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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale





Benedetto XV:
un grande Papa per un breve pontificato


Oscar Sanguinetti










L'articolo è il prodotto della rielaborazione e annotazione del testo della relazione tenuta dall'autore al convegno Benedetto XV. Il Pontefice della Grande Guerra, svoltosi a Perugia il 21 ottobre 2005, promosso dal locale Circolo Giorgio La Pira

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a figura di Benedetto XV (1914-1922) appare come particolarmente significativa — ma quale pontefice non lo è, in ultima analisi? — nella storia della Chiesa del secolo scorso.

 

Perché riparlarne a più di novant’anni di distanza dalla sua elezione?, Non è Benedetto XV, un personaggio tutto sommato rimasto un po’ in ombra nella storia del Novecento, quasi schiacciato — potremmo dire — dalle figure ben più corpose e vivaci di un Pio X (1903-1914), di un Pio XII (1939-1958) o di un Giovanni Paolo II (1978-2005), per fare degli esempi?

 

In generale, parlare o riparlare di storia, se è vero che la storia ammaestra, non è mai ozioso e arricchisce sempre, soprattutto se si tratta di argomenti come la biografia di un successore di Pietro. Credo però che riguardo a Benedetto XV vi sia stato un ritorno di interesse dopo che, il 27 aprile del 2005, abbiamo udito il neo-eletto Papa, il card. Joseph Ratzinger, dichiarare: «Ho voluto chiamarmi Benedetto XVI per riallacciarmi idealmente al venerato Pontefice Benedetto XV, che ha guidato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo conflitto mondiale. Fu coraggioso e autentico profeta di pace e si adoperò con strenuo coraggio dapprima per evitare il dramma della guerra e poi per limitarne le conseguenze nefaste. Sulle sue orme desidero porre il mio ministero a servizio della riconciliazione e dell’armonia tra gli uomini e i popoli, profondamente convinto che il grande bene della pace è innanzitutto dono di Dio, dono purtroppo fragile e prezioso da invocare, tutelare e costruire giorno dopo giorno con l’apporto di tutti» [1].

 

La grandezza di quello che ora possiamo chiamare l’«altro» Benedetto,  quello del secolo scorso, sta dunque — ed è proprio Papa Ratzinger a sottolinearlo — nella capacità che ebbe di guidare con acume e serena fermezza la barca di Pietro in un frangente del tutto drammatico, facendola uscire integra da una tempesta senza precedenti e approdare a una condizione nuova e migliore nei suoi rapporti con un mondo che la guerra aveva profondamente cambiato.

 

Ma, se vogliamo capire qualcosa, dobbiamo domandarci per prima cosa com’è questo mondo, qual è il mondo che Benedetto incontra all’inizio del suo ministero e, soprattutto, qual è quello che lascia al momento del suo transito.

 

 

1. Il mondo di Benedetto

 

Il XX secolo ha avuto senz’altro diverse letture, non tutte concordanti, ma, a misura che lo sguardo retrospettivo dello storico ne illumina sempre più le vicende e ne penetra sempre più la trama, se ne va consolidando fra gli studiosi un’immagine che definire tutt’altro che rosea è un consapevole eufemismo. Quel secolo, che è stato definito dallo studioso marxista Eric Hobsbawm il «secolo breve» [2], aperto nel 1914 dalla prima guerra mondiale e chiuso nel 1989 dalla rimozione del Muro di Berlino, ha infatti conosciuto altre due, probabilmente ancor più spaventose, guerre mondiali — la terza, quella «fredda», quella meno visibile e vistosa, secondo una stima, ha fatto circa trenta milioni di vittime ([3] —, i peggiori regimi totalitari della storia, le più tremende forme di «peccato sociale».

Una età che per lo storico Karl Dietrich Bracher [4] è il «secolo delle ideologie», evidenziando così la tirannia delle utopie sociali sulla vita dei popoli che lo caratterizza in maniera dominante. Ideologie che non sono meri sistemi di pensiero, neutri nelle loro conseguenze, ma sono «idées qui tuent», idee che uccidono, secondo la felice espressione dello scrittore francese Jacques Ploncard d’Assac (1910-2005) [5], e che fanno del Novecento, secondo Robert Conquest, addirittura il «secolo delle idee assassine» [6]: un’espressione indubbiamente «forte», ma molto meno forte del titolo, il «secolo del male», che Alain Besançon ha apposto a un suo recente e stimolante saggio su nazismo, comunismo e Shoah [7].

 

Gli anni in cui Benedetto si trova a reggere la Chiesa sono anni di svolta, anni in cui davvero finisce l’Ottocento e prende corpo il Novecento, intesi non come mere partizioni cronologiche della biografia europea ma come due realtà qualitativamente diverse. Intorno a quegli anni, infatti, il portato a dominante «politica» della modernità — o, meglio, di quella sua declinazione che si rivela fattualmente vincente —, espressa dalle dinamiche originatesi nel 1789 — dopo quelle a dominante «religiosa» apertesi con il 1517 — passano a una fase a dominante «sociale», emblematizzata dalla Rivoluzione dell’ottobre 1917 in Russia. Le idee dell’Ottantanove nel frangente si «socializzano», non sono più patrimonio esclusivo o privilegiato di quelle minoranze borghesi e liberali che hanno dato il tono all’Ottocento, ma cominciano a estendersi a strati sempre più vasti della società, organizzandosi all’interno di coordinate ideologiche forse non nuove, ma che si precisano sempre più e ora divengono motrici di un accelerato cambiamento. Quella del primo Novecento si presenta come una società in transizione la quale, nella perdurante presenza del solvente individualistico di marca liberale, sotto gli assalti della montante utopia socialista — rivoluzionaria e non —, esposta ai venti di una sempre più travolgente Rivoluzione industriale, vede ogni giorno di più logorarsi il proprio tessuto connettivo, sia esso religioso o civile, tende sempre più a dis-aggregarsi e a de-strutturarsi, mentre si allentano i legami sociali naturali e si logora il perno religioso tradizionale, s’indebolisce la memoria del passato e la società tende a diventare così con sempre maggior accentuazione una «società di massa», in cui si profila minacciosa quella «ribellione», delle masse appunto, di cui sarà acuto diagnostico José Ortega y Gasset (1883-1955) [8], ma che ha già trovato un precedente nella lucida prosa del cattolico Juan Donoso Cortés (1809-1853) [9].

 

L’Europa del 1914 è sì — ancora, aggiungerei — l’Europa della Belle Epoque, dei re e degli imperatori, delle corti e delle ambasciate, delle uniformi e della cavalleria. Ma è già un’Europa che le coscienze più sensibili di allora, credenti e non credenti — basti pensare all’accorata denuncia dell’attivismo e di altre corruzioni del «robusto idealismo» ottocentesco, di cui è autore il filosofo Benedetto Croce (1866-1952) [10] —, iniziano ad avvertire come ammalata nella sua fibra intellettuale e spirituale.

 

La guerra del 1914 fungerà da catalizzatore di queste patologie dell’anima europea e, alla fine del pontificato benedettino, si rileverà quanto profondamente quelle linee di forza, cui ho accennato, abbiano mutato la fisionomia della civiltà occidentale.

Non ci saranno più gli imperi, retaggio della civiltà sacrale, ma regneranno le ideologie moderne. Nasceranno nuove forme di potere: gli autoritarismi nazionalisti e le dittature fasciste, a loro volta battistrada dei totalitarismi. S’invocheranno nuove ragioni di legittimazione politica: la classe e, ben presto, l’ethnos inteso biologicamente. E nasceranno anche nuovi tipi di conflitto: la guerra «ideologica», la guerra rivoluzionaria, ovvero la guerra delle utopie contro i popoli e le loro tradizioni.

