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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale





Oscar Sanguinetti

«ALTAMURA. LA STRAGE DELLE INNOCENTI». UN FALSO STORICO CONTRO L’INSORGENZA ITALIANA


1. IL FATTO

Il Corriere della Sera di mercoledì 17 febbraio 1999 ha pubblicato con ampio risalto sulla prima delle sue pagine culturali un articolo di Maria Antonietta Macciocchi dal titolo Altamura. La strage delle innocenti (1).

Nell’articolo è narrato un fatto di sangue che sarebbe accaduto duecento anni or sono, nel corso della guerra civile che nella prima metà del 1799 vide contrapposte le popolazioni del Regno di Napoli — inquadrate in gran parte nell’esercito della Santa Fede, guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo dei duchi di Baranello (1744-1827), vicario generale di re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) — e i rivoluzionari francesi, affiancati dalle milizie della giacobina Repubblica Napoletana, proclamata il 21 gennaio dello stesso anno. Secondo la studiosa, le truppe sanfediste avrebbero perpetrato, nel corso del saccheggio seguito all’espugnazione della città pugliese di Altamura, roccaforte giacobina, nel maggio 1799, lo «stupro di massa» e il massacro di quaranta religiose di clausura, di cui non viene specificato l’ordine di appartenenza, ma che sarebbero orsoline, secondo le fonti di cui si è avvalsa.

2. LA NARRAZIONE

Maria Antonietta Macciocchi nasce il 22 luglio 1922 a Isola del Liri, in provincia di Frosinone; nel 1942 aderisce al Partito Comunista Italiano e nel 1950 si laurea in storia dell’arte all’Università La Sapienza di Roma. Sposa il giornalista Alberto Jacoviello, dal quale poi divorzierà. Dal 1956 al 1961 dirige il settimanale comunista Noi donne e dal 1961 al 1968 la rivista, sempre comunista, Vie nuove; è quindi corrispondente de l’Unità, l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, da Algeri, da Bruxelles e da Parigi. Nel 1968 è eletta deputata nelle file del PCI. Nel 1971 entra in dissenso con la linea ufficiale del partito, che di conseguenza non la ricandida al Parlamento. Nel 1972 si trasferisce a Parigi, dove consegue il dottorato in scienze politiche alla Sorbona e ottiene un lettorato all’università di Parigi VIII a Vincennes. Nel 1977 lascia il PCI e aderisce al Partito Radicale, nelle cui liste è eletta nel 1979 sia alla Camera dei Deputati, sia al Parlamento Europeo. È ancora parlamentare europea dal 1984 al 1989 con la Sinistra Indipendente. Collabora attualmente con i quotidiani Corriere della Sera, Le Monde, di Parigi, e El País, di Madrid. È promotrice della Convenzione di Venezia degli intellettuali europei e nel 1986 riceve dal governo francese l’Ordre des Arts et des Lettres. Ha pubblicato una quindicina di libri — per lo più su temi interni al movimento rivoluzionario italiano ed europeo —, gli ultimi dei quali dedicati alle due maggiori esponenti femminili della Repubblica Napoletana, Eleonora de Fonseca Pimentel (1752-1799) e Luisa Sanfelice (1764-1800), entrambe vittime della «ferocia misogina dei crocesegnati», ovvero dei sanfedisti (2).

