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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 21 febbraio 2009


Ángel David Martín Rubio

Significato nazionale e controrivoluzionario del «Dos de Mayo»

Saragozza non si arrende, dipinto di Jules Girardet (1856-1938)
Victoria & Albert Museum, Londra


1. Una considerazione sul «senso nazionale» che ebbe il 2 maggio 1808 (1), ossia su quanto questa data ha aggiunto all’identità spagnola, può partire dalla seguente affermazione: il risultato di questo episodio storico non si limita a quanto è accaduto in tale data. Il 2 maggio si sarebbe ridotto a una gloriosa benché sterile ribellione contro il dispotismo di Napoleone, se non avesse avuto la capacità di avviare un duplice processo: una trasformazione politica, iniziata mediante la costituzione di «giunte», prassi normale nella Spagna di antico regime in momenti di crisi politica e, pertanto, di natura per niente rivoluzionaria; e una guerra d’indipendenza, la cui importanza al fine di provocare il collasso del progetto napoleonico non è necessario sottolineare in questa sede.

2. Anche se nel 2 maggio e nella guerra che scoppiò allora esistette un elemento causale che potremmo chiamare d’«indipendenza nazionalista», nel senso di volontà di auto-affermazione di fronte allo straniero, a mio giudizio non si trattò del fattore decisivo. È certo che i madrileni furono presi allora da un rabbioso impulso di rivolta quando si accorsero drammaticamente che erano i francesi a determinare la vita politica spagnola. «Per loro, come giustamente ha segnalato Lovett (2), la Spagna era il miglior Paese del mondo, le spagnole le più belle fra le donne, la loro religione l’unica autentica e il loro monarca il migliore dei re. Un popolo così profondamente orgoglioso e contento di sé stesso difficilmente poteva essere dominato da una nazione straniera» (3). Senza dubbio, non è meno certo che la Francia da anni andava determinando la politica spagnola, ma ciò non destava la minima preoccupazione in persone come Manuel Godoy Álvarez de Faria Ríos Sánchez Zarzosa (1767-1851) – già primo ministro dal 1792 al 1808 –, che vedeva rafforzata così la sua politica. «La Spagna – scriveva –, fra tutte le nazioni vicine alla Francia, è stata l’unica che lungo quindici anni consecutivi di scossoni violenti, mentre si vedevano gli imperi e i regni frastornati, scossi fin dalle fondamenta, mutilati delle loro province, rimase in piedi, conservando i suoi Principi legittimi, la religione, le leggi, le abitudini, il diritto e il completo possesso dei suoi vasti domini in entrambi gli emisferi» (4). E i francesi erano anche i «centomila figli di San Luigi» ricevuti con entusiasmo nel 1823 per far fronte ai rivoluzionari che erano insorti in caccia del potere durante il cosiddetto «Triennio liberale».

3. Non siamo, quindi, solo di fronte a una guerra «antifrancese», ma anche davanti a una guerra contro la «fase imperiale» della Rivoluzione francese, così come quella combattuta nel 1793-1795 contro la Repubblica rivoluzionaria era stata una guerra contro la fase «giacobina» di tale Rivoluzione. Il «bonapartismo» – nome che deriva da quello del Côrso – indica storicamente qualunque processo rivoluzionario quando entra nella sua fase di «istituzionalizzazione» e le guerre napoleoniche non sono una semplice espansione nazionalista, ma la diffusione a livello europeo dei principi «giacobini».

Si spiega così che, per la stragrande maggioranza degli spagnoli, la Guerra d’Indipendenza del 1808-1813 fu una «guerra di religione» contro le idee eterodosse del XVIII secolo diffuse dalle legioni napoleoniche. Da qui derivano altresì l’attivismo della gerarchia ecclesiastica e la sua partecipazione operosa all’insurrezione e alla guerra contro i francesi.