 

 

2. Giacomo della Chiesa

 

Se questo è, per sommi capi, il mondo di Benedetto XV, viene ora da chiedersi, un po’ manzonianamente [11], chi era Benedetto XV [12]?

 

2.1 Verso il pontificato

 

Giacomo della Chiesa nasce a Genova nel 1854 da un’antica famiglia aristocratica originaria della Valsassina. Nell’albero genealogico paterno e materno figurano, anche se in anni ormai lontani, ben due pontefici, rispettivamente Callisto II (1119-1124) e Innocenzo VII (1404-1406) [13]. È impressionante quanto il suo itinerario formativo assomigli a quello di Eugenio Pacelli. Brillanti studi classici, collegio ecclesiastico, studi universitari in diritto, precoci vocazione e ordinazione — per Giacomo nel 1878, quando muore Pio IX (1846-1878) e ascende al soglio Leone XIII (1878-1903) —, accademia dei nobili ecclesiastici a Roma, tirocinio di nunziatura all’estero — in Spagna, nel caso di Giacomo —, ritorno a Roma e ingresso nella Segreteria di Stato. Giacomo della Chiesa resterà nella Segreteria, retta in quegli anni dal cardinale Mariano Rampolla del Tindaro (1843-1913), fino al 1907, quando Pio X lo vorrà arcivescovo di Bologna.

Nei sette anni di episcopato bolognese — coronati assai tardi dalla porpora cardinalizia — il presule genovese si fa apprezzare dalla popolosa diocesi per la sua dolce e umana fermezza, accompagnata da una ardente carità anche materiale.

Il Conclave del 1914 lo vedrà accettare con serenità l’altissima missione di successore di Pietro. Come accadrà di nuovo nel 1939 con Eugenio Pacelli, i cardinali elettori vedranno in Giacomo Della Chiesa, diplomatico navigato e dimostratosi valente pastore, la guida ideale di cui ha bisogno la Chiesa in un mondo che entra in un conflitto dagli sviluppi imprevedibili.

 

2.2 Il profilo umano

 

Benedetto non è un figlio di contadini come Pio X, ma viene da una famiglia nobile e riceve una educazione da aristocratico.

È un prelato di curia, un giurista preparato, un raffinato intellettuale e un esperto di relazioni internazionali, un prodotto riuscito di quella grande scuola di «esperienza in umanità» che è la Curia vaticana.

Come persona fisica e come carattere è una figura, come si dice oggi, assai poco carismatica: piccolo, dal viso irregolare, leggermente claudicante, non è certo un personaggio che oggi si direbbe «buchi gli schermi», alla Giovanni Paolo II. Intelligentissimo e, smentendo il pregiudizio contro i liguri, assai generoso, è un tipo riservato, ma non freddo, né alieno da un certo humour elegante, che però talora improvvisi malumori e scatti d’impazienza intersecano.

Ha pochi amici, anche se per la vita, come il quasi coetaneo vescovo piemontese Teodoro Valfrè di Bonzo (1853-1922), nunzio a Vienna negli anni della guerra, che Benedetto nominerà cardinale nel 1919 e che, per inciso, morirà nello stesso anno di Giacomo.

 

2.3 La «linea» del pontificato benedettino

 

Benedetto si dimostra meno sensibile del predecessore ai pericoli che possono derivare per la fede dal confronto con le ideologie moderne e con i metodi scientifici del primo Novecento. O, quanto meno, ne dà un giudizio più sfumato rispetto a quello di Pio X. Meno propenso di questi alle scelte nette, Della Chiesa si è formato nel clima di apertura del pontificato leoniano e all’ombra del suo protettore, il cardinal Rampolla, quel cardinale che — anche se mons. Della Chiesa riferì di non condividere questa tesi — l’imperatore Francesco Giuseppe (1830; 1848-1916) non aveva voluto papa alla morte di Leone XIII [14].

Per tutti questi motivi e per l’influenza che esercita su di lui la «robusta» figura, così diversa dalla sua, del Segretario di Stato, cardinale Pietro Gasparri (1852-1934), le sue scelte intraecclesiali divergeranno alquanto da quelle del santo predecessore.

Mentre conferma con nettezza la condanna del modernismo, mantiene il giuramento anti-modernista per i nuovi sacerdoti e conferma gli organi di vigilanza diocesani, smobilita il Sodalitium Pianum, l’agenzia d’informazione — per gli avversari: di delazione — ecclesiali messa in piedi da monsignor Umberto Benigni (1862-1934), ed emargina i principali attori della battaglia anti-modernista, come Benigni e il Segretario di Stato di Pio X, il cardinale spagnolo Rafael Merry del Val (1865-1930). Con i modernisti, leonianamente, sembra anteporre la pedagogia alla condanna, se così si può interpretare la fondamentale enciclica sull’esegesi biblica Spiritus Paraclitus emanata nel 1920 per commemorare il quindicesimo centenario della morte del traduttore della Bibbia in latino, san Gerolamo (347ca.-420). Soprattutto, Benedetto pare non condividere l’eccessivo arroccamento nelle relazioni esterne attuato dal santo predecessore. Mentre all’interno dell’organismo ecclesiale interverrà fin da subito, non avrà il tempo di impostare una linea politica di lungo respiro verso l’esterno, poiché i rapporti fra i popoli, quando sale al soglio di Pietro, sono già precipitati in una tragica spirale di rissa e di odio.

 

Benedetto XV si spegnerà nel 1922 per una banale bronchite, due mesi prima del giovane e devoto amico Carlo d’Austria (1887-1922), offrendo, come fece que-st’ultimo, la sua vita per la pace dei suoi popoli, ossia, nel caso del Papa, dell’intera umanità.

 

 

3. La condizione della Chiesa al tempo di Benedetto XV

 

Come accennato, il mondo di Benedetto, almeno nella cultura delle élite e incipientemente in quella delle masse, è un mondo — nel senso neutro del termine — in cui, almeno nella sfera pubblica — ma, come si comprende, non senza riflessi anche in quella privata —, la fede nella rivelazione cristiana impallidisce costantemente e la sua tradizione sembra anch’essa affievolirsi: un mondo che sembra soccombere al «mondo» nel senso forte cristiano delle «tre concupiscenze», le quali sembrano venir incarnate, ormai in maniera vessillare, metodica e organizzata, dai movimenti politici moderni, che in alcuni casi sfruttano a questo scopo il propellente costituito del potere. Un mondo che, nel suo sforzo di mondare la Chiesa da indebite incrostazioni storiche, non di rado scivola in quel «secolarismo», corruzione della sana secolarizzazione, che Paolo VI (1963-1978) ha equi-parato all’ateismo [15], che Giovanni Paolo II ha più volte condannato [16] e che nel suo saggio La pedagogia della secolarizzazione e il conflitto delle culture il filosofo Augusto del Noce ha acutamente definito «[…] la riduzione della religione trascendente o della morale che ne dipende a retaggio del passato destinato progressivamente a scomparire» [17].

