 e non rispecchiano la situazione alla vigilia dell’«avventura napoleonica». A determinare tali percentuali concorrevano l’evoluzione economica e sociale, nonché l’attività di esproprio dei principi illuminati.
Certo i nobili possedevano molte altre terre a titolo allodiale, cioè libere da vincoli feudali. Si assisteva inoltre a un preoccupante e grandioso fenomeno sociale: i contratti agrari basati sulla mezzadria, immutati da secoli, non venivano rinnovati e cedevano il posto a forme di affitto o di «proletarizzazione», che incrementavano il numero dei braccianti e dei salariati agricoli.
Il contadino da «quasi padrone», in quanto la metà del raccolto era sua, diveniva salariato, con conseguente precarietà del lavoro e basso salario, mentre aumentava la produzione agricola e, conseguentemente, il reddito del ceto agrario possidente. Ciò generava tensione sociale nelle campagne.
Nella pianura lombarda, dove la piccola proprietà era più diffusa, si affermava la grande azienda agricola: scomparivano quasi del tutto i piccoli appezzamenti a gestione familiare e anche qui la mezzadria si estingueva.

Nei territori della Repubblica di Venezia, relativamente al commercio, il governo adottava misure protezionistiche — alti dazi sulle importazioni — e una politica economica di stampo mercantilistico, che testimoniava la chiusura nei confronti delle nuove dottrine economiche, sostenitrici dell’apertura dei mercati.
Nella seconda metà del secolo XVIII si registrava una preoccupante emigrazione di operai e di imprenditori verso mercati più favorevoli.
Numerose furono le ribellioni per il rifiuto di pagare il dazio. La «tansa», la più comune forma di tassazione, gravava prima sulle arti, poi sulle persone, peggiorando la situazione. La crisi era dovuta al fatto che in Italia si era diffuso l’uso di tessuti francesi più leggeri. Inoltre, si assisteva ad una progressiva decadenza dell’industria della lana, sviluppata soprattutto sulla riviera del lago d’Iseo.
Qui esisteva una «Università del Lanificio», alla quale, nel l784, i cinque Savi alla Mercanzia — il ministero del commercio della Serenissima — concedevano per otto anni l’esenzione dal pagamento del tributo gravante sulla lavorazione della lana.
Ma la situazione non migliorava: dopo un’annata «assai calamitosa», il 22 novembre 1787, i deputati della «quadra» — circoscrizione amministrativa rurale — di Iseo, in provincia di Brescia, riferivano della «grandissima desolazione» (8) dei fabbricanti e dei 550 operai. Vi era poi il problema della concorrenza: manifatture di lana erano state introdotte anche nel Regno di Napoli e nelle Romagne e la stessa merce era più conveniente nel vicino Stato di Milano.
Un’altra causa della crisi era che il Regno di Sardegna aveva conquistato ricchi territori: con la pace di Vienna del 1738, dopo la guerra di successione polacca, aveva occupato i distretti di Novara, Tortona e le colline delle Langhe; dopo la pace di Aquisgrana del 1748, al termine della guerra di successione austriaca Voghera, Vigevano e l’Alto Novarese, iniziando una politica di incentivazione dei prodotti locali — tassando fortemente le importazioni — e di concessione di privilegi ed esenzioni, che attiravano molti pastori ed operai specializzati.
L’allevamento del baco da seta e l’industria serica non soffrivano invece della congiuntura. Tuttavia, su tale commercio gravavano tre imposizioni fiscali: una sugli allevatori dei bachi, una seconda sul «fornello» di chi lavorava la seta e, infine, il dazio d’uscita dallo Stato.
Anche l’industria mineraria era in crisi all’inizio del Settecento. Durante tutto il secolo fu in fase di forte recessione l’industria del ferro e la produzione delle armi. A fronte di questa situazione industriale sfavorevole, il governo emanava disposizioni restrittive.
Non si potevano esportare canne da guerra; i mercanti dovevano avere una speciale licenza anche per comperare armi da caccia; gli artigiani delle armi non potevano abbandonare il territorio della Repubblica — la cosa invece avveniva con regolarità e vani erano gli interventi dei capitani per fermare il flusso migratorio.