Prendendo spunto dal clamore suscitato da una sentenza della Corte di Cassazione relativa a un caso di stupro e sfavorevole alla vittima — sentenza definita senza mezzi termini «sgangherata e beffarda» —, la scrittrice introduce il tema, connesso al primo, del duecentesimo anniversario dei moti repubblicani di Altamura, del quale sono in corso rievocazioni da parte di un comitato locale, e di uno «stupro di massa consumato dalle bande dei sanfedisti contro le suore di clausura del Monastero del Soccorso» di quella città. L’iniziativa nasce dalla scoperta fortuita, nel fondo Ginguené (3) della Biblioteca Richelieu di Parigi, del diario manoscritto relativo al saccheggio della città pugliese, in cui l’episodio dello stupro sarebbe narrato con efferati particolari. L’episodio sarebbe divenuto oggetto dell’attenzione della scrittrice non solo perché giudicato particolarmente grave e odioso e perché ne ricorre il secondo centenario, ma anche in quanto suonerebbe come l’ennesima conferma della tesi femminista secondo cui la violenza sessuale sulle donne, e in generale l’oppressione dell’elemento femminile, sarebbero un dato strutturale della società occidentale, da cui le interessate dovrebbero emanciparsi attraverso un’azione politica e sociale organizzata. Secondo questa prospettiva, lungo i secoli si sarebbe attuato un ininterrotto «martirio delle donne», di cui sarebbero responsabili non soltanto il maschio uti singulus, ma anche e soprattutto le leggi, il «sistema», ovvero le istituzioni sociali e religiose. Alla radice di tale oppressione plurisecolare sarebbe una ideologia «maschilista», misogina e illiberale, che risalirebbe in ultima analisi alla cultura e alla mentalità cattoliche — o, forse, a una concezione del cristianesimo «deviata» in quanto istituzionalizzata — e al potere esercitato dalla Chiesa sulle coscienze. Questa mentalità sarebbe particolarmente radicata in correnti ideologiche considerate come avverse pregiudizialmente alla modernità, di cui il sanfedismo sarebbe l’estrema manifestazione (4). La figura del cardinale Ruffo (5) e quella di re Ferdinando IV di Borbone, che rappresentano rispettivamente il «sacerdozio» e il «dispotismo», ovvero i due cardini della repressione istituzionale, vengono così percepite come gli emblemi della più bieca repressione anti-femminile. La responsabilità del «martirio» di Altamura e delle esecuzioni di numerosi «patrioti», vittime della giustizia borbonica dopo la caduta della Repubblica Napoletana — in particolare le donne, due volte martiri, della libertà e della condizione femminile —, viene attribuita in ultima istanza alla Chiesa e al Papa. Pertanto la Macciocchi, che pure si dichiara favorevole alla «rievangelizzazione del mondo» — che equivarrebbe curiosamente solo a «una Chiesa riconciliata con il Vangelo» e non a un mondo riconciliato con la Chiesa, quindi con il Vangelo —, si sente autorizzata a domandare pressantemente a Papa Giovanni Paolo II, definito un «Papa colossale» (6), di aggiungere l’eccidio delle «innocenti» di Altamura alla lista degli atti di contrizione che la Chiesa sarebbe prossima a compiere in occasione del Giubileo dell’anno 2000. Questo gesto, inoltre, dovrebbe essere accompagnato dalla condanna ufficiale del cardinale calabrese, reo di aver insignito del nome di «Esercito della Santa Fede un’accozzaglia di assassini e di stupratori», troppo a lungo «difeso da una fitta rete di complicità che passa per gli intellettuali borbonici, i fascisti e persino la Chiesa». La condanna dovrebbe essere estesa a re Ferdinando IV «[...] che allagò del sangue delle sue vittime tutta Napoli».

3. CONSIDERAZIONI STORICHE

L’episodio di Altamura e il modo con cui è affrontato dalla Macciocchi si prestano ad alcuni rilievi, sia sul piano della verità dei fatti — ovvero sul piano storico, con la sua premessa di metodologia storiografica —, sia su quello politico ed etico in generale. Va premesso che la Macciocchi aveva già fatto menzione tanto delle suore di Altamura — senza però citare come fonte il diario anonimo parigino, che peraltro avrebbe già dovuto conoscere —, quanto del mea culpa cattolico nella sua opera su Luisa Sanfelice, pubblicata nel 1998 (7).

3.1. Le fonti a disposizione

Sotto il profilo storico, il fatto rievocato — oltre a essere tutt’altro che inedito — poggia su basi molto fragili, se non del tutto inesistenti. Non risulta infatti dalla stragrande maggioranza delle fonti che vi sia stato ad Altamura nel 1799 un eccidio di religiose, tanto meno con le modalità particolarmente efferate denunciate. L’unico dato certo è che ad Altamura vi sono stati un assedio e una battaglia, culminati con l’espugnazione della città murata da parte dei «crociati» e con il saccheggio — non esente da tutte le intuibili forme di violenza privata proprie della rappresaglia —, che venne peraltro temperato proprio dal cardinale Ruffo e dai suoi ufficiali. Inoltre, non risulta che esistano rami claustrali delle orsoline, né che vi sia mai stato un convento di tale ordine in città.

Queste riserve sono state espresse da uno storico di Altamura, Giuseppe Castelli — i cui antenati furono fra i difensori della città in occasione dell’assedio sanfedista del 1799 —, che in un articolo sul quotidiano Avvenire ha precisato che dall’abbondante documentazione esistente — fra cui tutto quanto pubblicato in occasione del primo centenario dei fatti, non escluse le dichiarazioni di testimoni oculari, raccolti molti anni prima — non risulta alcun fatto nei termini riferiti dalla Macciocchi (8).