La prima reazione, quella dei Papi del 1700 e del 1800, all’imporsi e poi al trionfo delle idee moderne aveva assunto la forma del monito e della condanna dottrinale [18]: il Sillabo del 1864 ne è, in più di un senso, l’emblema [19]. Tuttavia già con Leone XIII, nell’ultimo quarto del secolo XIX, matura nella Chiesa la consapevolezza che la frattura con il mondo determinatasi un secolo prima vada in qualche modo ricomposta. In effetti il vecchio mondo non c’è più: e tale dato di fatto non muta anche se si pensa — legittimamente, peraltro — che qualcuno ha buttato via il bambino con l’acqua sporca del bagno, come si usa dire. E una civiltà cristiana — ossia una società storica, più o meno estesa, in cui il cristianesimo dà forma alla cultura e questa a sua volta ne modella le istituzioni — può risorgere, di sicuro in nuove forme, solo a prezzo di un grande sforzo di auto-evangelizzazione, di cui è premessa la rielaborazione e l’aggiornamento della dottrina cattolica sulla società. Questo sforzo costituirà l’asse del pontificato di Leone XIII, che produrrà fra l’altro quel gigantesco monumento di teologia e di scienza sociale — ma anche di ascesi e di mistica della vita in società e della società medesima, in quanto ente collettivo —, destinato a lasciare una traccia profonda, e di cui l’enciclica Rerum novarum del 1891 è solo un importante capitolo.

Tuttavia, nonostante il nuovo atteggiamento della Chiesa, le ideologie moderne, nella loro duplice spinta immanentistica e secolarizzatrice — e ben presto materialistica e ateistica —, proseguiranno nella loro espansione aggressiva e tendenzialmente onnipervasiva, sì che il breve pontificato di Pio X segnerà quasi fatalmente un momento di arroccamento dottrinale e disciplinare della compagine ecclesiale [20].

Benedetto XV — come peraltro tutti i pontefici a lui successivi — si porrà non solo il problema dell’auto-difesa, ma anche quello delle forme attraverso cui dialogare con il mondo del suo tempo, con un mondo profondamente cambiato e sempre più alieno da una relazione subordinata o anche solo organica con la Chiesa. Egli apprezza l’irrobustimento della struttura ecclesiale attuato con grande sforzo dalla «restaurazione» che si era posta come programma — «Instaurare omnia in Cristo» era stata la sua divisa pontificale — Pio X ed è conscio che la solidità della base di partenza è la condizione di ogni apertura, ma — anche grazie a tale sforzo di ricompattamento — propenderà per la linea leoniana, più incline al confronto con la cultura della modernità [21], favorevole a mantenere comunque relazioni, anche nel divergere delle opinioni, con le potenze mondane e d’intenti sostanzialmente rifondatori, piuttosto che per la linea piana di contrapposizione dottrinale e diplomatica.

 

 

4. La guerra mondiale

 

4.1 Il conflitto frutto della crisi della civiltà europea

 

Ma, come detto, il primo e decisivo impatto di Benedetto è con un mondo in stato di guerra e di una guerra — occorre sottolinearlo a oltranza — del tutto nuova. Oltre a pronosticarne, con successo, l’anno di inizio [22], Pio X aveva intravisto che sarebbe stata una «grande guerra», una guerra diversa dal solito, una guerra come mai il mondo aveva visto [23]. In effetti, quella del 1914 sarà altresì una guerra «moderna», combattuta con una mentalità moderna, da masse sterminate di combattenti arruolati con la forza, e con una strumentazione di morte frutto della più avanzata tecnologia del secolo XX: sarà un’eruzione devastante, nel cui flusso confluiranno tutte le derive patologiche di cui è gravido l’ethos dell’uomo europeo di inizio Novecento.

Benedetto, acutamente, scorgerà nella guerra appunto «[…] la conflagrazione dei mortali elementi fermentati nel materialismo; la crisi di pensiero e di coscenza [sic] di un’èra» [24] e una «“manifestazione sovra ogni altra odiosa del predominante disordine morale”» [25].

Pio XII, a sua volta, nel 1952 descriverà più in dettaglio la natura e la dinamica di questo «disordine morale», allorché scriverà: «Un […] “nemico” […] violento e subdolo […] negli ultimi due secoli ha tentato di operare la disgregazione intellettuale, morale, sociale dell’unità nell’organismo misterioso di Cristo. Ha voluto la natura senza la grazia; la ragione senza la fede; la libertà senza l’autorità; talvolta l’autorità senza la libertà» [26]. Un disordine, dunque, visto in questa prospettiva come il prodotto di un itinerario di «aversio societatis a Deo» e di «perdita del centro» — come lo descriverà il filosofo dell’arte austriaco Hans Sedlmayr  (1896-1984) [27] —, che avanza di crisi in crisi [28], dissociando realtà in sé buone, ma che, proprio in quanto lasciate a sé stesse, producono effetti funesti.

 

Molteplici segnali nell’età di Benedetto — alcuni che precedono, altri che seguono il conflitto — sostanziano questa lettura in termini di regresso etico dello sviluppo della civiltà moderna in Occidente. Per citarne solo alcuni: la tremenda guerra russo-giapponese del 1904-1905, autentica anticamera della guerra mondiale [29]; il genocidio degli armeni nella Turchia post-ottomana del 1915 [30]; la nascita — già alla fine del secolo precedente, durante il conflitto anglo-boero — dei campi di prigionia e di concentramento [31]; lo sterminio del clero russo e ucraino a opera dei bolscevichi [32]; i bagliori della persecuzione anti-religiosa nel Messico cattolico [33]; la nascente dottrina eugenetica — non solo in Germania, ma anche negli Stati Uniti e nei paesi scandinavi — [34] e le prime forme di razzismo biologico [35].

 

4.2 Il conflitto, sbocco di una politica di potenza secolarizzata

 

Spostandosi su un piano meno astratto, si osserva come le radici storiche della guerra europea affondino in un passato non vicino. Da decenni, infatti, l’Europa, al di là di una pace apparente, va accumulando un potenziale di conflitto sempre più altamente esplosivo, la cui miscela è composta di diversi ingredienti.

In primis la politica di potenza degli Stati nazionali europei, ciascuno geloso della sua autonomia, preoccupato del possibile estendersi del peso politico e strategico del vicino e goloso di ampliamenti territoriali ai suoi danni, magari giustificati con ragioni di riunificazione nazionale. A questa politica fanno da pendant le spinte, spesso veementi, dei movimenti nazionalistici, soprattutto il pangermanesimo tedesco e austriaco, il revanscismo anti-tedesco dei francesi, il panserbismo e l’ideologia panslavistica russa. Negli Stati nazionali queste spinte si riversano di norma sul rivale, sia nel senso di concorrente, sia in quello di confinante: basti pensare alla Germania e alla Francia. All’interno dei superstiti imperi, le nazionalità premono per dissolverne la costituzione pluralistica, dando vita a Stati fondati nazionalmente e territorialmente. Soprattutto la straordinaria ascesa del neonato Reich germanico si scontra sul piano strategico con le mire di grandezza della Repubblica Francese e con le esigenze di predominio mondiale dell’Impero britannico. Come è stato bene riassunto, in ultima analisi, «la Francia voleva l’Alsazia e la Lorena; la Germania altre colonie, una flotta più grande e l’egemonia sul Vicino Oriente. L’Austria voleva la sottomissione della Serbia e un porto a Salonicco, la Russia il Bosforo e i Dardanelli. La Serbia aveva i suoi piani sulla Bosnia e l’Erzegovina, l’Italia su Trento e Trieste, la Romania sulla Transilvania, che rivendicava dall’Ungheria, e sulla Bessarabia che intendeva togliere alla Russia» [36].

Con queste premesse è inevitabile che l’esplosione avvenga e l’attentato di Sarajevo del giugno 1914 ne sarà l’innesco. Nell’agosto di quell’anno scoppia così il «guerrone» [37] che aveva pronosticato Pio X e che segna la fine dell’Europa come centro politico del mondo.

