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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale





Benedetto Tusa


1799: L’INSURREZIONE POPOLARE CONTRO-RIVOLUZIONARIA DELL’ISOLA D’ELBA



Pensando alla storia dell’Isola d’Elba viene subito alla mente la figura di Napoleone Bonaparte (1769-1821). Molto si è scritto su questa presenza del Côrso nell’isola, fra il 4 maggio 1814 e il 25 febbraio 1815. Viceversa sono caduti nell’oblio altre realtà, come i moti contro-rivoluzionari, che a partire dal marzo 1799 scossero l’isola fino al 17 luglio dello stesso anno, continuando con maggiore accentuazione legittimista, sino al giugno 1802.

Fra gli storici e i cronisti che hanno esaminato l’impatto del vento della Rivoluzione francese sull’isola d’Elba, troviamo Giuseppe Ninci, negoziante giacobino, protagonista in prima persona di quegli anni, e Vincenzo Mellini Ponçe de Leon (1), scrittore delle memorie storiche dell’Elba, che nel quinto libro di esse, I francesi all’Elba, descrive i fatti accaduti dal marzo al luglio 1799, dal proprio osservatorio di nobile colto e conservatore, sostenitore dei Lorena e dei Borboni, in quanto, come afferma nella prefazione della sua storia, che la Rivoluzione francese presentava un carattere di «prepotenza».

Nella presente rievocazione, un particolare spazio darò a questo autore, interessante sia per l’acutezza delle osservazioni e per le intuizioni storico-politiche, che per la serietà delle fonti (2) e la pacatezza del tono, nonostante egli tratti di accadimenti drammatici, che divisero a lungo gli animi degli elbani.

1. IL QUADRO STORICO-POLITICO

Per inquadrare i fatti che descriverò mi sembra opportuno ricostruire la situazione politica italiana e dell’Elba intorno ai primi mesi del 1799.

L’Isola d’Elba nel Settecento apparteneva al Granducato di Toscana, su cui regnava, come feudatario del Sacro Romano Impero, Ferdinando III di Lorena (1769-1824), che possedeva la piazzaforte di Portoferraio con tre miglia di territorio all’intorno; inoltre, al Regno delle Due Sicilie, governato da Ferdinando IV di Borbone (1751-1825), che occupava il forte di Longone (attuale Porto Azzurro) e che aveva il diritto di presidiare le torri fortificate dell’isola. Infine, esisteva lo Stato di Piombino ed Elba, dominio feudale del principe Antonio Buoncompagni Ludovisi, che nell’isola comprendeva i comuni di Rio e di Capoliveri, nella parte orientale e, nella parte occidentale, quelli di San Piero, Sant’Ilario, Poggio e Marciana.

Nel marzo del 1796 il generale Napoleone Bonaparte prese il comando dell’Armata d’Italia su incarico del Direttorio francese, l’organo supremo di governo della Repubblica Francese, costituitosi nel 1795 dopo la caduta del regime giacobino di Maximilien de Robespierre (1758-1794) in conseguenza del colpo di Stato cosiddetto di Termidoro, nel luglio 1794. Dopo una vittoriosa campagna prima contro il Regno sardo e poi, nella valle del Po, contro gli austriaci, i francesi repubblicani occuparono nel giugno del 1796 Livorno, dandone semplicemente comunicazione al granduca Ferdinando III. La Gran Bretagna — alleata con l’Impero asburgico contro la Francia, nel quadro della Prima Coalizione — per tutta risposta, con il consenso dei consigli elbani, si impadroniva di Portoferraio — che i francesi volevano a loro volta occupare -, porto d’interesse strategico e base per le operazioni belliche nel Tirreno del nord. L’interesse politico degli inglesi per l’Elba era di lunga data (avevano persino tentato di acquistarla dai legittimi sovrani) e la loro occupazione — durata circa due anni, con presìdi militari in tutta l’isola — fu foriera di un certo benessere per la popolazione. Nell’aprile 1797 gli inglesi comunque lasciarono l’isola a seguito delle proteste del granduca Ferdinando che voleva l’evacuazione delle truppe straniere ed il ristabilimento della neutralità del suo stato.

Negli anni dal 1796 al 1799 — quelli del cosiddetto Triennio Giacobino — «nell’avanzata del berretto frigio caddero ad uno ad uno tutti i sovrani d’Italia: Pio VI detronizzato e tradotto in Francia si spense in prigionia, mentre il millenario dominio temporale dei papi cedeva il passo alla Repubblica Romana. La Toscana e la Repubblica di Lucca ebbero amministrazioni democratiche, mentre il Granduca si rifugiava a Vienna alla corte imperiale del fratello. I Savoia, protetti dalla flotta inglese, si ritiravano in Sardegna, mentre i Borboni, sconfitti ed esuli in Sicilia, vedevano Napoli occupata e convertito il regno nella Repubblica Partenopea invano eroicamente osteggiata dai “lazzaroni” popolani fautori dell’ancien règime» (3).