Era un momento di decadenza di un’arte antica e radicata nelle valli bresciane. Nel 1784 i moschetti usciti dalla manifattura Cominazzi di Gardone Valtrompia non avevano mercato, perché non erano di agevole uso; anche gli acciarini per i fucili venivano rispediti al mittente dall’arsenale di Venezia, che pure reclamava per le canne da pistola a esso fornite nel 1790.

Per quanto concerne l’agricoltura, il territorio era allora ancora abbondantemente coperto da boschi, che arrivavano fino ai margini delle città.

Nel 1767 i lupi infestavano ancora le campagne e uccidevano un giovane di Sorisole. Comunque la regione era fertile e coltivabile. Si producevano biade, gelsi — questi anche in collina e in montagna — e formaggi. Nella seconda metà del Settecento si registrava un progresso, con estensione della coltivazione del granoturco e della vite. Il vino veniva esportato, in quanto la produzione era superiore ai consumi interni.
Nel 1780 veniva introdotta la coltivazione della patata, che si estendeva gradualmente su tutto il territorio, montagna compresa. Tutto ciò, comunque, non si traduceva automaticamente in benessere per tutti, almeno nella provincia di Brescia. Infatti si dovevano registrare anche delle agitazioni popolari a seguito di una carestia, originatasi non per insufficiente produzione agricola — a differenza di quella conseguente alla siccità del 1782 —, ma per scarsità di denaro e per le speculazioni sulla vendita dei prodotti ai paesi confinanti.
Il 1° marzo 1764 i valsabbini, spinti dalla fame, si presentano armati al mercato di Desenzano del Garda e portano via tutto il grano trovato nei magazzini. Il 19 marzo dell’anno successivo i valtrompini scendono a Brescia e, armi in mano, occupano la porta Pile, entrano in città e chiedono grano, che sarà loro consegnato; tuttavia, in seguito, i responsabili del tumulto saranno arrestati e condannati a morte.
Le valli bresciane ricevevano nel giro di poco tempo abbondanti provviste. Il capitano — comandante militare della zona nel 1764 — Francesco Grimani, dopo quei fatti, faceva maggiormente presidiare la rocca e le mura della città. Nonostante i rigorosi controlli, nel 1775 i grani venivano esportati «ad ogni prezzo» negli stati confinanti, dove i raccolti erano stati insufficienti, comprimendo così notevolmente il mercato interno. I paesi più colpiti dal provvedimento erano ancora quelli della Valsabbia e della Valtrompia, da cui scendevano nuovamente gruppi di montanari che attaccavano i mercati.
Così si decise di mettere sui campanili dei paesi situati in pianura delle sentinelle e i comuni si accordavano per inseguire i malfattori, mentre a Brescia erano aumentate le guardie alle mura settentrionali della città.
Subito dopo però si provvedeva a rifornire nuovamente le valli del grano necessario e a un prezzo conveniente. Giovanni Grassi — che fu capitano e podestà a Brescia dal 1782 al 1784 — il 20 luglio 1784 scriveva che la più grave difficoltà era la scarsità di denaro.
La Congrega Apostolica offriva 18.000 ducati per l’acquisto di farina venduta poi ai più poveri a basso prezzo. In quel periodo era molto ridotta la disponibilità di cereali; le scorte in depositi pubblici istituiti in molti paesi erano insufficienti, a causa dei bergamaschi che con offerte allettanti avevano «saccheggiato» i granai; pure i veronesi avevano fatto grossi acquisti a Desenzano del Garda e a Salò; altre esportazioni erano avvenute verso il Tirolo.
Il governo decise di ricostituire i «monti di biade», ossia gli ammassi dei cereali; era ricontrollata, su ordine di Grassi, anche la contabilità del Monte di Pietà, diretto, si diceva, da «infedeli ministri».

Anche nel Bergamasco le industrie erano in decadenza, a causa dalla manifesta inesperienza e incapacità amministrativa dei sindaci: di qui la proposta di riaprire il collegio per l’educazione dei giovani «un tempo illustre», mentre quello dei gesuiti era stato soppresso.