 

4.3 Un periodo di osservazione

 

Fin dai primi giorni del suo pontificato il sessantenne Giacomo Della Chiesa ha dunque davanti agli occhi dell’intelletto e del cuore un complesso di realtà nuove e gravide di conseguenze drammatiche per l’umanità. Non è uno sprovveduto: la sua lunga esperienza di relazioni lo ha reso pienamente consapevole di che cosa si agiti nell’animo dell’homo europaeus e dietro la politica delle potenze mondiali. Ma si può anche intuire il suo disagio nel dover trarre giudizi sulla base di pochi elementi su realtà cangianti e, soprattutto, dover prender decisioni di ampio momento in tempi ristretti. La prima guerra mondiale esordirà con le armate schierate sul campo nelle loro belle divise colorate per continuare e finire nel fangoso e mortale grigiore delle trincee, in un crescendo di dolore e di disperazione. Per elaborare una linea di azione non improvvisata per la Chiesa occorrerà a Benedetto almeno un anno di tempo.

 

 

5. Benedetto e la guerra mondiale

 

Fin dall’enciclica di apertura di pontificato, la Ad beatissimi, Benedetto si rende conto di quali funesti sviluppi potrà avere una guerra [38], nata apparentemente per risolvere contenziosi politici tutto sommato minori, ma i cui attori sono uomini e gruppi sempre più estranei all’ethos cristiano e visibilmente in preda a una devastante febbre ideologica.

Impressionato e addolorato assistendo per la terribile carneficina che vede imperversare nel cuore della famiglia dei popoli un tempo ufficialmente cristiani — l’8 settembre 1914 scrive: «[…] vediamo tanta parte d’Europa […] rosseggiare di sangue cristiano» [39] —, intuisce che il conflitto è destinato a estendersi al mondo intero, che durerà a lungo e che sarà combattuto in maniera sempre più barbarica. I dati sulle perdite e sugli orrori sempre più gravi e diffusi conforteranno tragicamente, giorno dopo giorno, questi suoi presentimenti e pronostici.

Per testimoniare al mondo la gravità della situazione che si viene creando e il lutto incombente sull’Europa all’indomani della sua elezione Giacomo della Chiesa non vorrà essere incoronato in San Pietro, ma nella più discreta Cappella Sistina.

Il primo anno di guerra, come accennato, sarà per la Santa Sede un periodo di osservazione e di riflessione. Ma non saranno mesi sterili e inattivi: l’attenzione primaria sarà in questo frangente per le vittime, che il conflitto miete sempre più numerose. Su tutti i fronti e in tutti i paesi dove vi è presenza cattolica prende corpo allora un’ampia gamma di iniziative a favore dei feriti, dei prigionieri, delle famiglie dei combattenti, degli sfollati, che avrà grande incremento negli anni successivi.

Pian piano, in seguito, inizia a prendere forma una linea di azione.

 

5.1 L’offensiva magisteriale e diplomatica

 

A un anno dallo scoppio delle ostilità, Benedetto avvia una incalzante campagna contro la guerra, fatta di interventi magisteriali, di note diplomatiche, di lettere ad personam, ma non priva di silenzi, soprattutto quando verrà a più riprese «tirato per la giacca» dai cattolici interventisti e dai capi degli Stati in lotta.

Facendo appello ai popoli e ai loro reggitori, nella esortazione Allorché fummo chiamati, il 28 luglio 1915, definirà la guerra una «orrenda carneficina, che ormai da un anno disonora l’Europa» [40] e, ancora, ammonirà che «[…] il mutuo proposito di distru-zione» [41] non paga perché — e lo dice qui, già nel 1915, e non solo nella famosa Nota del 1917 [42], come molti hanno scritto — «[…] le nazioni non muoiono», ma «[…] umiliate ed oppresse, portano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa e trasmettendo di generazione in generazione un triste retaggio di odio e di vendetta» [43]. Nel messaggio del Natale dello stesso anno si dorrà che il mondo sia diventato «ossario e ospedale» [44]. Nel marzo 1916, ancora, parlerà di «suicidio dell’Europa civile» e del ricorso alle armi come «la più fosca tragedia dell’odio umano e dell’umana demenza» [45].

Benedetto non è un pacifista, cioè uno che avversa qualunque guerra «senza se e senza ma», come si usa dire ai nostri giorni: è un evangelico operatore di pace, che sa che la giustizia, per essere attuata in temporalibus, necessita talora anche della forza. Egli, di principio, detesta che i conflitti siano risolti — ma poi lo sono veramente? — esclusivamente attraverso la forza: ma soprattutto capisce che la guerra del suo tempo è contro ogni ragionevolezza, perché, visto il terribile potenziale distruttivo delle nuove armi — le bombe aeree, i siluri, i gas asfissianti, i carri armati, le mitragliatrici, le mine, i lanciafiamme —, le sue conseguenze, non solo sui combattenti, comportano quasi sempre un male che supera quello, reale o presunto, che si vorrebbe eliminare. Avendo costantemente davanti agli occhi questa realtà, Benedetto si adopera pertanto con ogni mezzo per far cessare la carneficina in atto fra i popoli europei e all’interno di ciò che era stata la cristianità o, almeno, per ricondurre la lotta su binari più civili.

Tre sono le linee della sua azione pastorale e diplomatica: in primis convincere i belligeranti a concordare una tregua e a siglare una pace; in mancanza di ciò, indurli a circoscrivere il conflitto e a umanizzarlo; infine, soccorrere le vittime dovunque si combatta, dalla Marna allo Stretto dei Dardanelli.

Si tratta di una politica la cui premessa è che non è lecito ai cattolici disobbedire alle leggi dei rispettivi Stati, sottraendosi alla lotta, né sabotare lo sforzo che le proprie nazioni stanno compiendo: tuttavia, spetta ai capi di governo, come tali e in quanto quasi tutti cristiani, cercare di ottenere quanto prima la pace, anche a costo di veder rimanere insoddisfatte in tutto o in parte le proprie rivendicazioni.

In questo impegno per la pace Benedetto — lo rivendicherà nell’appello dell’agosto 1917 — manterrà altresì un atteggiamento di assoluta e tenace equidistanza dai contendenti — tutti cristiani, tranne i turchi — e di rigida imparzialità azione nell’alleviare le sofferenze comuni.

Questa sua fermezza e l’accoratezza che metterà nel denunciare la follia del conflitto gli alieneranno le simpatie di quasi tutti i governi, ciascuno convinto che il Pontefice faccia il gioco del nemico. Solo il giovane successore di Francesco Giuseppe, l’imperatore d’Austria-Ungheria, Carlo I d’Asburgo (1887-1922), profonda-mente credente e futuro beato della Chiesa cattolica [46], darà ascolto con prontezza e docilità — ma senza peraltro riuscire a vincere le resistenze dell’apparato politico e militare, tutt’altro che in sintonia con il magistero del papa — alle richieste di Benedetto.

Ciononostante, questi non defletterà mai dalla sua politica e non penserà mai a una pace che sia frutto dalla vittoria dell’uno o dell’altro contendente [47]. Vorrà una pace giusta e sollecita, ottenuta anche a costo dell’abbandono dei vantaggi conseguiti sul campo e fondata sul riconoscimento reciproco e durevole dei diritti. In tutte le proposte di accordo di cui la Santa Sede si farà attrice o tramite figurerà sempre la restituzione dei territori occupati e la pre-condizione della liberazione del Belgio dai tedeschi. E anche per questa dottrina del ripristino dello status quo egli sarà oggetto dell’avver-sione dei governi belligeranti.