Fra le fonti disponibili figurano non poche cronache locali del tempo, anzitutto i resoconti di Gian Carlo Berarducci (1762-1837) e del sacerdote Vitangelo Bisceglia (1749-1817), pubblicati dallo storico Giuseppe Ceci (1863-1938) nel 1900 (9). Il primo, più laconico, si limita ad affermare che nel sacco di Altamura «si contano [...] due monache, una morta e l’altra ferita» (10); il secondo precisa che «[...] il cardinale Ruffo, per risparmiare le claustrali dalle violenze, ordinò che fossero uscite [sic] dalla città, ed avessero occupata la casa di Montecalvario, dove con esse furono trasportate molte dame» (11). Il curatore precisa in una nota al testo: «Talune [donne] per minacce, altre co’ doni presi dal saccheggio, altre lusingate da promesse di matrimonio, si prestarono alle infami voglie» (12); parla però di «prostituzione» e non di violenze, e non dice nulla sulle religiose. Medesima impostazione ha l’abate Domenico Sacchinelli (1766-1844), il quale, scrivendo nel 1836, sostiene che «[...] le donne Altamurane (facendo le dovute eccezioni) produssero all’armata Cristiana quegli stessi effetti, che un tempo cagionarono ai soldati di Annibale le donne Capuane» (13). Nel 1899, in occasione del primo centenario del sacco di Altamura, il senatore pugliese Ottavio Serena (1837-1914) dà alle stampe un saggio su Altamura nel 1799, non favorevole al cardinale Ruffo, che non fa cenno alcuno dell’episodio raccontato dalla Macciocchi e pubblica l’importante relazione del parroco della cattedrale di Altamura, che, attingendo ai registri parrocchiali, riporta i nomi di tutte le vittime del saccheggio del 10 maggio — in totale trentasette, cioè tre di meno delle asserite vittime religiose — e la precisa indicazione: «Ora in Altamura non vi fu mai un monastero di Orsoline; le monache Clarisse del Soccorso prima dell’assalto abbandonarono il monastero» (14). Inoltre, nell’appendice documentaria sono edite le Notizie di un Anonimo altamurano, il quale, a proposito delle «Signore Monache di Clausura d’ambi i Monasteri del Soccorso e S. Chiara» (15), scrive che il cardinale «[...] ordinò che trasportate fossero nelle rispettive abitazioni ed ivi fossero custodite» (16); quindi «[...] anche le clausure delle monache sacrate se ne uscirono, e lasciarono in abbandono gli Monasteri e si ritirarono tutte unite in casa sicura di un Signore con guardia permessa dal Ruffo» (17). Lo stesso anonimo cronista altamurano, testimone dei fatti, è ripreso senza riserve dallo storico degli anni 1930 Massimo Lelj (1888-1962) — di orientamento sfavorevole ai sanfedisti e in genere piuttosto ben documentato — al capitolo XI della sua opera La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799) (18). Infine, la tesi della protezione richiesta dalle religiose al cardinale è confermata dal tenente colonnello borbonico Domenico Petromasi, commissario di guerra presso l’armata sanfedista ed estensore di una cronaca della riconquista del Regno di Napoli, che è testimone oculare senz’altro interessato dei fatti, ma fondamentalmente equilibrato e onesto nel suo resoconto (19).

3.2. Le fonti utilizzate

Se mancano testimonianze tali da accreditare la versione della Macciocchi, a smentire la realtà dell’eccidio, per la loro intrinseca debolezza e inattendibilità, sono proprio le fonti utilizzate dalla scrittrice. Francamente non basta un diario — anche se manoscritto e inedito, e per di più letto dalla studiosa «quasi tremante» — per stabilire la verità di un fatto storico. Tanto più se il cronista non è testimone oculare dei fatti e, come traspare dai toni «apocalittici» utilizzati, si tratta di un «giovane che si era battuto», quindi di un militante rivoluzionario, di un giacobino, ossia di una persona pregiudizialmente avversa per ragioni ideologiche ai sanfedisti. Inoltre la prosa del cronista non convince: è troppo stranamente simile a quella di una qualunque delle gazzette giacobine del periodo, per le quali era più importante combattere la «battaglia delle idee» che riferire la verità. Basta aprirne una a caso, a Napoli come a Brescia o a Milano, per accorgersi che le vicende dell’Insorgenza sono generalmente riferite negli stessi termini e con i medesimi toni, faziosi e altamente emotivi, dell’anonimo.

Quanto ai «testi più solidi» cui la studiosa dice di essersi rifatta, sono molto dubbi il loro valore e la loro attendibilità. Tutti sono marcatamente favorevoli alla Rivoluzione: Jules Michelet (1798-1874), anticlericale e partigiano a oltranza dell’Ottantanove (20); Carlo Botta (1766-1837), ex giacobino, autore di un’ampia sintesi della storia d’Italia che si avvale spesso di fonti di dubbio valore (21); Pietro Colletta (1775-1831), prima seguace di Gioacchino Murat (1767-1815), poi carbonaro, autore di una Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, sulla quale lo stesso curatore esprime il seguente giudizio: «Quella del Colletta è una delle opere che maggiormente hanno bisogno di chiarimenti e di delucidazioni per esser ricca di errori, o voluti dall’autore per motivi di ordine politico o personale, o da attribuire alle fonti da lui usate» (22); Vincenzo Cuoco (1770-1823), già protagonista della Repubblica Napoletana (23); Adolf Wilhelm Theodor Stahr (1805-1876), autore di Die Republikaner in Neapel, «I repubblicani a Napoli», il cui anonimo traduttore precisa che «l’opera che pubblichiamo[,] tradotta dal tedesco, appartiene a quel genere commisto di vero e di falso del quale più si piacque questo secolo e che romanzo-storico vien detto» (24). Così non si capisce se la scena descritta da Stahr, nella quale il diacono cardinale Ruffo — che, ammette per inciso lo studioso, «[...] sentiva talora qualche piccolo accenno di umanità» (25) — celebra la Messa al campo, sia una forzatura romanzesca oppure l’autore — non alieno da studi presso facoltà teologiche protestanti — alluda a una partecipazione del cardinale stesso alla Messa nel suo limitato ruolo ministeriale (26).