Basta ricordare la deliberazione dell’ottantenne vescovo di Coria, nell’Estremadura, Juan Alvarez de Castro (1724-1809) d’incoraggiare e di sostenere lo sforzo dei suoi diocesani nella guerra. La sua azione venne stroncata nell’arco di appena un anno, poiché la vendetta francese pose fine a quello che non era altro che un brillante punto di arrivo di un percorso coerentemente iniziato in precedenza. Infatti, quando era scoppiata la guerra degli spagnoli contro i rivoluzionari come conseguenza dell’esecuzione di Luigi XVI, il vescovo aveva scritto una pastorale ai suoi diocesani affinché aiutassero l’esercito spagnolo. Dopo l’inizio della rivolta del maggio 1808 contro i francesi mons. Alvarez de Castro invitò il suo capitolo a contribuire al sostentamento delle truppe e, dopo aver ottemperato agli obblighi dell’episcopato, destinò le residue entrate alle spese della campagna militare e ordinò preghiere pubbliche per il trionfo dell’esercito spagnolo (14 giugno 1808); il 23 giugno esortò a rispondere al bando di reclutamento che la Giunta Suprema di Governo della sua provincia aveva proclamato. Secondo il presule tutti i fedeli dovevano prestare un giuramento nelle loro parrocchie davanti al Santissimo Sacramento esposto: in primo luogo dovevano giurare gli ecclesiastici, che avrebbero poi dovuto spiegare al popolo, riunito in un giorno prestabilito di comune accordo fra i sacerdoti e le rispettive Giunte, i doveri contenuti nella formula impiegata: «Giuriamo e promettiamo al Divino Signore Sacramentato di mantenere la più perfetta unione, rispetto e venerazione alla Giustizia, di dimenticare per sempre con tutto il cuore i sentimenti personali, di difendere la nostra Santa Religione, il nostro amato Sovrano e Signore don Ferdinando VII e le proprietà, fino allo spargimento delle ultime gocce del nostro sangue» (5). La ripercussione di queste pastorali e circolari del vescovo dentro e fuori la diocesi fu grande. L’Estremadura insorse come un sol uomo e le sue catene montuose diventarono a lungo impenetrabili per gli eserciti napoleonici. Il prelato promise, in nome di Dio, la beatitudine eterna a coloro che fossero morti per la patria; diede alla causa tutto quello che possedeva; le sue chiese si impoverirono; consegnò i propri gioielli per essere fusi; e i suoi granai rimasero aperti… Quando un esercito francese, guidato dal maresciallo Nicolas Jean-de-Dieu Soult (1769-1851), s’impossesserà di Plasencia e il 13 agosto 1809 entrerà in Coria, si riseppe quanto il vescovo di Coria aveva contribuito allo sforzo bellico, così come che si era rifugiato a Hoyos. Il 29 agosto uno squadrone francese arrivò fin là, tirerà giù dal letto il venerabile prelato – che, oltre ai problemi dell’età, si trovava assai debilitato e in pericolo di morte – e dopo che fu caduto per terra, gli sparò due colpi di fucile, non senza aver prima saccheggiato la casa e provocato la morte di uno degli anziani che si erano lì rifugiati, ferendo uno dei familiari e altri cinque anziani.

Esempi simili si potrebbero moltiplicare. È assai noto il racconto di Marcelino Menéndez Pelayo (1856-1912): «La resistenza si organizzò, quindi, democraticamente e alla spagnola, con quel federalismo istintivo e tradizionale che nasce nei grandi pericoli e nei grandi capovolgimenti, e fu, come si poteva sperare, ravvivata e infervorata dallo spirito religioso, che viveva integro per lo meno negli umili e nei piccoli, e venne capeggiata e diretta in gran parte da frati. Di ciò danno testimonianza la dittatura di p. Rico a Valencia, di p. Gil a Siviglia, di fra’ Mariano di Siviglia a Cadice, di p. Puebla a Granata e del vescovo Menéndez di Luarca a Santander. La Vergine del Pilar animò lo sforzo degli abitanti di Saragozza e i gironesi si posero sotto la protezione di san Narciso; nella mente di tutti, a parte lo scarso numero dei cosiddetti liberali che per encomiabile incoerenza smisero di "infrancesarsi", quella guerra, sia guerra spagnola sia guerra d’indipendenza, era in realtà una guerra di religione contro le idee del XVIII secolo diffuse dalle armate napoleoniche. Com’è certo che in quella guerra l’alloro più alto spettò a ciò che il suo coltissimo storico, il conte di Toreno (6), con il suo aristocratico disprezzo di insigne dottrinario, definisce straordinaria demagogia, pezzentemente e fratescamente superstiziosa e assai ripugnante! Peccato che senza questa demagogia così maleodorante, e che tanto dava sui nervi all’illustre conte, non sarebbero state possibili né Saragozza né Girona!» (7).