 

All’inizio del conflitto si può rilevare nella Curia romana una certa simpatia per le potenze germaniche, frutto della rottura del 1905 con la Francia massonizzante e dell’egemonia della cultura tedesca in ambito ecclesiastico in quegli anni [48]. E questo atteggiamento tenderà a irrobustirsi quando l’Italia, entrata a far parte del fronte opposto, scenderà in guerra: anche Benedetto temerà allora che la Santa Sede, ospite dell’Italia e in rotta con la monarchia unitaria dopo Porta Pia, possa rimanere isolata dal mondo e possa trovarsi esposta al ricatto dello Stato italiano. Poi, mentre questa propensione sfumerà e s’imporrà la linea di equidistanza verso tedeschi, austriaci, francesi, britannici e americani di Benedetto, la Santa Sede non porrà ostacoli al lealismo del clero e del mondo cattolico italiano verso lo sforzo bellico del governo e della nazione.

Quello che nella seconda fase del conflitto, quando si delinea la sconfitta austro-tedesca, preoccuperà Benedetto sarà il sempre più verosimile crollo del bastione costituito dall’impero asburgico, sia in quanto potenza mittel-europea che tradizionalmente conteneva l’espansione dell’elemento slavo-ortodosso e ottomano, sia perché si vedeva venir meno un valido antemurale contro il nascente bolscevismo russo [49]. Per evitarlo appoggerà il giovane imperatore asburgico — anch’egli pienamente consapevole di questi rischi — fino all’ultimo, anche se già all’inizio del 1918 il realismo della diplomazia vaticana non si asterrà dall’immaginare e dal sostenere altri scenari, facenti perno soprattutto sulla Polonia cattolica [50].

 

Venendo all’episodio che ha trovato più spazio nella memoria comune, la nota diplomatica del 1917, si può dire che essa segna la ripresa e il culmine della politica pacificatrice di Benedetto XV: in quell’anno fatidico, lo stallo dei fronti, le inutili e sempre più numerose e sanguinose battaglie di massa, l’uso scriteriato di armi ognora più terribili e devastanti lo indurranno, quando gli sembrerà di intravedere qualche spiraglio di buona volontà — o almeno di stanchezza — da parte di più di un contendente, a indirizzare, il 1° agosto, l’appello Dés le dèbuts ai capi delle potenze in armi, in cui egli definirà la guerra una «lotta tremenda, la quale, ogni giorno di più, apparisce inutile strage» [51]. Benedetto, oltre alla tregua, chiederà in sostanza di ritirarsi dai territori occupati dopo il 1914, di aprire negoziati per definire le diverse pretese territoriali, di limitare la corsa agli armamenti, d’istituire un arbitrato internazionale, di garantire la libertà di navigazione dei mari e, infine, la rinuncia reciproca agl’indennizzi post-bellici [52].

Il messaggio del Papa avrà una enorme eco, ma, soprattutto per questo giudizio, tanto obiettivo quanto radicale, sarà letto su entrambi i fronti come una pugnalata alle spalle e questo gli conquisterà la definitiva inimicizia dei circoli nazionalisti e guerrafondai di ogni paese. Quegli  stessi circoli che in Italia cercheranno di giustificare la grave sconfitta patita a Caporetto nell’ottobre successivo — che dall’Isonzo porterà gli austro-tedeschi a irrompere nella pianura padana fino al Piave — con la presunta demoralizzazione delle truppe causata dalla reiterata e pesante dissociazione del vertice della cattolicità. In realtà, la ragione principale della rotta andavano rinvenute nella consapevolezza ormai generale dell’esiguità della contropartita di tante morti e nell’insopportabile cinismo e dallo sprezzo delle vite umane di cui gli alti comandi avevano via via dato prova e che con le decimazioni di quell’anno, il quarto di guerra, raggiungeranno il culmine [53]. Nonostante il clamore e le manifestazioni di odio suscitate dalla rinnovata e dura presa di posizione del Papa, la diagnosi di Benedetto è amaramente esatta: la guerra si stava allora trasformando in una autentica ecatombe della migliore gioventù occidentale e sarebbe stato venir meno alla sua missione di pastore se non avesse approfittato della condizione di apparente favore per una tregua che si era potuto ipotizzare e lo avesse taciuto alle orecchie del mondo.

In questa sua lotta contro la degenerazione della guerra Benedetto si troverà pressoché solo. Sarà con lui l’ala intransigente e più popolare del cattolicesimo italiano, ma anche, come detto, l’imperatore d’Austria, che ne condividerà genuinamente l’ansia di pace e l’orrore per le atrocità della guerra moderna. Esemplare e anche toccante, in questo senso, è la lettera con cui Carlo, il 20 settembre 1917, risponde alla nota di Benedetto dell’agosto precedente: in esso vibra un autentico accento filiale e il medesimo ardente desiderio di pervenire a una pace giusta [54]. Davanti al fallimento del suo appello, il 24 ottobre 1917, Benedetto confesserà all’imperatore: è «l’ora forse più amara della nostra vita» [55].

 

5.2 Limitare la barbarie e aiutare le vittime

 

Gli sforzi vaticani per lenire gli orrori di un conflitto globalizzato sono tanti, dalla richiesta di messa al bando delle armi chimiche, dei bombardamenti, della guerra sottomarina, alla richiesta di tregue, allo scambio di prigionieri. L’organizzazione di soccorso allestita in Vaticano e mediante la rete delle nunziature e degli episcopati è imponente e lascia una eredità di cui Pio XII potrà avvalersi nei giorni dell’ancor più tremendo conflitto mondiale nel 1939-1945.

Le iniziative di Benedetto — nel teatro di guerra europeo, ma anche oltremare, nel Vicino Oriente, come pure nei Balcani e in Russia — non si contano: a favore delle onoranze ai morti, della cura dei feriti, del sostegno dei prigionieri, del ritorno dei civili deportati, del soccorso ai malati, agl’intossicati, ai neurolesi, della comunicazione fra i soldati e le famiglie, delle ricerche dei dispersi, del sostentamento delle popolazioni civili, gravemente denutrite e prive di tutto. Si ricorderà forse che proprio mons. Pacelli, nunzio a Monaco di Baviera, recherà i pacchi-viveri del Vaticano ai prigionieri italiani, cui il governo di Roma impediva di ricevere aiuti, perché timoroso che una miglior prigionia potesse incentivare le diserzioni [56].

A ostilità cessate, la gratitudine verso Benedetto sgorgherà spontanea dai luoghi e dai popoli più impensati, perfino dagli armeni, dai maroniti libanesi, dai russi. A lui nel 1920, in segno di gratitudine per aver soccorso prigionieri turchi degli Alleati e come memoria del suo ardente desiderio di riconciliazione fra i popoli, verrà eretta una statua a Istanbul, in terra musulmana e alla cerniera fra Europa e Asia. La sua carità personale è rimasta proverbiale: riferirà il card. Gasparri che durante il conflitto Benedetto erogherà di tasca sua ben ottantadue milioni di lire italiane [57].

 

 

6. Il dopoguerra

 

Nel 1918 l’Europa si risveglia sconvolta dai cinque anni di immani distruzioni umane e materiali che ha voluto e che ha subito. Ma, invece che trarre la dovuta lezione dalla contemplazione delle macerie di una antica civiltà, invece che soffocare i proverbiali sette demoni che l’hanno posseduta per cinque drammatici anni, insiste sulla strada del nazionalismo moderno, che, anzi, i nuovi Stati, creati a Versailles dalle ceneri degl’imperi e spesso, a loro volta, piccoli imperi pluri-nazionali privi di ideale imperiale, alimentano ed esasperano [58].