Nel 1799, mentre era in corso «[...] la campagna d’Egitto, la Francia del Direttorio vedeva nuovamente schierata, contro il dilagare delle sue truppe, la IIa coalizione europea: l’Inghilterra di Lord Pitt e di Orazio Nelson, la Porta ottomana, l’Austria imperiale, lo zar di Russia Paolo I ed il Re di Napoli si univano per arrestare la bandiera repubblicana ed il suo genio militare, Napoleone Bonaparte» (4).

L’insorgenza elbana si svolge a due riprese, una prima volta al momento della temporanea vittoria delle potenze anti-napoleoniche, nel 1799 — che determina lo scoppio della grande insorgenza toscana detta del «Viva Maria !» -, la seconda, quando si verifica la rioccupazione dell’Italia da parte francese a seguito della vittoria di Marengo del 1800, occupazione dalla quale l’Isola d’Elba fu preservata fino al 1802, grazie a una intransigente e disperata resistenza del presidio granducale e delle popolazioni insorte.

È interessante sottolineare che nel 1794 a Portoferraio erano giunti, a bordo di navi inglesi, un gruppo di esuli realisti francesi, scampati all’assedio repubblicano di Tolone del dicembre 1793, che diffusero sull’isola le idee del legittimismo (5).

2. IL QUADRO SOCIOLOGICO E RELIGIOSO

La popolazione elbana, esclusi i presìdi militari, ammontava alla fine del secolo XVIII a 12.250 individui (6), in massima parte pastori, agricoltori e marinai, che «[...] non sentivano altro bisogno che quello della libertà, che reputavano sufficientemente guarentita dai loro Statuti, l’origine dei quali perdevasi nel buio dei secoli; e quello dell’indipendenza da ogni dominio straniero, che aborrivano per istinto. Religiosi, ma non bigotti; rispettavano le credenze in cui erano nati: scrupolosi osservatori delle pratiche esterne del culto, ne onoravano i ministri; ma non ne erano servi.

Socievoli, ma amanti dell’eguaglianza si aggruppavano, è vero, volontariamente intorno ad alcune famiglie più antiche, più ricche e più stimate per coraggio e patriottismo; conservavano, peraltro, la libertà d’azione e di parola, da formare una vera democrazia nella quale i capi erano i migliori» (7).

Pur essendo in pace con le potenze in conflitto fra loro, gli elbani temevano che la Rivoluzione raggiungesse il loro territorio, sospettosi e timorosi dei cambiamenti che avrebbero potuto violare la loro libertà, e che le grandi potenze potevano decidere sulle loro teste. Erano altresì terrorizzati per i loro figli, molti dei quali, volontari al servizio del Re di Napoli, «[...]rinchiusi in Longone e nelle torri dell’isola, [...] sarebbero rimasti esposti alle palle ed alle bombe di un nemico del quale si raccontavano, con orrore, le prepotenze, le atrocità e le rapine commesse da un capo all’altro dell’Italia» (8).

Vincenzo Mellini Ponçe de Leon sottolinea nella sua opera — riecheggiando la letteratura contro-rivoluzionaria — due aspetti importanti della rivoluzione elbana. «Anche nella popolazione di Portoferraio cominciavano a farsi strada le idee così dette democratiche, e, cosa strana, nella classe più colta e più facoltosa di essa. Corifei del partito erano Vincenzo Vantini, possidente agiato ed avvocato; i fratelli Lorenzo e Giuseppe Ninci, principali negozianti; Cristino Lapi, medico condotto del Comune; Tommaso Pezzella, scritturale e Francesco Soci, segretario del magistrato. Essi intrattenevano segrete corrispondenze coi democratici di Livorno, erano maneggiati da Luigi Lambardi, vice console della Repubblica francese in Portoferraio ed erano designati col nome di giacobini» (9). Da ciò si evidenzia come la rivoluzione preconizzata dai giacobini italiani era una rivoluzione borghese e «pilotata» dai francesi, a cui il popolo fu sostanzialmente estraneo, e, d’altro canto, come la libertà venne — anche se pro tempore — riconquistata dagli stessi elbani, indipendentemente dal sostegno, previo o successivo, dei loro sovrani (10).