La fiera di sant’Alessandro era la espressione tipica dell’economia bergamasca. Nell’economia bergamasca non va dimenticato il ruolo dei «corrieri bergamaschi». Originari della Valle Brembana — dove nacque l’impresa postale della famiglia Tasso —, si erano costituiti nel 1732 in «Onoranda Compagnia dei Signori Corrieri del numero delli trentadue della Serenissima Repubblica». Diventata appaltatrice di tutti i servizi postali della Repubblica, divenne tanto potente, da versare nel 1794 una cauzione di 100.000 ducati, per assicurarsi durevolmente l’appalto. Un fatto, dagli altissimi costi umani ed economici, sconvolse la vita di Brescia in questi anni.
Nella notte tra il 17 e il 18 agosto 1769 — riportano le cronache —, forse a causa di un fulmine, durante un temporale, esplodevano le polveri custodite nella torre della porta di San Nazzaro: 300 furono i morti; le case vennero danneggiate nel raggio di due miglia; vi fu una grande gara di solidarietà nei soccorsi alle vittime, e nella tristissima circostanza fu manifestata esemplarmente la concordia civica.
Non va trascurata nell’ambito del paragrafo destinato alla situazione economica, la menzione del grave problema sociale determinato dalla soppressione degli ordini religiosi. A causa di essa si era formato un vero e proprio esercito di diseredati, inesperti del vivere nella società civile, facilmente influenzabili perché più acculturati dagli «spiriti forti» seguaci delle mode francesi e dai giansenisti.
Molti di costoro andarono a incrementare il già alto numero dei poveri, verso i quali la sollecitudine caritativa privata e l’ospitalità degli istituti religiosi superstiti si rivelavano insufficienti.

3. L’ISOLAMENTO DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA NEL CONTESTO DELLA POLITICA EUROPEA DEL PERIODO

Per comprendere meglio la fine della Repubblica decisa a Campoformio nel 1797, è fondamentale analizzare brevemente la politica veneziana nel periodo successivo alla pace di Aquisgrana: politica contraddistinta dall’inazione, dalla rassegnazione e dal fatalismo.
Il 9 marzo 1789 diventava doge Lodovico Manin (1726-1802) e Piero Gradenigo, di antica casata veneziana, diceva: «I ga fato dose un furlan, la Repubblica xe morta» («Hanno fatto doge un friulano, la Repubblica è morta») (9).
Il nuovo doge, allarmato dai venti di bufera che stavano per abbattersi sull’Europa, era dominato da un’unica preoccupazione: salvaguardare l’incolumità degli abitanti e l’integrità dei loro beni, salvare la «società» veneta, senza favorire un ceto piuttosto che un altro.
Mentre Paolo Renier (1710-1789), il doge precedente, si poneva il problema della indipendenza, Manin, nei suoi discorsi, non parlava né dell’indipendenza, né della sua difesa. La Serenissima, scrive lo storico contemporaneo Alvise Zorzi (10), gestiva il potere all’insegna della «bonarietà»: vi era un sistema di provvidenze governative per i poveri, la modestia di vita contraddistingueva almeno i quattro quinti del patriziato; i malumori esistenti non potevano trasformarsi in rabbia rivoluzionaria.
Pochi o pochissimi i «rivoluzionari» non episodici, presenti, in particolare, nella nobiltà provinciale della Terraferma, che nel Cinquecento si era schierata con l’Impero al tempo della Lega di Cambrai (1508-1510): parte di questa nobiltà «rancorosa» solidarizzerà con gli invasori francesi, nella speranza di ricuperare il prestigio sociale perduto.
Le plebi stavano col potere centrale, che le difendeva contro le angherie di nobili e di feudatari prepotenti e crudeli — si pensi ad Alamanno Gambara o a Galliano Lechi (1739-1797), «i due banditi più famosi» (11). In Dalmazia vi era una situazione diversa: Venezia era garanzia di difesa contro i turchi e le scorrerie dei pirati adriatici; sincero e profondo era il lealismo di queste terre che offrivano alla Repubblica, da secoli, le migliori forze militari di mare e di terra: le truppe schiavone.