La sorpresa maggiore, però, deriva dalla consultazione delle opere di Giovanni La Cecilia (1801-1880), perché si constatata che gran parte del testo della Macciocchi, sia fra virgolette sia in parafrasi, come pure tutti gli autori citati come fonti autorevoli e più solide, sono ripresi letteralmente da un volume del polemista napoletano (27). In particolare, la descrizione della truculenta scena dell’eccidio non è tratta dalle pagine dell’anonimo «parigino», che sarebbe stato senz’altro più autorevole, ma, senza avvertirne il lettore, dalla prosa dello scrittore mazziniano, confidando forse sul fatto che, siccome lo stile dei due autori è affine, il lettore inavvertito non se ne accorga. Anche La Cecilia, comunque, non suffraga il fatto specifico con alcuna «pezza d’appoggio», anzi ricorre al discorso diretto (28), come se si trattasse di una parentesi romanzata nella narrazione. Ciò avvalora l’ipotesi che sia una interpolazione dell’autore, fatta quanto meno a scopo narrativo, di spunti forniti da altri.

Del resto, La Cecilia, carbonaro e poi mazziniano, è un militante a tempo pieno, un «rivoluzionario di professione» — in una nota del volume confida di credere che «[...] il papato fu ed è il flagello d’Italia» (29) —, non uno storico ma un propagandista e un uomo d’azione, giudicato da Alessandro Galante Garrone come autore di «pittoresche romanzature» (30) e una «testa calda» (31). Il libro in questione colpisce immediatamente per la sua scarsa scientificità. La versione dei fatti è inattendibile, le fonti citate sparute e quasi mai di prima mano, l’apparato critico nullo, il linguaggio inadeguato a un’opera storica. Lo studio, quindi, si colloca all’interno del genere letterario del «romanzo d’appendice» — molto in voga nell’Ottocento e in verità mai tramontato —, piuttosto che in quello storiografico. La Cecilia si sforza di trasmettere della monarchia borbonica di Napoli l’immagine di un regime corrotto e inetto, che si avvale di ogni bassezza e di agenti spregevoli — per esempio, del cardinale Ruffo dice che manteneva un «Harem di corrotte femmine» (32) — pur di conservare il potere. Per rafforzare questo quadro La Cecilia non esita a far dipingere ad hoc ben cinquanta illustrazioni a colori, che raffigurano scene fra le più inverosimili — ma efficaci —, come quella del capitano borbonico Gennaro Rivelli, aiutante di campo del cardinale e particolarmente inviso a La Cecilia, che offre a Ruffo le teste mozzate di una madre incinta e della bambina strappatale dal ventre, al fine d’intascare due volte la taglia posta dal re sulle teste dei giacobini (33). In un’epoca in cui non esisteva la televisione, si può intuire come queste scene s’imprimessero nell’immaginario del lettore e dessero vita ad altrettante leggende. Pubblicato alla vigilia dell’invasione garibaldina del Regno di Napoli — e ripreso da non pochi scrittori politici «nazionali» che, evidentemente, lo hanno trovato utile (34) —, è difficile non vedere il volume come un lavoro di propaganda, inteso a «preparare il terreno» alle camicie rosse di Giuseppe Garibaldi (1807-1882). Questa è l’opera da cui la Macciocchi trae il succo della sua argomentazione: quando si trattano temi delicati e complessi come quello evocato, che stanno a cuore a molti, sia favorevoli che contrari, sarebbe però opportuno fondare la propria argomentazione su «pezze d’appoggio» un po’ meno fragili e screditate.