Per individuare le premesse degli episodi che descriverò, mi pare utile, da un lato, ricordare la presenza e la predicazione all’Elba di san Paolo della Croce (1694-1775), fondatore dei Passionisti, che nel 1729 e soprattutto nel 1735 percorse l’isola, tenendo missioni in tutte le sue parrocchie, tanto da meritarsi il titolo di «Apostolo dell’Elba» (11). La sua opera è assimilabile a quell’azione di preparazione all’insorgenza che ebbero sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1697-1787) per l’Italia Meridionale e san Luigi Maria Grignion de Monfort (1673-1716) per la Vandea, in Francia, apostolato che fece sì che il popolo italiano desse prova in seguito di «[...]attaccamento alla tradizione religiosa e civile e la sua avversione alla rivoluzione» (12). Di san Paolo della Croce, l’Elba ricorda la predicazione ed i miracoli — valida risposta al secolo della dea Ragione, degli illuministi e degli enciclopedisti — con una lapide posta a Marciana. Non si poteva infatti obbiettare — osserva la storica contemporanea dell’Elba Anna Benvenuti Papi — a chi esaltava la bontà della natura, dimenticando il peccato originale, nulla di più valido ed efficace della «[...]Passione di Gesù. Gesù aveva sopportato ogni offesa, era stato tradito, condannato, flagellato, deriso, crocifisso. Egli aveva preso sopra di sè i peccati degli uomini e tutti i dolori del mondo. [...] Queste parole a distanza di tempo acquistano un particolare significato, nel quadro del XVIII secolo ed in prossimità della Rivoluzione francese» (13).

3. GLI AVVENIMENTI DEL 1799

Quello che segue è, in estrema sintesi, il quadro degli avvenimenti dal marzo al luglio 1799.

Marzo 1799.

Il 29 da Livorno fu inviata una delegazione francese a Portoferraio, onde comunicare al comandante della fortezza Francesco Schemid (o forse Schmidt) il passaggio dal governo granducale a quello repubblicano. Mentre i magistrati e i maggiorenti dell’isola decisero di sottomettersi, la cittadinanza e lo stesso presidio granducale, composto di truppe austriache, reagì davanti al tale decisione e occupò i forti Stella e Falcone sulle alture della cittadina, intenzionata a resistere anche senza armi e cibo. Alcuni cittadini che si opponevano vennero massacrati. Dopo alterne e complesse vicende, la bandiera francese finì però per sventolare su Portoferraio fra il tripudio dei giacobini elbani, mentre perdurava il rigido blocco del canale di Piombino istituito dalle navi inglesi fin dal momento dell’occupazione francese di Livorno. Continuava però la resistenza del presidio napoletano di Porto Longone, che venne sottoposta a bombardamento dai francesi.

Aprile 1799.

Il primo giorno del mese veniva piantato a Portoferraio l’albero della libertà. Un migliaio di francesi sbarcò nell’isola, per rinforzare la guarnigione, e il fatto determinò l’insurrezione generalizzata della popolazione civile, che liberò 400 galeotti dal penitenziario di Porto Longone, respinse insieme con questi ultimi i francesi sbarcati ed arroccati a San Giovanni, sulla strada fra Portoferraio e Porto Longone, costringendoli poi a ritirarsi a Portoferraio.

Maggio 1799.

I francesi, preoccupati per la resistenza elbana, attuarono rappresaglie presso Sant’Ilario e San Piero, nella parte centrale dell’isola, alle falde del monte Capanne, mentre continuavano il cannoneggiamento di Porto Longone. L’accanita resistenza della guarnigione e della popolazione della piazzaforte respinse però ogni attacco, mentre rinforzi della flotta inglese bloccavano ai francesi gli approvvigionamenti dal continente.

Anche coloro che fino a quel momento non avevano dato appoggio agli insorgenti si schierarono a fianco dei conterranei. «I popoli di Poggio, Marciana e Campo si riversarono nella piana di Portoferraio con l’intenzione di far arretrare i francesi. [...]Alla battaglia attiva rispondeva la resistenza non troppo passiva di altre terre: così a Capoliveri, i cui abitanti avevano preso a fucilate un picchetto francese, conobbero nuovamente una sanguinosa rappresaglia» (14).

Si verificò a questo punto una «[...]sortita risolutiva con cui Porto Longone si liberava finalmente dall’assedio» (15). I francesi, di fronte all’attacco degli assediati, non riuscirono ad organizzare una linea di difesa e si dovettero ritirare in Portoferraio, che restava l’unico caposaldo francese nell’isola.