Su un altro binario, la Rivoluzione d’Ottobre e la caduta del gigantesco impero russo nelle mani del partito socialista «bolscevico» imprimono una rapida accelerazione alla lotta di classe mondiale — in Italia vi sarà il famoso «biennio rosso» 1919-1920 — e apre uno scenario nuovo, dagli sviluppi dirompenti e non solo in Europa, ma anche, per esempio, nel Messico massonizzato.

Nel 1919 molto è cambiato: quattro imperi sono scomparsi, sono nati nuovi e avidi soggetti politici a base nazionale, gli Stati Uniti hanno fatto pesantemente il loro ingresso nel concerto delle nazioni. Il nuovo imperialismo sovietico preoccupa il mondo e avrà come contraccolpo quella ideologia detta della «Rivoluzione conservatrice», che porterà alla rapida ascesa di movimenti autoritari — come i fascismi e le «dittature monarchiche» —, soprattutto negli Stati eredi degl’imperi, e del totalitarismo hitleriano in Germania [59].

 

Benedetto si rende conto che queste nuove dinamiche porteranno fatalmente a un nuovo scontro e nel 1920, nell’enciclica dedicata alla riconciliazione dei popoli, la Pacem Dei munus, osserva che, nonostante i trattati di Versailles — e forse grazie a essi: «restano tuttavia i germi di antichi rancori» [60].

La sua indefessa opera di pacificazione e di intervento umanitario farà crescere enormemente il prestigio della Santa Sede negli anni del dopoguerra. Con Benedetto, possiamo dire che la Chiesa passa realmente allora da un protagonismo di tipo «temporale e territoriale» — che prende corpo nell’età moderna, con i pontefici-re, e dura all’incirca fino a Pio X —, e da una fase che potremmo definire di «primato magisteriale», ottenuto soprattutto con Leone XIII, a una nuova condizione in cui la Chiesa inizia a svolgere, anche se embrionalmente, un ruolo di primazia morale e di guida nella difesa dei diritti umani, che conquisteranno sempre maggior spazio nel corso del secolo XX.

Non è un caso che, alla morte di Benedetto, dai quattordici dell’epoca di Pio X siano saliti a ventisette i paesi in relazioni diplomatiche con la Santa Sede: tanti, anche tenendo conto del frazionamento degl’imperi. Paesi che fino al 1914 non avevano rapporti con Roma li ristabiliscono: l’Inghilterra, l’Olanda, ma soprattutto la Francia — nel clima della beatificazione di Giovanna d’Arco — riaprono le loro sedi diplomatiche romane.

In sintesi si può affermare che alle luce dei principi cristiani di sempre, grazie alla sua intelligenza e al suo straordinario acume diplomatico, Benedetto seppe gettare le fondamenta per un nuovo diritto cristiano internazionale, che avrà, purtroppo, solo vent’anni dopo un severo banco di prova con il nuovo conflitto mondiale.

 

 

7. Benedetto e l’Italia

 

7.1 I rapporti con lo Stato

 

Negli anni di Benedetto XV pesa ancora fortemente nei rapporti con il nuovo Stato la Questione Romana. Anche in questo campo l’indole conciliatrice di Papa Della Chiesa si mette subito al lavoro. Fra i suoi primi atti di governo egli si preoccupa di aprire un canale di comunicazione con il governo italiano, scegliendo per questa funzione un alto funzionario cattolico del Ministero dei Culti — dal 1908 al 1923 è Direttore generale del Fondo per il Culto — e suo antico compagno di studi, il barone Carlo Monti (1851-1924). Nel 1914, nonostante numerosi tentativi di ricomporre la frattura del 1870, il centro del cattolicesimo rimaneva ancora un’associazione semi-privata incorporata nel tessuto di uno Stato sovrano, di orientamenti ideali tutt’altro che in sintonia con la fede cristiana, da cui dipendeva per tutto, dall’energia, alla sussistenza, alle comunicazioni con la cristianità, in particolare con i nemici dell’Italia, e con gli altri popoli del mondo. L’entrata in guerra dello Stato-ospite, oltre a sollevare gl’interrogativi sopra accennati, provocherà l’esodo in Svizzera delle legazioni presso la Santa Sede e l’occupazione di italiana di Palazzo Venezia, tradizionale sede dell’ambasciata austriaca. Ma, attraverso un’intervista del cardinal Gasparri al Corriere d’Italia del 28 maggio 1915 [61], Benedetto mette le mani avanti, dichiarando di rifiutare ogni soluzione alla Questione Romana, che derivi come contropartita da una sua adesione alla guerra italiana. E simultaneamente rinuncia di fatto all’appoggio degli Imperi centrali, nonostante questi abbiano espresso l’intenzione di portare la Questione alla futura conferenza di pace in caso di loro vittoria.

Peraltro, questa scelta, oltre alla verificata non ostilità della Santa Sede all’Italia in guerra, dopo la guerra contribuirà al riavvicinamento fra le due sponde del Tevere. Già il governo di Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), nel 1919, non rigetterà l’idea di uno Stato vaticano, e poi con il successore Francesco Saverio Nitti (1868-1953), le intese faranno un deciso progresso, per compiersi infine — vinte le insuperabili more dell’età liberale — con il governo di Benito Mussolini (1883-1945) nel 1922.

 

7.2 Benedetto e la sua patria

 

Ma i rapporti fra Benedetto e l’Italia non si riducono alla Questione Romana.

 

Sotto di lui, nel 1919, si compie la completa soppressione di fatto del non expedit, che riapre pienamente ai cattolici l’elettorato passivo e attivo. La prepotente ascesa del partito «di cattolici», autonomo e aconfessionale, fondato da don Luigi Sturzo nel 1919 metterà in sordina la linea delle intese clerico-moderate degli anni di Pio X e offrirà — accanto a quello sindacale — un nuovo strumento di presenza dei cattolici nella politica [62]. Uno strumento con i suoi pro e con i suoi contra, che Pio X — e in seguito Pio XII — aveva sempre visto come un rischio di contaminazione dei principi della dottrina sociale cattolica nella pratica politica in un quadro di pluralismo culturale. Ma uno strumento che, nel contesto della società sempre più democratizzata e secolarizzata, si andava imponendo in tutta Europa e al quale sia Benedetto sia Gasparri non si opporranno durante i pochi anni che intercorrono fra il 1919 e la soppressione del Partito Popolare a opera della dittatura mussoliniana, distinguendo sempre fra «azione cattolica», legata alla gerarchia, e «azione di cattolici», con diverse caratteristiche e autonomia. Con Benedetto un altro non expedit cadrà, promuovendo anch’esso il riavvicinamento alla nuova Italia: per migliorare le relazioni fra i sovrani europei e favorire l’assestamento del Continente Benedetto nella Pacem Dei munus rimuoverà anche il divieto ai sovrani cattolici di far visita al re italiano nell’antica residenza papale del Quirinale a Roma.