Per completezza di quadro, occorre esprimere non poche riserve sullo stile. In una persona di cultura, e in particolare in uno storico, i già segnalati toni altamente emotivi — verrebbe spontaneo scrivere «che rasentano l’isteria» — di cui risente pesantemente la prosa dell’illustre pubblicista sono stonature fatali. Alcuni passaggi meritano di essere riportati: «Su Parigi l’aria era fredda, pioveva, mentre continuavo a decifrare quasi tremante il manoscritto che avevo messo sul leggio. Tutto sembrava silenzio»; il diario scoperto a Parigi è un «eccezionale testo», scritto «con una calligrafia limpida e una prosa poderosa»; la folla di Altamura che ascolta la rievocazione della stessa studiosa è «fitta, bella e severa, assiepata davanti al monumento della Libertà». Frasi a effetto, che scadono però in autentiche contumelie e «clave ideologiche» quando, passando ai fatti storici, la Macciocchi descrive l’esercito della Santa Fede come un insieme di «bande» o di «orde», «un’accozzaglia di banditi e di stupratori», ignorando o dimenticando che con il cardinale Ruffo — «un vero bandito», che «si abbeverava di sangue» — combattevano reparti dell’esercito regolare napoletano. Oppure quando lascia cadere attributi enigmatici sui sanfedisti, come quando — riprendendo acriticamente un tema caro a La Cecilia — ricorda che il «mostro» Gennaro Rivelli, aiutante di campo di Ruffo, era stato «meniño», ovvero «fratello di latte» di re Ferdinando, lasciando intendere velatamente che il capo sanfedista e il re avessero condiviso chissà quali turpitudini (35). Oppure ancora quando, per accentuare la corresponsabilità del cardinale nei massacri, parla di una «piena assoluzione della Chiesa» che Ruffo avrebbe impartito ai suoi accoliti prima di lanciarli al massacro e al saccheggio, cosa da intendersi eventualmente nel senso di mancata o ridotta sanzione giudiziaria, civile o ecclesiastica, e non certo di assoluzione sacramentale, l’autentica «piena assoluzione della Chiesa», dato che, essendo solo diacono, «in virtù del [suo] sacro ministero», il cardinale non poteva assolvere proprio nessuno.

Certo la riconquista borbonica del Regno di Napoli avviene e culmina in un quadro di guerra civile, che causa profonde divisioni e odi. Essa costa sangue, come in genere tutte le guerre civili, ma nel 1799 la popolazione è tutta con il re. E non si può dimenticare che gli «illuminati» dirigenti della Repubblica Napoletana — in via di «beatificazione laica» — nei nove mesi della loro permanenza al potere comminarono migliaia di condanne, nel tentativo di «purificare» la repubblica proprio dallo spirito sanfedista. Come meravigliarsi che vi siano state vendette, anche sanguinose, da parte degli avversari? Del resto, proprio ad Altamura, come riferisce Lelj, i giacobini assediati, prima di fuggire ingloriosamente, avevano passato a fil di spada circa cinquanta realisti, politici e ostaggi, fra i quali più di un ambasciatore inviato dai sanfedisti (36). Di queste rappresaglie il cardinale Ruffo, come ormai è riconosciuto unanimamente, fu sempre, sia durante la guerra, che soprattutto dopo, moderatore intransigente, indipendentemente dal fallimento dei suoi tentativi di opporsi al re e ai britannici.

In conclusione, sotto il profilo storico quello della Macciocchi sembra un modo di accostarsi ai fatti scorretto e dilacerante, che rischia di risvegliare artificialmente passioni civili del tutto fuori luogo. Non è questo il metodo giusto per iniziare una serena e fondata revisione della storia italiana e per ricostruire una memoria comune del nostro popolo, sulla quale fondare — come è pressante necessità — nuove regole di convivenza civile.

4. CONSIDERAZIONI POLITICHE

Tutti questi elementi lasciano intravedere la trama di fondo, rigidamente ideologica, in cui l’intervento si situa. La storia, lo studio dei fatti del passato, in questa prospettiva, diventa puramente strumentale a obiettivi extra-storici, in genere politici o, nel caso della studiosa, funzionali a una militanza ideologica che talora va oltre la politica.

Rievocare un massacro di monache, vero o falso che sia, per la Macciocchi serve solo alla «prassi», cioè a «mettere in azione» persone e gruppi umani — quanto meno il comitato delle sue «amiche» di Altamura — in una prospettiva assunta apoditticamente e pregiudizialmente — verrebbe da dire «metafisicamente» — come buona, ovvero il trionfo del femminismo. E se i fatti scarseggiano o sono dubbi o mancano del tutto, tanto peggio per i fatti! Bastano quattro frasi di un romanzo d’appendice e un diario ideologizzato e i fatti si piegano al wishful thinking o alla «volontà di potenza» di chi scrive. E in questo la studiosa sembra davvero non avere dimenticato le sue radici culturali marxiste...