Gli insorgenti, allora, si tassarono per acquistare pezzi di artiglieria (4 mortai e 2 cannoni) e, dopo averli installati sul promontorio delle Grotte, nella parte meridionale del golfo, di rimpetto a Portoferraio, inviarono, il 28 maggio 1799, una delegazione a intimare al comandante francese Monserrat la resa. Quest’ultimo rispose che non usava trattare armistizi con galeotti, caprai, pescatori e contadini. Gli insorti, allora, guidati dal colonnello napoletano don Marcello De’ Gregori di Squillace, governatore della piazza di Porto Longone, iniziarono a bombardare Portoferraio.

Dopo due giorni di fuoco Monserrat chiese una tregua, con la scusa di dover ricevere istruzioni dal continente, ma essa non venne concessa dagli insorgenti, visto che era evidente l’intenzione di prendere tempo per dare modo a rinforzi di sopraggiungere. Questi in effetti sbarcarono numerosi e il 22 giugno si diressero in tre colonne rispettivamente verso Marciana, Poggio, San Piero e Sant’Ilario ed ebbe luogo la battaglia di Procchio che descriverò più oltre.

Nell’episodio dell’assedio di Portoferraio, i giacobini elbani vennero impegnati «[...]in una gravissima battaglia che stremò i francesi» (16) e si trovarono ancora una volta assediati insieme a questi ultimi a Portoferraio.

Nello corso dello stesso 1799, comunque, le sconfitte subìte a opera dalla seconda coalizione austro-russo-turco-inglese costringevano la Francia ad abbandonare gradualmente la Penisola, mentre dal Lazio alla Toscana, dal Piemonte a Napoli contadini armati, talvolta guidati dalla nobiltà deposta e dal clero, si sollevavano contro i repubblicani.

Nel mese di luglio 1799, in assenza del comandante francese, spostatosi sul continente per ricevere ordini, la guarnigione francese di Portoferraio, davanti all’implacabile resistenza degli elbani, accettava di capitolare e tutta l’isola era così liberata e veniva resa ai suoi legittimi sovrani.

Il colonnello De’ Gregori per ringraziare Dio dell’aiuto ricevuto ordinò allora che «[...] si celebrasse una solenne processione il 14 luglio, fatale coincidenza con la data della presa della Bastiglia» (17).

Dopo tre giorni i francesi firmavano la capitolazione in tutta l’Elba e sul forte Falcone tornava a sventolare la bandiera granducale, mentre sul forte Stella quella borbonica.

Come narra lo storico austriaco contemporaneo Franz Pesendorfer (18), dopo la pace di Lunéville (febbraio 1801), seguìta alle vittorie napoleoniche di Hohenlinden, in Baviera, e di Marengo, la Toscana diveniva Regno d’Etruria sotto Ludovico I di Borbone (1773-1803), figlio dell’ex duca di Parma Ferdinando (1751-1802). Ma la parte già granducale dell’Elba non accettò la nuova situazione e rifiutò per diversi mesi di passare sotto l’indiretta sovranità francese, in quanto il comandante della guarnigione, Carlo de Fisson, per sottomettersi esigeva un ordine scritto del granduca esiliato, che lo esonerasse così dal giuramento di obbedienza al precedente sovrano.

La guarnigione napoletana invece era pronta ad accettare un’occupazione francese in quanto conforme alle decisioni del trattato di pace riguardanti il Regno di Napoli e la Francia. La popolazione di Porto Longone però non si mostrava disponibile a farsi rioccupare dai francesi, contro i quali aveva combattuto sanguinosamente due anni prima, e rivendicava il proprio diritto di autodeterminazione.

Quando i francesi sbarcarono in forze, dopo alcune scaramucce, gli abitanti delle comunità elbane di montagna si sottomisero, rifiutando però, nella loro maggioranza, di consegnare le armi. I francesi riuscirono a prendere il pieno controllo dell’isola, a meno di Portoferraio, dove il braccio di ferro tra de Fisson — che opponeva ragioni di forma forse per coprire il reale intento di continuare la guerra contro la Francia a fianco dell’Inghilterra, la quale non aveva firmato il trattato di pace, — e i francesi si protrasse a lungo al prezzo di un duro assedio e di sanguinosi scontri, senza che i britannici effettuassero sbarchi a sostegno del presidio di Portoferraio. Neppure l’invito a sottomettersi da parte del plenipotenziario di re Ludovico fu sufficiente a smuovere l’ufficiale. Ma con il trattato di Amiens (aprile 1802) tra Francia e Inghilterra quest’ultima si impegnava a non interferire più nell’area tirrenica e abbandonava i resistenti elbani al loro destino. I dubbi sulle reali garanzie di incolumità in caso di resa — accentuati dall’atteggiamento inesorabilmente intransigente del comandante francese François-Dominique Rusca (1761-1814), uno di primi generali dell’Armata d’Italia, originario di Pavia, atteggiamento che gli valse tra l’altro la rimozione e il collocamento a riposo da parte del suo antico comandante — spinsero alla fine de Fisson e gli altri soldati ex granducali a imbarcarsi sulle navi inglesi che sgomberavano l’arcipelago toscano. L’11 giugno 1802 l’Elba veniva definitivamente occupata dalla Francia e, senza alcuna consultazione degli abitanti, unificata — per la prima volta dopo duecento anni — e unita alla Repubblica francese.