 

 

8. Conclusioni

 

Vi sarebbero molti altri aspetti del pontificato benedettino sui quali soffermarsi. Sarebbe importante, per esempio, rievocare la sua opera per la diffusione della devozione al Sacro Cuore — attraverso la canonizzazione della mistica francese santa Margherita Maria Alacoque (1647-1690), la dedicazione dell’Università Cattolica di Milano al Sacro Cuore e il «lancio» della Basilica del Sacro Cuore sulla collina di Montmartre a Parigi —; ricordare che il ciclo di apparizioni mariane a Fatima del maggio-ottobre 1917 [63], così gravido di segni per lo sviluppo successivo degli eventi novecenteschi, si svolge sotto Benedetto XV; rivisitare la grande riforma dell’azione missionaria ad gentes, contenuta nell’enciclica Maximum illud del 1919 [64]; sottolineare l’importanza della promulgazione, nel 1917, nel cuore della guerra, del Codice di Diritto Canonico, già elaborato in gran parte sotto Pio X [65]; parlare della nascita dell’Università Cattolica come importante tappa di riconquista culturale della società, quindi anche di padre Agostino Gemelli (1878-1959) — e della sua cerchia intellettuale — e della linea politica alternativa a quella sturziana; menzionare come Benedetto abbia rilanciato i rapporti con le Chiese orientali [66]; rileggere la magnifica enciclica In praeclara su Dante Alighieri (1265-1321), che ne rivendica la piena ed esemplare cattolicità [67]; infine, descrivere la nascita della politica vaticana verso Israele e i Luoghi Santi, liberati nel 1917 dai turchi [68], e vedere, magari, come la Chiesa si schierò davanti all’atroce genocidio armeno.

Molti sono, dunque, i temi da sviluppare e molti gli avvenimenti, spesso di difficile decifrazione, che si affollano nei pochi ma cruciali anni benedettini in Europa e nel mondo, di cui parlare. V’è dunque ancora molto da studiare. Mi piace rievocare, in chiusura, in questa prospettiva, una frase che il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), arcivescovo di Genova, consapevole di ciò, scrisse nel cinquantenario della morte di Benedetto: «La [sua] figura ha diritto alla giustizia della storia. Purtroppo, la storia si muove quanto si muovono gli scrittori, allorché si tratta dell’apprezzamento degli uomini. Chi non ne trova nella sua scia, è costretto all’oscurità. È quello che è accaduto a Benedetto XV. Se qualcuno sorgerà per scrutarlo a fondo renderà giustizia al grande papa e renderà più onesta la storia» [69].

 



[1] Benedetto XV, Discorso all’udienza generale, in L’Osservatore Romano, 28-4-2005. Lo stesso concetto è ribadito nel Messaggio per la Giornata della Pace 2006 La verità e la pace (cfr. il testo, fra l'altro, in La Civiltà Cattolica), anno CLVII, vol. I, quad. 3733, 7-1-2006, pp. 3-11.

[2] Cfr. Eric J.[ohn] Hobsbawm, Il secolo breve, trad. it., 12a ed., Rizzoli, Milano 1997. 

[3] Cfr. André Fontaine, La Guerra Fredda, trad. it., Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2005, p. 9. Fontaine riporta anche altre stime, le quali oscillano fra un minimo di 15 e un massimo di 43 milioni di vittime fra militari e civili, a seconda dei conflitti che si includono o si escludono.

[4] Cfr. Karl Dietrich Bracher, Il Novecento. Secolo delle ideologie, trad. it., 2a ed., Laterza, Roma-Bari 2001. 

[5] Cfr. Jacques Ploncard d’Assac, Les idées qui tuent, presso l’Autore, Lisbona 1971.

[6] Cfr. Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine, trad. it., Mondadori, Milano 2001.

[7] Cfr. Alain Besançon, Novecento il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah, trad. it., con una prefazione di Vittorio Mathieu, Ideazione, Roma 2000.

[8] Cfr. José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, 1930, trad. it., Se, Milano 2001.

[9] Cfr., per esempio, il suo discorso alle Cortes del 4 gennaio 1849 (Juan Donoso Cortés, Discorso sulla dittatura, in Idem, Il potere cristiano, trad. it., antologia a cura di Lucrezia Cipriani Panunzio, con una introduzione di Gabriele De Rosa, Morcelliana, Brescia, 1964, pp. 33-58 (p. 43)).

[10] Cfr., per esempio, Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo XIX, 1932, a cura di Giuseppe Galasso, Adelphi, Milano 1993.

[11] Cfr. «“Carneade! Chi era costui?” ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone […]. “Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?”» (Alessandro Manzoni (1785-1873), I promessi sposi, cap. VIII, incipit).

[12] Per questo profilo di Benedetto XV mi avvalgo soprattutto di John F. Pollard, Il papa sconosciuto. Benedetto XV (1914-1922) e la ricerca della pace, trad. it., con una prefazione del card. Dionigi Tettamanzi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2001; Marco Doldi, Benedetto XV. Un papa da conoscere e da amare, con una prefazione del card. Tarcisio Bertone, arcivescovo di Genova, Portalupi, Casale Monferrato (Alessandria) 2004; e Filippo Crispolti (1857-1942), Pio IX. Leone XIII. Pio X. Benedetto XV. Ricordi personali, Treves Treccani Tumminelli, Milano-Roma 1932.

[13] Cfr. M. Doldi, op. cit., p. 11.

[14] La vicenda del veto imperiale contro l’eligendo card. Rampolla è narrata da diversi storici: cfr., per esempio, Giorgio Candeloro (1909-1988), Storia dell’Italia moderna, 7a ed., Feltrinelli, Milano 1981, vol. VII, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana. 1896-1914, p. 189.

[15] Cfr. «Una concezione del mondo per la quale quest’ultimo si spiega da solo, senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio; Dio divenuto così superfluo e ingombrante. Un tale secolarismo per riconoscere il potere dell’uomo, finisce dunque per sorpassare Dio, e anche per negare Dio» (Paolo VI, Lettera apostolica Evangelii Nuntiandi circa l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, dell’8-12-1075, n. 55).

[16] Cfr., per esempio, Giovanni Paolo II, Testimoniare Dio Padre: la risposta cristiana all’ateismo, discorso all’Udienza Generale del 14 aprile 1999, in L’Osservatore Romano, 15-4-1999, in cui il Pontefice parla di un «rovinoso secolarismo».

[17] Relazione tenuta al Convegno degli educatori del Movimento Popolare, Rimini 1976, sul quale cfr. Massimo Borghesi, Il peccato originale dell’epoca moderna (relazione su Del Noce tenuta al Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, Rimini 1990), ne Il Sabato, n. 39, 29-9-1990 e ibid., n. 40, 6-10-1990.

[18] Cfr. la sottolineatura — «aspre e radicali condanne» — nel medesimo senso, fatta da Papa Benedetto XVI nel suo Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005 (in L’Osservatore Romano, 23-12-2005).

[19] Cfr. Pio IX, Sillabo. Sommario dei principali errori dell’età nostra, 2a ed., a cura di Gianni Vannoni, Cantagalli, Siena 1998.

[20] Sulla giustificazione della reazione piana con l’aggressione laicista e modernista, cfr. il discorso di Benedetto XV alla Curia romana, cit.

[21] Tuttavia, per una svolta autentica, almeno da parte della Chiesa, nel rapporto tra fede e modernità occorrerà attendere il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965).

[22] Cfr. P.[adre] G.[eronimo] Dal-Gal OFM Conv., Beato Pio X papa, a cura della Postulazione della Causa del B. Pio X, Il Messaggero di S. Antonio-Basilica del Santo, Padova 1951, p. 591.

[23] Cfr. ibid., p. 590.

[24] Cit. in Giuseppe Dalla Torre, Benedetto XV, papa, in Enciclopedia Cattolica, Ente dell’Enciclopedia Cattolica e del Libro Cristiano, Città del Vaticano 1952, vol. II, col. 1287.

[25] Ibidem.

[26] Pio XII, Discorso Nel contemplare agli Uomini di Azione Cattolica d’Italia, del 12-10-1952, in Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano, 1948-1969 di Pio XII, vol. XIV, p. 359.