Quest’ultimo tratto suggerisce alcune riflessioni di tipo generale, che si traducono in altrettanti quesiti. Con tanti tragici casi umani davanti agli occhi, come mai questo interesse per una categoria femminile, normalmente non particolarmente in auge negli ambienti femministi? E perché un interesse che si spinge fino a rivendicare le doti delle religiose, quando si dimentica che cosa ne è stato — non solo delle doti, ma dei monasteri stessi, soprattutto nel Mezzogiorno — in altre condizioni e sotto altri regimi, giudicati invece con favore o comunque meno sgradevoli di quello borbonico restaurato, come le repubbliche giacobine o lo Stato italiano post-unitario? È proprio vero che, quando si tratta di «fare rivoluzione», marxisti o femministe non guardano tanto per il sottile quanto alla «materia prima» disponibile. L’illustre esponente progressista si sofferma sulla «pagliuzza» sanfedista, peraltro non provata, e dimentica l’enorme «trave» costituita dagl’innumerevoli eccidi — di uomini e di donne, anche religiose — e dai saccheggi con i quali i francesi e le milizie giacobine hanno funestato per anni regioni e province intere in Italia — e in tutta Europa —, soprattutto nel Mezzogiorno, dove infieriscono per oltre quindici anni (37). E sempre nella predetta metafora evangelica, sarebbe da chiedere alla studiosa da che parte si situano i massacri di migliaia di religiosi e di religiose perpetrati dai comunisti e dagli anarchici durante la guerra civile spagnola, quando monache e frati vennero uccisi non perché ricchi di famiglia o perché di piacevole aspetto — ma quale «misoginia» si può imputare ai «crocesegnati» nella versione dei fatti della Macciocchi? — e neppure sotto l’influsso del delirio da saccheggio, ma, freddamente, in quanto religiosi, e nessuno si curò che fossero «innocenti» o meno, per riallacciarsi al titolo dell’articolo. E come non ricordare, da ultimo, l’annientamento di intere chiese e comunità religiose — certamente composte da un’alta percentuale di donne — attraverso la deportazione nel GuLag in tutti i paesi sovietizzati a partire dal 1918? Ha letto la Macciocchi quale fu per esempio la sorte dei religiosi russi deportati nel Lager delle isole Solovki a nord-est di Leningrado, nel Mar Bianco, ai limiti del Circolo Polare Artico, di cui solo recentemente — dopo ottant’anni dal martirio — sono state ricostruite le indicibili sofferenze (38)?

Riguardo, infine, al tema della Chiesa e del perdono: certo, la Chiesa e il Papa, quando imperativi di verità lo hanno richiesto, non hanno esitato e non esiteranno a rivedere la propria interpretazione consueta di vicende storiche, che hanno visto un cattivo comportamento da parte di cristiani. Così, se l’eccidio di Altamura fosse autentico, esso potrebbe di certo finire nel novero di tali vicende. Non risulta invece che i responsabili di almeno ottanta milioni di vittime — uomini e donne, laici e religiosi —, a fianco dei quali ha militato per anni e forse ancora milita la Macciocchi, abbiano ancora in qualche forma chiesto perdono del loro operato. Quale senso ha, in questa prospettiva oggettivamente mutila e «squilibrata», avanzare arrogantemente richieste come quelle formulate, se non cercare di sfruttare furbescamente — o marxisticamente — tutte le opportunità, tutte le «contraddizioni» — reali o create ad arte — offerte dalla situazione, sforzandosi nel caso specifico di «arruolare» alla propria causa, sempre più in crisi, le forze ideali dell’avversario?

5. CONSIDERAZIONI FINALI

Concludendo, un ultimo appunto merita la sede in cui la Macciocchi ha potuto divulgare le sue tesi, più consone a testate di parte che non al più diffuso quotidiano italiano. Come mai questo ha ospitato sulla sua prima pagina culturale un contributo così discutibile e gli ha concesso tanto spazio? Semplice ricerca dello scoop? «Simpatia» di fondo per le tesi? Autorevolezza della scrittrice? O forse un «segnale» alla Chiesa e ai vescovi italiani, troppo «schierati» in occasione della battaglia parlamentare sulla legge relativa alla procreazione assistita?

Comunque — tornando a orizzonti maggiori, cioè nell’ottica della storia come deposito di esperienze per la politica e come ricostruzione del passato che, se non spiega il presente, almeno lo fonda —, si deve registrare il fatto che, dopo le dichiarazioni d’inesistenza dell’Insorgenza e/o quelle di perfetta conoscenza dei fatti a essa relativi, si è prodotto anche un nuovo tipo di attacco a un momento essenziale della storia degli italiani: il falso storico.