La politica di isolamento era dettata anche dalla speranza di potersela cavare con un’azione diplomatica abile, come ai tempi della Lega di Cambrai. Contro Venezia allora erano schierati il Papa, la Francia, l’Impero, Ferdinando II d’Aragona (1452-1516): nel 1509, sconfitta ad Agnadello — nei pressi di Crema —, la Repubblica stava per soccombere e dovette cambiare politica, alleandosi con lo Stato della Chiesa, il che provocò lo scioglimento della Lega.
Nel 1788 il Senato veneto non accoglieva la proposta di un’alleanza antiturca con Giuseppe II e Caterina II di Russia (1729-1796).
Scoppiata la Rivoluzione francese Antonio Cappello (1736-1830), ambasciatore a Parigi ammoniva che bisognava rompere l’isolamento e cercare alleanze, in quanto la situazione poteva diventare esplosiva.
L’anno successivo il conte Rocco Sanfermo, ministro veneziano a Torino, chiamato nelle cronache, come tutti gli informatori, «zelante circospetto», denunciava le mire francesi sull’intera Europa.
La Francia avrebbe invaso l’Italia per creare un diversivo, sì da fare ritirare le truppe imperiali dal fronte del Reno e per impadronirsi delle ricchezze del nostro paese; inoltre, in Italia esisteva una «quinta colonna» francese, che nel Veneto era particolarmente attiva.
Con la caduta di Maximilien-François-Isidore de Robespierre (1758-1794) e l’avvento del regime di Termidoro — con la fine quindi del periodo del Terrore rivoluzionario nel 1794 — il Senato veneto aveva sperato in un mutamento della politica francese. Jean-Baptiste Lallement, dal 1794 «le resident» di Parigi a Venezia, il 25 febbraio 1795 consegnava alle autorità veneziane due delibere del governo francese: con una — sintetizza Zorzi — si voleva «mantenere la buona intelligenza» e con l’altra «consolidare vieppiù le buone relazioni» (12).
Il Senato inoltre non dava retta alle informazioni allarmate del nuovo ministro veneziano a Torino — il Regno di Sardegna era già in guerra con la Francia fin dal 1792 —, conte Giacomazzi. Luigi Saverio Stanislao di Borbone (1755-1824), fratello del re di Francia Luigi XVI (1754-1793) e futuro re Luigi XVIII, rifugiato a Verona sotto il nome di conte di Lilla, diventava pretendente al trono, es-sendo morti ghigliottinati il re e la regina Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena (1755-1793) e deceduto in carcere il Delfino Luigi XVII (1785-1795).
Lallement protestava per l’asilo concesso al celebre emigrato e il Senato, con 156 voti contro 47, decideva l’espulsione del pretendente al trono di Francia. Nel frattempo, nel gennaio 1796, Venezia celebrava quello che a detta di tutti era il più brioso carnevale del secolo. Con l’invasione francese dell’Italia, come sempre, la Terraferma veneta sarebbe diventata luogo di scontro tra la Francia e l’Impero. Pur con tale prospettiva la Repubblica manteneva l’equidistanza fra i contendenti!
In realtà si trattava di rassegnazione diffusa alla fine imminente. Nel 1796 veniva nominato un Provveditore Straordinario per la Terraferma nella persona di Nicolò Foscarini, poi sostituito da Francesco Battagia, con il compito di coordinare le operazioni necessarie per assicurare la neutralità! Allo scopo Venezia rafforzava i presidi navali e faceva affluire nuove truppe schiavone. Alla perentorietà e all’aggressività di Napoleone Bonaparte la Repubblica rispondeva con la paura e con l’arrendevolezza. I soldati erano messi in condizione di non operare o non si adottavano adeguate misure di difesa. Così i francesi avevano potuto occupare fino dal 30 maggio 1796 porzioni del territorio veneto, spingendosi fino a occupare Verona — che nell’aprile 1797 insorgerà, dando vita alle «Pasque Veronesi» -; le città di Bergamo e di Brescia nel 1797 avevano scacciato i presidi veneti e si erano proclamate repubbliche. Solo il 12 aprile 1797, a Chiari, nei pressi di Brescia, e a Desenzano del Garda, ci sarà un tentativo di resistenza delle truppe della Serenissima contro l’ulteriore avanzata francese.