4. LA BATTAGLIA DI PROCCHIO

Si tratta dello scontro senz’altro più importante dell’intera insorgenza elbana, ma esso viene così «liquidato» da una storiografa odierna. «I francesi sbarcarono in forza ed ebbe luogo nell’isola una prolungata e feroce guerriglia tra reparti francesi, inglesi, toscani e borbonici, a cui si unì la plebe dell’isola, probabilmente aizzata dal clero contro i francesi. Presso Procchio i marcianesi riportarono una vittoria sulle milizie repubblicane» (19): un rapido cenno, nulla più. Ben diversa fu la realtà, che, seguendo le memorie storiche di Vincenzo Mellini Ponçe de Leon (20), è possibile far emergere dall’oblio.

Il 10 giugno 1799, verso sera, sei bastimenti provenienti dalla Corsica sbarcarono a Portoferraio, in mano ai francesi e ai giacobini, truppe francesi fresche ammontanti a circa 850 uomini. I napoletani si erano ritirati a Porto Longone e gli elbani presidiavano Procchio e i punti rilevanti del territorio. Dall’alto delle grotte all’Annunziata chiudevano l’accesso alla piazza fortificata di Portoferraio dal lato di terra, sì «[...]da non lasciarvi uscire alcuno, senza correre il rischio di rimanere ucciso o di essere fatto prigioniero» (21). I rinforzi francesi restavano così bloccati all’interno della piazzaforte assediata.

Gli insorgenti avevano saputo da alcuni prigionieri di possibili sbarchi francesi a Marina di Campo per tentarne il saccheggio ed erano dunque in guardia perché «[...] stavano in continuo timore di essere aggrediti dai francesi» (22).

Un pericolo ancor più serio però li minacciava: «[...]una parte della popolazione di Marciana Marina, che manteneva segrete corrispondenze coi giacobini di Portoferraio, si mostrò disposta a entrare in trattative di pace coi francesi» (23), rischiando così di incrinare la compattezza degli insorgenti.

Ci furono, dunque, giorni di trattative, con la richiesta di ostaggi da parte francese, mentre questi tentavano di rompere il blocco di Portoferraio. Ma i popolani di Marciana Marina, convocati dal Governatore di Marciana e di Poggio Antonio Sardi, «[...]ravvisando nella consegna degli ostaggi un tranello per averli in piena balia, a voti unanimi sdegnosamente la respinsero» (24). Essi, insieme agli insorgenti di Poggio, Sant’Ilario e San Piero, ordinarono «[...] di far massa prima che cadesse la notte, a Procchio, per ributtare una possibile aggressione del nemico; e quest’ordine venne eseguito subito con entusiasmo indescrivibile» (25).

Alla fine i francesi ruppero l’assedio di Portoferraio e iniziarono a muovere contro gli insorgenti. Gli elbani ignoravano che in quei giorni (13 giugno 1799) il cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827) era entrato in Napoli alla testa dell’Armata della Santa Fede cacciandone i francesi, e che questi erano in una situazione generale di estrema debolezza. Quando il 16 giugno (26) videro i francesi «[...] in numero di 1500 a 1700, formate in tre colonne, con alla testa alcune guide prese a Portoferraio, a bandiere spiegate ed a Tamburo battente» (27), «[...] aspettandosi un numero inferiore di nemici, capirono che sarebbe stata una follia affrontarli a campo aperto, e, quindi, silenziosamente lasciarono Procchio, protetti dalle macchie e dalle accidentalità del terreno e si disposero occupando le posizioni più atte alla difesa, a impedirgli il passo verso i loro paesi, determinati a vincere o a morire» (28). Arrivate alla piana di Procchio le tre colonne francesi si diressero, rispettivamente, la prima, forte di 450-500 uomini, verso i paesi di Campo; la seconda, forte di 600-700 uomini, verso Poggio e Marciana; la terza infine, con un effettivo di 450-500 uomini, verso Marciana Marina.