Oscar Sanguinetti

Note

(1) Cfr. Maria Antonietta Macciocchi, Altamura. La strage delle innocenti, in Corriere della Sera, 17-2-1999, p. 33. Tutte le citazioni senza rimando sono tratte da questo articolo.
(2) Cfr. Eadem, Cara Eleonora. Passione e morte della Fonseca Pimentel nella Rivoluzione Napoletana, Mondadori, Milano 1996; ed Eadem, L’amante della Rivoluzione. La vera storia di Luisa Sanfelice e della Repubblica Napoletana del 1799, Mondadori, Milano 1998. Sulla scrittrice vedi I deputati dell’ottavo parlamento repubblicano, La Navicella, Roma 1979, sub nomine; Le donne italiane. Il chi è del ’900, a cura di Miriam Mafai, Rizzoli, Milano 1993, p. 272; e Who’s who in Italy, Sutter’s international red series, Milano 1998, vol. II, pp. 1147-1148. (3) Pierre Louis Ginguené (1748-1816) fu letterato rivoluzionario e uomo politico — ambasciatore presso la corte sabauda nel 1798 — nonché autore di una Storia letteraria dell’Italia in 10 volumi, scritta fra il 1811 e il 1819, in collaborazione con il giacobino Francesco Saverio Salfi (1759-1832). Fece parte della corrente culturale degli «idéologues»; cadde in disgrazia presso Napoleone Bonaparte (1769-1821) per essersi rifiutato di accettare la nuova costituzione del 1799.
(4) Sulla Santa Fede vedi Francesco Pappalardo, 1799: la crociata della Santa Fede, in Quaderni di «Cristianità», anno II, n. 3, inverno 1985, pp. 34-50, rielaborato in Idem, 1799. Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nel Regno di Napoli, Istituto per la Storia delle Insorgenze, pro manuscripto, Milano 1999; e Idem, Il sanfedismo, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di Giovanni Cantoni e con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 215-220.
(5) Su di lui, cfr. Giovanni Ruffo, Il cardinale rosso, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998.
(6) Soprattutto — e forse solo — perché autore della «magnifica frase, quella sul genio delle donne» legato in qualche modo — non è ben chiaro il senso della frase della Macciocchi — alla «mulieris dignitatem», la lettera apostolica di Papa Giovanni Paolo II sulla dignità e la vocazione della donna, pubblicata nel 1988 in occasione dell’Anno Mariano.
(7) Cfr. M. A. Macciocchi, L’amante della Rivoluzione. La vera storia di Luisa Sanfelice e della Repubblica Napoletana del 1799, cit., rispettivamente alle pp. 204-209 e 224-227.
(8) Cfr. Giuseppe Castelli, Troppe leggende sul cardinale Ruffo, in Avvenire. Quotidiano d’ispirazione cattolica, 25-2-1999; cfr. pure Giovanni Formicola, Altamura, gli errori di Maria Antonietta Macciocchi, in Roma, 7-3-1999.
(9) Cfr. Cronache di fatti del 1799, a cura di G. Ceci, Tip. Vecchi, Andria (Bari) 1900.
(10) Diario di Gian Carlo Berarducci, in Cronache di fatti del 1799, cit., pp. 1-279 (p. 121).
(11) Memorie storiche contenenti la serie degli avvenimenti che hanno avuto luogo nella città di Altamura dal principio della rivoluzione fino all’ingresso e dimora dell’armata regia e cristiana nella medesima, vale a dire dal principio di Gennaio 1799 per tutto il mese di Maggio dello stesso anno, scritte nel tempo istesso da un testimonio di vista, in Cronache di fatti del 1799, cit., pp. 281-399 (p. 391).
(12) Ibid., p. 393, nota 2.
(13) Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo, con osservazioni sulle opere di Cuoco, di Botta e di Colletta. Edizione seconda, Tip. Poliglotta, Roma 1895, p. 161.
(14) Cfr. Ottavio Serena, Altamura nel 1799, Casa Editrice Italiana, Roma 1899, p. 79, nota 1.
(15) Ibid., p. 23 dell’appendice.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Cfr. Massimo Lelj, La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799), Mondadori, Milano 1936, pp. 127-147.
(19) Cfr. Domenico Petromasi, Alla riconquista del regno. La marcia del cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, Editoriale il Giglio, Napoli 1994 (prec. ed. Manfredi, Napoli 1801), p. 71.
(20) Su di lui vedi Paul Vialleneix, Jules Michelet, in L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, a cura di Bruno Bongiovanni e Luciano Guerci, Einaudi, Torino 1989, pp. 481-490.
(21) Su di lui vedi Walter Maturi (1902-1961), Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Einaudi, Torino 1962, pp. 36-91.
(22) Nino Cortese (1896-1972), in Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, 3 voll., Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1956-1957, vol. I, p. XII. Colletta, comunque, descrivendo il saccheggio di Altamura, accenna in meno di una riga a «[...] un convento di vergini profanato» (ibid., vol. II, p. 64). Sull’opera di Colletta, vedi il giudizio del Dizionario di Storiografia (Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 222), secondo cui «[...] quest’opera storico-memorialistica fu largamente discussa e si rivelò un importante strumento politico contro la monarchia borbonica».