Il governo era convinto che non si potesse fare nulla per fermare le requisizioni, i furti, le violenze, le devastazioni perpetrate dai francesi nelle zone occupate. In Senato, Tomaso Mocenigo Soranzo affermò che i Savi dovevano studiare qualcosa per fermare i francesi, mentre i Savi risposero che non se ne dovesse neppure parlare, per non provocarli! (13).
Nel settembre 1796, quattro navi inglesi — due di linea e due fregate militari — erano entrate indisturbate nel porto di Venezia, latrici di un «messaggio» secondo cui l’alleanza di Venezia con la Francia avrebbe determinato la reazione della flotta inglese a difesa del porto imperiale di Trieste e della libertà di traffico nell’Adriatico. Un’alleanza veneto-britannica ? Certo avrebbe garantito almeno la sopravvivenza del «dominio da mar».
Ma la Francia non voleva — almeno per il momento — la distruzione della Serenissima. Il Direttorio parigino, alla precisa domanda se fosse conveniente per la Francia instaurare in Italia una sola o più repubbliche, rispondeva: «Decidé à la negative» (14).
E la Repubblica Transpadana, costituita nel maggio 1796, e la Repubblica Cispadana, creata il 27 dicembre 1796, e la Repubblica Cisalpina, eretta il 29 giugno 1797? La loro creazione fu la conseguenza di una necessità. Isolato con i suoi soldati, in vasti territori in preda all’insorgenza contadina, il 2 ottobre 1796, Napoleone Bonaparte scriveva al Direttorio: «Ho bisogno di un governo che mi sia devoto» (15).
Francesco II (1768-1835), l’imperatore d’Asburgo, scriveva che se la Francia voleva il Belgio, l’Austria avrebbe chiesto quale indennizzo la Repubblica di Venezia (16). Napoleone Bonaparte era stretto fra le pressioni del Direttorio, che lo incitava a raggiungere Vienna, e la sua convinzione di essere in una situazione militare difficilissima.
La sua idea — da concretizzare prima di un possibile rovescio militare — era di firmare una pace con l’Austria sconfitta, anticipando l’arrivo di Henri Jacques Guillaume Clarke (1765-1818), il negoziatore ufficiale mandato dal Direttorio; ottenere le province belghe e dare all’Austria i territori della Repubblica veneziana. Con questa prospettiva avviava i colloqui di pace a Leoben in Stiria, il 18 aprile 1797, e concludeva gli accordi di Campoformio, in Friuli, il 17 ottobre 1797. Il 15 aprile 1797 il barone Johann Amadeus Franziskus de Paula Thugut (1736-1818), primo ministro imperiale, dava le istruzioni ai plenipotenziari imperiali: i territori veneziani, eventualmente offerti a titolo di risarcimento per la perdita di altri, andavano accettati certamente, ma prima la Repubblica Dominante avrebbe dovuto fare un atto di cessione dei medesimi alla Francia.
Il 7 aprile 1797 il Direttorio mandava a Napoleone Bonaparte una lettera, in cui prescriveva che in Italia Settentrionale bisognasse formare uno Stato — democratico naturalmente, ma coi governanti nominati dal capo dell’Armée —, che fosse un sicuro cuscinetto di protezione per i territori francesi.
I «preliminari di pace» di Leoben contenevano una clausola segreta: tutta la Terraferma veneta, meno i territori che sarebbero entrati a far parte della Repubblica Cisalpina, passavano all’Austria, cosa che non era stata stabilita dal Direttorio. Napoleone Bonaparte aveva capito che era indispensabile assecondare l’imperatore.
L’Armée si era spinta troppo innanzi per ritirarsi ed era però troppo debole per conquistare Vienna: il «dono» di Venezia pareva lo strumento più idoneo. Per questo, bisognava però esautorare il governo aristocratico veneto e sostituirlo con uno strettamente dipendente dai francesi.
A tale scopo si attivava il nuovo agente francese a Venezia, Joseph Villetard, spalleggiato dai giacobini locali — in particolare dall’ex appaltatore dei dazi Andrea Spada e dal grossista di zuccheri Tommaso Pietro Zorzi. Il 1° maggio 1797 si riuniva il Maggior Consiglio, che con 598 voti favorevoli, contro 14 astenuti e 7 contrari, decideva di autorizzare i deputati a discutere il cambiamento della forma di governo.