La popolazione, terrorizzata dall’avanzata dei francesi, che era evidente marciassero in direzione dei tre paesi per sottometterli con le armi e con la violenza, si rifugiò sui monti, mentre tutti gli uomini e i giovani validi furono chiamati a raccolta al suono delle campane a stormo e delle tufe (29) per raggiungere chi si era già mobilitato: chi, forse comprato dall’oro nemico, voleva arrendersi, veniva isolato. La prima colonna francese, arrivata alle Piane del Solicastro, nella piana di Marina di Campo, fu assalita dai campesi e dagli abitanti di Capoliveri «[...]che sbucarono dalle boscaglie circostanti [...], l’assalirono ferocemente di fronte, ai fianchi e alle spalle e la costrinsero affermarsi, in poco tempo la sgominarono e la travolsero in fuga verso Procchio» (30).

Vi è qui un contrasto fra lo storico filo-giacobino Giuseppe Ninci e il legittimista Vincenzo Mellini Ponçe de Leon: il primo asserisce che le guide reclutate dai francesi, essendo dalla parte degli insorgenti, avrebbero favorito questi ultimi, mentre il secondo, invece, sostiene che «sventuratamente per i francesi le prime a cadere furono le guide, a tal che trovatisi disordinati in quel labirinto di viottoli frastagliati da macchie, e da fossati e non sapeva più ove dirigersi, furono in breve tempo quasi tutti o uccisi o fatti prigionieri» (31). «Coloro che più si distinsero in questo fatto d’armi furono, stando alla tradizione, un Francesco Magi, detto Francescone e Giovan Domenico Nuti, ambedue di Sant’Ilario. Il primo dotato di una forza erculea e di un coraggio a tutta prova, non lasciò mai le prime file: fu sempre nel più folto della mischia a incuorare i suoi e quantunque bersagliato più che gli altri, per la sua alta statura e per il berretto rosso che portava, dal fuoco nemico, uscì incolume da quello scontro: lo che venne attribuito a miracolo e ne fu fatto un quadro votivo che ancora si conserva, nel quale venne raffigurato, col berretto frigio in capo, in atto di fulminare il nemico col suo archibugio. Il secondo che ancor lui aveva fatto prodigi di valore; sul finire del combattimento, nonostante che fosse affranto dalla sin’allora sostenuta; pure desiderando di mandare un’ultima palla ai fuggitivi; mentre, caricato dietro uno scoglio l’archibugio, si faceva avanti, scuoprendosi, per assestare il tiro, colpito da un proiettile nemico, cadde fulminato al suolo, suggellando col suo sangue la vittoria» (32).

La seconda colonna marciava con sicurezza, convinta che gli insorti di Poggio e Marciana fossero ancora impegnati nel blocco di Portoferraio, ma quando giunse «[...]ai magazzini pogginchi in Consummella fu accolta da un fuoco di moschetteria, così ben nutrito, così ben diretto così micidiale, sostenuto da bersaglieri invisibili, perché nascosti dalle boscaglie, dai muri a secco e dagli scogli che rendevano quel terreno quasi impraticabile, che la costrinse ad indietreggiare sino al punto di partenza per riordinarsi» (33).

La terza colonna poi, «pervenuta sino al Bagno, ove era l’arsenale della Tonnara; mentre credeva di continuare senza ostacoli la via per Marciana Marina, giacché riteneva che i pogginchi e i marcianesi fossero impegnati colla seconda; si vide tutto a un tratto sbarrata la strada da un reparto di essi che l’avvilupparono in un cerchio di fuoco, ed ancor essa indietreggiò, inseguita dal nemico, verso Procchio» (34).

Intanto i campesi, sbaragliati i francesi e sentito il rumore del combattimento presso Procchio, si divisero in due gruppi, il primo, «[...]tutti giovani dalle scarpe leggere, con una marcia rapidissima, per viotoli da essi solo conosciuti» (35), raggiunse il luogo della Lamaia, sopra il Golfo della Biodola, al centro della costa settentrionale dell’isola, per chiudere da quel lato la ritirata dei francesi. L’altra, formata dagli uomini adulti, «[...]al suono formidabile delle tufe e dei tamburi, emettendo grida di vittoria, corse a Procchio ad assalire sul fianco sinistro il nemico» (36) che stava cercando di riordinarsi. «Impegnatosi un fuoco micidiale su tutta la linea da ambo le parti; i francesi, stretti da due lati, cominciarono a piegare ed una porzione di essi si ritrasse, in buon ordine, verso la spiaggia di Procchio, ove erano giunte in loro soccorso due bombarde, colla speranza di salvarsi sulle molte barchette rimorchiate da queste: e l’altra, visto libero lo stradale per Portoferraio, credendo più agevole salvarsi per la via di terra che per quella di mare, vi si gettò a tutta corsa. Se non che giunta alla Lamaia, escirono dall’imboscata i capoliveresi ed i santilariesi a chiuderle il passo e cominciarono da quelle boscaglie, che ancora oggidì ingombrano quella località, un fuoco così vivo che la costrinsero a gettarsi a rompicollo verso la spiaggia della Biodola, ove parecchi poterono a stento salvarsi nelle barchette mandate in loro aiuto.