(23) A proposito di Altamura Cuoco parla «di cadaveri intrisi di sangue» (Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, a cura di N. Cortese, Vallecchi, Firenze 1926, p. 270), ma è smentito dal curatore dell’edizione, che precisa: «La città fu data al saccheggio; ma, contrariamente a ciò che dice il Cuoco, è da avvertire che gli abitanti abbandonarono interamente il paese, al momento della resa» (ibid., p. 271, nota 2). Su di lui vedi Stefano Nutini, Vincenzo Cuoco, in L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, cit., pp. 152-158.
(24) Adolf Wilhelm Theodor Stahr, I repubblicani di Napoli. Romanzo storico, 2 voll., G. Lobetti-Bodoni, Pinerolo (Torino) 1854, vol. I, p. I. Stahr, storico prussiano dell’antichità greca e romana, scrittore assai prolifico, dopo un viaggio in Italia, in Svizzera e a Parigi, intrapreso nel 1845 e durato un anno — a Roma fra l’altro conobbe la sua futura consorte, la letterata Fanny Lewald (1811-1889) —, pubblicò alcuni volumi di ricordi di viaggio: Ein Jahr in Italien [Un anno in Italia, 1847], Herbstmonate in Italien [Mesi d’autunno in Italia, 1860] e Herbsmonate in Oberitalien [Mesi d’autunno in Italia settentrionale, 1866], nonché — unico suo lavoro di epoca moderna — Die Republikaner in Neapel, apparso nel 1849 a Berlino, un romanzo storico dedicato alla Repubblica Napoletana del 1799 e, in particolare, alla figura dello storico e militante repubblicano Colletta. Su Stahr vedi Allgemeine Deutsche Biographie, 56 voll., Dunder & Humblot, Lipsia 1874-1912, vol. 35, 1893, pp. 403-406.
(25) Ibid., vol. II, p. 115.
(26) Cfr. ibid., vol. II, p. 113.
(27) Cfr. Giovanni La Cecilia, Storie segrete delle famiglie reali o misteri della vita intima dei Borboni di Francia, di Spagna, di Parma, di Napoli e della famiglia Absburgo-Lorena d’Austria e di Toscana per Giovanni La-Cecilia [sic], 4 voll., Tip. Toscana Cecchi, Genova-Firenze 1859, vol. II, I Borboni di Napoli.
(28) Un esempio: «Olà (disse [il capitano Rivelli, indicato quale leader degli stupratori assassini]) mie tenere colombe, cessate dal guaire e andate a provvedere e qui recate quanto avete di meglio di cibi e di vini» (ibid., p. 386).
(29) Ibid., pp. 294-295, nota 1.
(30) Alessandro Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828 -1837), 2< sup>a ed., Einaudi, Torino 1975, p. 170.
(31) Ibid., p. 175. Lo storico torinese, riguardo ad altra opera storica di La Cecilia, le Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876. Risorgimento italiano (5 voll., Artero, Roma 1876-1878), dice trattarsi di «[...] opera notoriamente screditata nel campo storico per le sue gravi inesattezze e fantasiose invenzioni [...] spesso accolta come verità sacrosanta, anche per penuria estrema d’altre sicure fonti» (ibid., p. 199, nota 16).
(32) G. La Cecilia, op. cit., p. 271.
(33) Cfr. ibid., inserto a pp. 430-431.
(34) Cfr., per esempio, Giovanni Firrao, Cenni storici sulla città di Altamura e i suoi avvenimenti. Dalla sua origine al 1860, Borsella, Cantatore e Soci, Andria (Bari) 1880, che riprende con ampio risalto da La Cecilia il tema della violenza alle religiose. Su di lui lo storico Serena esprime il seguente giudizio: «[...] il Firrao, seguendo ciecamente le storie segrete di Giovanni La Cecilia, ripete cose che possono trovar luogo in un romanzo, [...] ma non in una vera e propria narrazione storica» (op. cit., p. 79, nota 1).
(35) Il rapporto fra i due «fratelli di latte» — la madre di Rivelli, Agnese, era stata balia del piccolo Ferdinando — è descritto con maggiore obiettività in Giuseppe Campolieti, Il re lazzarone. Ferdinando IV di Borbone, amato dal popolo e condannato dalla storia, Mondadori, Milano 1999, pp. 10 e 22-23, che tratta anche della deformazione della figura del re e di Rivelli operata da La Cecilia.
(36) Cfr. M. Lelj, op. cit., p. 134.
(37) Cfr., fra l’altro, Marcello Veneziani, 1799: Massacri in Puglia come nel Kosovo d’oggi, ne il Giornale, 1-4-1999. Il giornalista e scrittore si sofferma in particolare sui massacri giacobini di Andria e di Trani, che costarono alcune migliaia di vittime fra gl’insorgenti e i semplici civili e qualche centinaio tra i francesi. L’articolo polemizza en passant con quello della Macciocchi su Altamura.
(38) Cfr. Jurij Brodskij, Solovki. Le isole del martirio. Da monastero a primo lager sovietico, con una prefazione di Vittorio Strada, con illustrazioni, La Casa di Matriona, Milano 1998.

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«Altamura. La strage delle innocenti». Un falso storico contro l’Insorgenza italiana

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L’Insorgenza italiana, il suo significato, la sua «modernità»

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Giovanni Cantoni,
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La crisi dell'istruzione occidentale
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