Il giorno 12 maggio, in nuova riunione del Maggior Consiglio, pur mancando il numero legale — 537 membri su 600 erano richiesti nel caso di decisioni gravi — si deliberava che «[...] questo Maggior Consiglio [...] adotta il sistema del proposto provvisorio rappresentativo governo, sempre che con questo si incontrino i desiderii del generale medesimo» (17).
Il risultato fu 512 voti a favore, 30 contrari e 5 astenuti. Il 13 maggio 1797 veniva proclamata la Repubblica democratica di Venezia. Un decreto del Maggior Consiglio spiegava il «suicidio» della Repubblica.
Il potere, avuto dal popolo — secondo le teorie contrattualistiche del secolo —, era restituito al popolo, perché il Maggior Consiglio stesso era convinto di non poter più operare per il bene della gente.
Si trattava di una formula che garantiva la continuità della Repubblica, ma che rifiutava la identificazione della medesima con ogni forma di aristocrazia. Napoleone Bonaparte ordinava subito al generale Louis Baraguey d’Hilliers (1764-1813) di entrare in Venezia con le truppe francesi. I rappresentanti della Municipalità votavano all’unanimità l’unione alla Repubblica Cisalpina ed indicevano un plebiscito di ratifica per il 28 ottobre 1797. Quel giorno nelle parrocchie di Venezia si votò per il nuovo consiglio della Repubblica sotto la vigilanza della guardia nazionale. Una pallina bianca immessa nell’urna significava rispondere «sì» alla domanda «Se il popolo di Venezia voglia attendere, nell’oscurità e nel silenzio, il destino che lo minaccia» (18), mentre una pallina verde significava dare parere affermativo al quesito «Se giurar voglia di sostenere la libertà della sua patria, de’ suoi figli, e della sua posterità» (19). Risultato: votanti 23.568, di cui 10.843 per l’attesa «nella oscurità e nel silenzio», 12.725 per «sostenere la libertà». Il plebiscito a favore della democratizzazione vinceva dunque con 1.900 voti di differenza. I corrieri che erano partiti per Milano per portare i risultati venivano fermati dai francesi e rimandati a Venezia.

Paolo Martinucci

Note

(1) Cit. in MONSIGNOR CARLO CASTIGLIONI, La vita ecclesiastica nei suoi atteggiamenti, in AA.VV., Milano napoleonica, Edizioni Amici del Museo del Risorgimento, Milano 1950, p. 128.
(2) Cfr. AA.VV., Storia di Brescia, Fondazione Treccani degli Alfieri-Morcelliana, Brescia 1961, vol. III, La dominazione veneta (1576-1797), p. 191.
(3) Cfr. BORTOLO BELOTTI, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, Ceschina, Milano 1959, vol. II, p. 584.
(4) Cfr. AA.VV., Storia di Brescia, cit., p. 193.
(5) Cit. in FRANCO VALSECCHI, Dispotismo illuminato, in Nuove Questioni di Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, 2 voll., Marzorati, Milano 1961, vol. I, p. 211.
(6) Cfr. RAIMONDO LURAGHI, Politica, economia e amministrazione nell’Italia napoleonica, in Nuove Questioni di Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, 2 voll., Marzorati, Milano 1961, vol. I, p. 347.
(7) Cfr. CARLO ZAGHI, L’Italia giacobina, UTET Libreria, Torino 1989, p. 19.
(8) Cfr. AA.VV., Storia di Brescia, cit., p. 144.
(9) Cit. in ALVISE ZORZI, La Repubblica del Leone, Rusconi, Milano 1979, p. 483.
(10) Cfr. ibid., pp. 484-487 passim.
(11) AA.VV., Storia di Brescia, cit., p. 122.
(12) A. ZORZI, op. cit., p. 489.
(13) Cfr. ibid., p. 496.
(14) Cit. ibid., p. 500.
(15) Cit. ibid., p. 501.
(16) Cfr. ibid., p. 504.
(17) Cfr. ibid., p. 523.
(18) Cit. ibid., p. 556.
(19) Cit. ibid., p. 557.


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