I marcianesi e i pogginchi, resi più audaci per la doppia vittoria dei campesi, al suono delle tufe, i reboati delle quali erano ripetuti dagli echi dei colli e delle vallate dei dintorni, fecero un nuovo sforzo: si gettarono animosi sul nemico; lo sgominarono e lo costrinsero a fuga precipitosa verso la spiaggia, alla quale erano già approdate alcune barchette, mandate dalle bombarde a salvarlo. Quivi appunto non trovarono scampo e vi seguì la strage maggiore, aumentata dal fuoco a mitraglia delle bombarde. Molti soldati francesi, incalzati dagli elbani, gettando via le armi, si slanciarono in mare: alcuni annegarono prima di giungere alle barche; ed altri montati in troppo numero in una scialuppa, perirono miseramente nelle onde, essendo questa colata a fondo per il carico soverchio.

Oltre gli uccisi ed i feriti nelle macchie e nei fossi al Salicastro, a Re di Noce ed alla Lamaia e non contando gli annegati, si numerarono circa 240 cadaveri sulla spiaggia di Procchio e vennero fatti 120 prigionieri, compresi cinque uffiziali; oltre una grande quantità d’armi cadute in potere dei vincitori.

A confessione degli stessi francesi le perdite da essi fatte in quella giornata, sommarono da 400 a 500 uomini tra morti e feriti e sarebbero state di gran lunga maggiori, se la mitraglia delle bombarde non avesse tenuto indietro la massa degli elbani: parecchi dei quali non si peritarono di gettarsi in mare ed inseguire il nemico.

Anche gli elbani ebbero morti e feriti, ma le memorie dell’epoca non ne determinarono il numero» (37).

5. LA «MADONNA DEL MONTE»

Cessato lo stato di guerra, il 24 luglio le popolazioni elbane in armi smobilitarono, ritornando alle ordinarie occupazioni: ovunque però «[...] ringraziarono l’Eterno per essere rimasti liberi dallo straniero» (38). Ma i marcianesi «[...] vollero anche più solennemente celebrare con feste religiose la liberazione dell’Isola. Governatore, anziani, clero e popolo si portarono (25 Luglio) processionalmente al santuario della Madonna del Monte, da essi venerata come protettrice speciale dei loro focolari; e pagando un tributo all’orgoglio nazionale, giustificato dalla coscienza di avere adempiuto ad un dovere, deposero ai piedi dell’altare, quale trofeo delle loro battaglie, bandiere, moschetti, sciabole e casse da tamburo, conquistate dal loro valore sul nemico e, a memoria ed ad esempio dei posteri, vi apposero la seguente iscrizione:

M. AET.
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HAEC PATRIAE MONUMENTA VIRTUTIS
HOSTIBUS PLURIES VICTIS FUGATIS DELETIS
EREPTA
DEIPARAE PATRONAE ADIUTRICI
IN OBSEQUENTIS GRATIQUE ANIMI
ARGUMENTUM
POPULUS MARCIANENSIS
A.R.S. 1799»

[«Questi ricordi del patrio valore, strappati ai nemici più volte vinti, messi in fuga e sbaragliati, sono espressione di riverenza e gratitudine alla Madre di Dio, protettrice ed ausiliatrice. Anno della ricuperata salvezza 1799»] (39).

Questo monumento, a tutt’oggi esistente, prima scolpito in legno, poi, «[...]nel 1864 trasformato in marmo» (40), è l’unico segno che ricorda quei fatti. Il santuario della Madonna del Monte è posto nel comune di Marciana, a quota 627 metri (41). La strada in salita che conduce al santuario è fiancheggiata dalle 14 stazioni di una Via Crucis, voluta dagli elbani per ricordare le loro sofferenze, patite a seguito della occupazione francese rivoluzionaria e sconosciute ai propri compatrioti italiani.

In un’Italia piena di monumenti e piazze dedicate agli «eroi» della Rivoluzione, quella targa posta in mezzo al mare e sui monti, invita a scoprire, capire, studiare la storia del nostro paese, con senza ottiche preconcette. Quanto a me, condivido la speranza che in futuro si sciolga il voto di Vincenzo Mellini Ponçe de Leon, che per i fatti descritti voleva più monumenti, su uno dei quali, da porre in Procchio nel lato destro dello stesso, avrebbe voluto scritto: «Qui il XVI giugno MDCCXCIX dai popoli collegati dell’Elba, ebbero completa sconfitta le soldatesche repubblicane francesi» (42). Vincerebbe così la verità storica oggi stravolta o lasciata nell’oblio dalla storia «ufficiale».