Né mancherà la giustificazione teologica dello sforzo. Come scrisse padre Rafael Vélez nel 1813: «La stessa religione ha dato forza alle nostre truppe per vendicare gli insulti che hanno patito dai francesi nella nostra terra. Essa ha rinfrancato la nostra debolezza quando si vide che stavamo per essere privati del culto: ci ha messo in mano le armi, per resistere all’aggressione francese, che al tempo stesso attaccava il trono e distruggeva l’altare. La religione ci ha condotto nei suoi templi, ha benedetto le nostre armi, ha dichiarato solennemente guerra, ha santificato i nostri soldati e ci ha fatto giurare ai piedi delle sante are, alla presenza di Gesù Cristo nel Sacramento e della sua Santissima Madre nelle sue chiese, di non abbandonare le armi fino alla distruzione totale dei piani della filosofia della Francia e di Napoleone contro il trono dei nostri re e contro la fede della nostra religione» (8). «Tutta la Spagna riuscì a convincersi che se avesse dominato la Francia avremmo perso la nostra fede. Fin dall’inizio questa guerra fu chiamata guerra di religione: gli stessi sacerdoti presero le spade e persino i vescovi si posero alla giuda delle truppe per incoraggiarli a battersi» (9).

Benché sia certo che nel 1808 si realizza lo smantellamento di una struttura politica che nelle sue forme esistenti era stata incapace di far fronte alla crisi che va dalla rivolta di Aranjuez (17 marzo 1808) alle abdicazioni di Bayona (5 maggio 1808) e all’invasione francese, non mi sembra che questo debba avere un significato politico, ma solo un senso eminentemente bellico. La crisi politica dell’antico regime in Spagna non è una conseguenza naturale del 2 maggio, bensì dello svolgimento di eventi di carattere militare in cui agiranno come meccanismo scatenante le Cortes di Cadice, un organismo in cui si rilevano in primo luogo il carattere nettamente innovatore delle decisioni, con pochissime concessioni alla corrente tradizionale. Federico Suárez ha definito «innovatori» i membri del gruppo che pretendeva di adottare il modello rivoluzionario francese, più o meno moderato e più o meno tradotto in spagnolo, ma dal quale necessariamente sarebbe risultato un regime ex novo, cioè i liberali (10). Quindi, la perfetta omogeneità del programma, imposto con assoluta consequenzialità dall’inizio alla fine. Sembra chiaro che gli innovatori, senza essere la maggioranza, seppero prendere in ogni momento l’iniziativa, presentarono piani più articolati e completi e dominarono la variegata folla di quelli che non la pensavano come loro.

4. Sul terreno religioso i liberali si mostrarono continuatori della corrente giansenista-regalista e, mentre il popolo combatteva per la fede e la Costituzione proclamava la confessionalità dello Stato e l’unità cattolica – articolo 12: «La religione della Nazione spagnola è e sarà perpetuamente quella cattolica, apostolica, romana, unica autentica. La Nazione la protegge con leggi sagge e giuste e proibisce la pratica di qualsiasi altra» –, i deputati favorivano la creazione di un ambiente pubblico in cui – al riparo della libertà di stampa e con un linguaggio spudorato e ironico – nei loro periodici i liberali disonoravano il clero e la religione. Nessuno, tuttavia, arrivò a superare in fama Bartolomé José Gallardo (1776-1852), il quale dall’aprile del 1812 suscitò un clamoroso scandalo con il suo Diccionario crítico burlesco, pieno di irriverenze volterriane al limite della bestemmia (11). Basta citare in quale considerazione sono tenuti i religiosi, contro i quali il liberalismo sparerà tute le sue bordate di artiglieria negli anni successivi: «[…] Sono sempre stati la peste della repubblica […] sia nel secolo scorso sia in quello presente; ciononostante, per evitare grattacapi, non sono mai stati, da cent’anni fino ad oggi, come certe categorie di persone che gridano e strillano a favore dell’ispanità quando si tratta di diritti, senza mai parlare dei doveri. Sono animali immondi che, non so se è perché generalmente si danno ai vizi, emanano una puzza o un tanfo che ha un nome particolare, che trae origine da loro stessi: si chiama "fratesco". Questo odore, tuttavia, che è insopportabile per noi uomini, pare che allo stesso tempo sia molto gradito all’altro sesso, specialmente alle bigotte, perché fa meraviglie contro l’isteria.