Benedetto Tusa



Note

(1) Cfr. GIUSEPPE NINCI, Storia dell’Isola d’Elba, Portoferraio (Livorno) 1815, reprint Forni, Bologna 1968, e VINCENZO MELLINI PONÇE DE LEON, Delle memorie storiche dell’Isola d’Elba, Tipografia Raffaele Giusti, Livorno 1890, vol. V, p. 319.
(2) V. MELLINI PONÇE DE LEON, op. cit., vol. V, p. XI; da cui risultano consultati memorie e diari anche manoscritti, stampa, archivi parrocchiali, oltre che tutte le più importanti opere sul periodo in esame allora esistenti.
(3) ANNA BENVENUTI PAPI, Breve storia dell’Elba, Pacini Editore, Pisa 1991, p. 107.
(4) Ibidem.
(5) Ibid., pp. 104-105.
(6) V. MELLINI PONÇE DE LEON, op. cit., p. 12.
(7) Ibid., p. 6.
(8) Ibid., p. 10.
(9) Cfr. ibid., p. 4.
(10) Cfr. ibid., pp. 310-312.
(11) Cfr. ENRICO LOMBARDI, Santuario della Madonna del Monte di Marciana nell’Isola d’Elba, a cura dell’Opera del Santuario, Queriniana, Brescia 1964.
(12) GIOVANNI CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 2a ed. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, p. 13.
(13) PIERO BARGELLINI, Mille Santi del giorno, Vallecchi-Massimo, Firenze- Milano 1977, p. 584.
(14) A. BENVENUTI PAPI, op. cit., p. 110.
(15) Ibidem.
(16) GINO RACHELI, Le isole del ferro, Mursia, Milano 1978, p. 294.
(17) A. BENVENUTI PAPI, op. cit., p. 112. Sulla asserita «presa della Bastiglia» da parte del popolo di Parigi, cfr. JEAN DUMONT, I falsi miti della rivoluzione francese, con una prefazione di Giovanni Cantoni, Effedieffe, Milano 1989, pp. 12-13.
(18) Cfr. FRANZ PESENDORFER, Ferdinando III e la Toscana in età napoleonica, trad. it., Sansoni, Firenze 1986, pp. 281-284, passim.
(19) ANTONIO DE GIACOMO, L’isola dai mille fuochi, Bollerini & Fratini, Firenze 1971, p. 59.
(20) Una copia del volume citato è conservata presso la Biblioteca Comunale Foresiana di Portoferraio.
(21) V. MELLINI PONÇE DE LEON, op. cit., p. 242.
(22) Ibid., p. 246.
(23) Ibid., p. 247.
(24) Ibid., p. 248.
(25) Ibid., p. 249.
(26) Giuseppe Ninci e Gaspare Sella — quest’ultimo medico militare ed autore della Minuta relazione dei fatti accaduti nell’Isola dell’Elba invasa dalle armi francesi nel mese di aprile dell’anno corrente 1799, ed. Brazzini Firenze — ritengono che la sortita dei francesi ed il combattimento di Procchio fosse avvenuto il 22 giugno; V. Mellini Ponçe de Leon invece sostiene che i fatti avvennero il 16 luglio, sulla scorta concorde delle memorie manoscritte del governatore Antonio Sardi di Marciana, del sacerdote Domenico Magi di Sant’Ilario e a seguito della consultazione dei libri delle parrocchie interessate.
(27) V. MELLINI PONÇE DE LEON, op. cit., p. 250.
(28) Ibid., p. 251.
(29) Grosse conchiglie usate come strumenti a fiato, cfr. DOMENICO SIGNORINI, Dizionario Vernacolare Elbano, Ed. Libreria, Portoferraio (Livorno) 1994.
(30) V. MELLINI PONÇE DE LEON, op. cit., p. 252.
(31) Ibidem.
(32) Ibidem.
(33) Ibid.,pp. 252-253.
(34) Ibid., p. 253.
(35) Ibidem.
(36) Ibid., pp. 253-254.
(37) Ibid., pp. 254-255.
(38) Ibid., pp. 306-307.
(39) Ibid., p. 307.
(40) E. LOMBARDI, op. cit., p.15.
(41) Cfr. L’Elba fra mare e cielo, Vannucci, Portoferraio (Livorno) 1994.
(42) V. MELLINI PONÇE DE LEON, op. cit., p. 319.

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