Conosco un dottore, uomo di singolare talento, che aveva scritto in forma di romanzo un’opera di linea classica sull’istinto, l’ingegno, le inclinazioni e le abitudini di tutti gli animali buoni e cattivi del genere fratesco che si danno sul nostro suolo. Se questo libro pregevole, diverso dalla Monacologia latina (12), fosse stato pubblicato anni fa in Spagna, avrebbe potuto essere di somma utilità per la religione e per i buoni costumi; ma già quando vedesse la luce, se mai la vedrà, lo considererei inutile e impertinente, perché non sarà uscito a tempo; perché al loro passaggio tutte queste categorie di animali nocivi periranno, finché non rimarrà anima viva; per la ragione irrefutabile per cui stanno togliendo loro il cibo, e ogni animale, qualunque esso sia, vive di ciò che mangia. Ovvero: tolgono loro anche le tane, in modo che restino come insetti in un sottobosco bruciato. Poveri animali di Dio! Vederli camminare trascinandosi, squamarsi come i serpenti, storditi e senza sapere dove proteggersi è una cosa che fa spezzare il cuore. Oh tempora!».

Ci si sorprenderà, dunque, se nella Spagna liberale, con un’ideologia imperante cullata dalla cantilena di concetti così affascinanti come quelli affermati delle Cortes di Cadice, vi saranno massacri di frati? A suo tempo l’assemblea di Cadice si dedicò a promuovere iniziative quali l’espulsione del vescovo di Orense, Pedro de Quevedo y Quintano (1776-1818), la soppressione del cosiddetto «Voto di Santiago» – un contributo pagato dai contadini di alcune regioni al capitolo compostelano –, l’abolizione dell’Inquisizione, la riforma dei conventi, l’abolizione della manomorta, l’espulsione nel nunzio pontificio card. Pietro Gravina Moncada (1742-1830)…

Nella reazione dottrinale assumerà particolare rilievo la pastorale del 12 dicembre 1812, un’Istruzione collettiva volta a orientare dottrinalmente i fedeli, emessa da sei vescovi i quali, per sfuggire agli abusi degli eserciti napoleonici e alla pressione della legalità imposta da Giuseppe I Bonaparte (1768-1844) nei territori delle diocesi sottomessi alla loro giurisdizione, si erano rifugiati a Majorca. Il testo ha come data di stampa quella del 1813 e i suoi quattro capitoli trattano de La Chiesa oltraggiata nei suoi ministri, La Chiesa combattuta nella sua disciplina e nel suo governo, La Chiesa travolta nella sua immunità e La Chiesa attaccata nella sua dottrina. Nell’analisi di questo documento Román Piña conclude che: «senz’alcun dubbio è la prima dimostrazione di uno scontro aperto fra un parlamento considerato depositario della sovranità nazionale e un settore importante della gerarchia ecclesiastica del Paese, che vede in pericolo tanto i diritti e le prerogative della Chiesa quanto l’influenza o il peso sociale dei valori religiosi che difende» (13).

5. Sulla base di quanto è stato esposto si possono trarre alcune conclusioni. La prima verte sul radicamento nel passato del secolare conflitto che attraversa la storia contemporanea spagnola, che non è qualcosa di congiunturale o il risultato di problemi più o meno pratici – per esempio una semplice querelle dinastica. La seconda, evidenzia l’incapacità del liberalismo spagnolo di strutturare un processo di modernizzazione economica e di partecipazione politica che risale alle sue origini le quali coincidono con un modello basato sui propri interessi e non sulle rivendicazioni più autentiche della nazione. L’assenza delle tante volte ripetute libertà e uguaglianza nei pochi sistemi politici della Spagna del XIX secolo e degl’inizi del XX, rende appena necessario ricorrere alla critica filosofico-teorica per demolire polemicamente il liberalismo spagnolo. Ancora, si segnala la stretta relazione fra ortodossia politica e ortodossia religiosa e l’impossibilità pratica di perseverare nella seconda quando essa non è coerente con la prima. Per «eterodossia politica» intendo l’eterodossia di tutti coloro che di fatto negano la dimensione teologica nell’agire politico, di coloro che, adottando politicamente un criterio puramente meccanicistico, si rifiutano di riconoscere le esigenze etiche dell’agire politico, considerano la religione come un assunto valido per gli atti di valore personale e non valido per quelli a dimensione sociale. Infine, l’esistenza – benché ancora minoritaria – di un episcopato e di un clero «infrancesati» e collaborazionisti, e anche gl’indecorosi intenti di riconciliare il liberalismo con la Chiesa messi in pratica più tardi, mettono in evidenza la liceità e la necessità di una resistenza sul terreno culturale e politico fondata religiosamente, nonostante l’opposizione di qualche ecclesiastico, per quanto elevata sia la sua posizione.

Ángel David Martín Rubio


Note

(1) Il 2 maggio 1808 scoppiò a Madrid una grande rivolta popolare contro il governo della Spagna completamente dominato da Napoleone Bonaparte. Con questa rivolta si apre la vicenda storica, che durerà sei anni, della grande e sanguinosa guerra di liberazione, d’indipendenza e contro-rivoluzionaria che gli spagnoli combatteranno, con l’appoggio inglese, contro l’occupazione francese del loro suolo patrio, in difesa del loro re, delle loro antiche libertà e della Chiesa cattolica, realtà tutte radicalmente aggredite dall’espansionismo dei principi dell’Ottantanove imposti in tutta Europa dalle baionette dell’Armée. Si tratta forse del più ingente duraturo fenomeno di insorgenza popolare contro-rivoluzionario del periodo napoleonico: di esso nel 2008 è ricorso il secondo centenario (ndr).
(2) Cfr. Gabriel H. Lovett, Napoleón and the birth of modern Spain, 2 voll., University Press, New York 1965.
(3) Alfonso Bullón de Mendoza, in Francisco Javier Paredes Alonso (a cura di), España. Siglo XIX, Actas, Madrid 1991, p. 64.
(4) Manuel Godoy, Memorias del Príncipe de la Paz, 2 voll., BAE, Madrid 1956, vol. I, pp. 14-15.
(5) Cit. in Miguel Ortí Belmonte, Episcopologio Cauriense, Deputazione Provinciale di Cáceres-Servizi Culturali, Cáceres 1959, p. 157.
(6) Cfr. José Maria Toreno Queipo De Llano y Ruiz de Saravia (1786-1843), Storia della sollevazione, guerra e rivoluzione della Spagna, trad. it., Angelo Bonfanti, Milano 1838.
(7) Marcelino Menéndez Pelayo, Historia de los heterodoxos españoles, BAC. Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1978, libro VII, cap. 1 (consultato su <http://www.cervantesvirtual.com>, 21-6-2008).
(8) Fray Rafael de Vélez (1777-1850), Preservativo contra la irreligión o los planes de la filosofia contra la religión y el Estado, realizados por la Francia para subyugar a la Europa, seguidos por Napoleón en la conquista de España, 2ª ed. accresciuta, Ibarra, Madrid 1812, p. 100.
(9) Ivi, ibid., p. 110 (consultato su <http://www.books.google.es>, 21-6-2008).
(10) Cfr. Federico Suárez, La crisis política del Antiguo Régimen en España (1808-1840), Rialp, Madrid 1988, passim.
(11) Cfr. Bartolomé José Gallardo, Diccionario crítico-burlesco del que se titula «Diccionario razonado manual para inteligencia de ciertos escritores que por equivocacion han nacido en España», Pedro Beaume, Burdeos 1819; cfr. anche <www.cervantesvirtual.es>.
(12) Cfr. [Ignaz von Born (1742-1791),] La monacologia, ossia descrizione metodica de’ frati di Giovanni Fisiofilo, nell’italica favella recata da C. B. [scil. Carlo Botta (1766-1837)], trad. it., Dai tipi filantropici, Eridania [ma Torino] anno IX (1801 ca.).
(13) Román Piña Homs, Parlamentarismo y poder eclesiástico frente a frente: la Instrucción Pastoral conjunta de 12 de diciembre de 1812, in Estudios de Historia Moderna y Contemporánea. Homenaje a Federico Suárez Verdeguer, Rialp, Madrid 1991, pp. 404-405.


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