[27] Cfr. Hans Sedlmayr, Perdita del centro. Le arti figurative dei secoli diciannovesimo e ventesimo come sintomo e simbolo di un’epoca, 1948, trad. it., Rusconi, Milano 1974.

[28] Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, trad. it., 3a ed. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 70-71 e passim.

[29] Cfr., per esempio, Andrea Graziosi, Guerra e rivoluzione in Europa. 1905-1956, il Mulino, Bologna 2001 .

[30] Sul tema, cfr., fra gli altri, Yves Ternon, Gli armeni. 1915-1916: il genocidio dimenticato, Rizzoli, Milano 2003; e Marco Impagliazzo, Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916), 2a ed., Guerini e Associati, Milano 2000.

([31] Cfr. sul punto Andrzej J. Kaminski, I campi di concentramento, trad. it., 2a ed., Bollati Boringhieri, Torino 1998.

([32] Cfr. Ol’ga Vasil’eva, Russia martire. La Chiesa ortodossa dal 1917 al 1941, trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1999.

([33] Sulla persecuzione messicana, che sfocerà, nel 1926-1929, nell’insurrezione popolare nota come «guerra dei Cristeros», cfr. Jean Meyer, La Cristiada, 12a ed. rivista e aumentata, 4 voll., Editorial Clío, Città del Messico 1997 (in part. vol. I); Idem, La Christiade, Payot, Paris 1975 (condensato dell’edizione spagnola); e Id., Apocalypse et Revolution au Mexique. La guerre des Cristeros (1926-1929), Gallimard/Julliard, s.l. 1974.

[34] Cfr., fra gli altri, Alice Ricciardi von Platen, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, trad. it., Le Lettere, Firenze 2000; e Piero S. Colla, Per la Nazione e per la Razza. Cittadini ed esclusi nel «modello svedese», Carocci, Roma 2000; nonché il documentatissimo volume ― uscito nel gennaio 2006 ― del polacco Michael Tregenza, Purificare e distruggere. I. Il programma «eutanasia». Le prime camere a gas naziste e lo sterminio dei disabili (1939-1941), trad. it., 2 voll., Ombre Corte, Verona 2006 (il secondo volume è in uscita).

[35] Cfr., fra gli altri, Édouard Conte e Cornelia Essner, Culti di sangue. Antropologia del nazismo, trad. it., Carocci, Roma 2000.

[36] Erminio Lora e Rita Simionati, Benedetto XV. Cenni biografici, in Idem ed Eadem (a cura di), Enchiridion delle Encicliche. 4. Pio X. Benedetto XV (1903-1922), ed. bilingue, 2a ed., EDB, Bologna 1999, p. 455.

[37] Cfr. P. G. Dal-Gal OFM Conv., op. cit., p. 590.

[38] Su Benedetto e la guerra, cfr. in particolare Giorgio Rumi (a cura di), Benedetto XV e la pace. 1918, Morcelliana, Brescia 1990.

[39] Benedetto XV, Esortazione Ubi primum in beati a tutti i cattolici del mondo per la pace, dell’8-9-1914, in Enchiridion delle Encicliche. 4. Pio X. Benedetto XV (1903-1922), cit., p. 963.

[40] Idem, Esortazione Allorché fummo chiamati ai popoli belligeranti e ai loro capi, del 28-7-1915, ibid., p. 968.

[41] Ibidem.

[42] Benedetto XV, Nota Des les débuts ai capi dei popoli belligeranti, del 1°-8-1917, ibid., pp. 971-977.

[43] Idem, Esortazione Allorché fummo chiamati ai popoli belligeranti e ai loro capi, del 28-7-1915, cit., pp. 968-969.

[44] Cit. in E. Lora e R. Simionati, op. cit., p. 456.

[45] Ibidem.

[46] Su di lui, cfr., fra l’altro, il mio (con Ivo Musajo Somma), Un cuore per la nuova Europa. Appunti per una biografia del beato Carlo d’Asburgo, con un invito alla lettura di mons. Luigi Negri e una prefazione di Marco Invernizzi, D’Ettoris, Crotone 2004.

[47] Secondo lo storico Andrea Riccardi, «negli archivi vaticani è conservato un appunto di pugno di Benedetto XV —una rarità, perché questo Papa usava poco comunicare per iscritto con i collaboratori e non appuntava le sue idee — dal quale si vede come egli non credesse a nessuna “vittoria” o soluzione di forza: “In ogni guerra per giungere alla pace si è dovuto smettere il proposito di schiacciare l’avversario: mettere l’avversario in condizione di non più tentare la prova è una stoltezza, perché la prova potrà essere ritentata dopo qualche tempo, sia perché realmente l’avversario ha riconquistate le forze, sia perché ha creduto di averle riconquistate. Le guerre esisteranno non finché vi sarà la sola forza, ma finché vi sarà l’umana cupidigia”» (Andrea Riccardi, «In te, Domine, speravi; non confundar in aeternum» (Benedetto XV), in 30 Giorni nella Chiesa e nel mondo, anno XXIII, n. 5, Roma maggio 2005, p. 70-73 (p. 71).

[48] Cfr. J. F. Pollard, op. cit., p. 123.

[49] Considerazioni acute sul crollo austro-ungarico svolge lo storico francese Jean Bérenger nel capitolo XVIII (Finis Austriae: dissoluzione o condanna a morte?, pp. 409-436) della sua Storia dell’impero asburgico. 1700-1918 (1990, trad. it., il Mulino, Bologna 2003). Cfr., in particolare, la tesi: «La catastrofe politica [austro-ungarica] si spiega […] largamente con fattori esterni e, dopo una lotta secolare, con il trionfo dei principi della rivoluzione francese» (ibid., p. 434).

[50] Cfr. Stanislaw Sierpowski, Benedetto XV e la questione polacca negli anni della «grande guerra», in G. Rumi (a cura di), op. cit., pp. 213-232.

[51] Benedetto XV, Nota Des les débuts ai capi dei popoli belligeranti, del 1°-8-1917, cit., p. 977.

[52] Cfr. J. F. Pollard, op. cit., pp.147-148.

[53] Cfr., fra le tante testimonianze, Mario Silvestri (1919-1994), Isonzo 1917, Rizzoli, Milano 2001.

[54] Cfr. G. Rumi, Corrispondenza fra Benedetto XV e Carlo I d’Asburgo, in Idem (a cura di), op. cit., pp. 19-47, appendice documentaria, pp. 29-47, doc. 9, pp. 33-35.

[55] Ibid., doc. 11, pp. 37-38 (p. 37).

[56] Su questo punto, emerso nella storiografia relativamente tardi, cfr., fra gli altri, Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, con una raccolta di lettere inedite, Editori Riuniti, Roma 1993.

[57] Cit. in M. Doldi, op. cit., p. 139.

[58] Cfr., a riguardo, la tesi — che condivido —, di cui si fa portavoce Sergio Romano, allorché scrive: «[…] Ciascuno di questi Stati nazionali [è] in realtà un piccolo impero multinazionale in cui una tribù impone alle altre la propria volontà e legittima se stessa con i valori e la pedagogia dello Stato nazionale» (segue un’abbondante esemplificazione — Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Jugoslavia, ecc. —  che non riporto) (Idem, L’Europa dopo il 1989 e il futuro degli Stati nazionali, in Nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, anno VI, n. 4, Luni, Milano luglio-agosto 2002, pp. 5-16 (p. 9)).

[59] Per una originale classificazione e una valida e succinta storia dei movimenti autoritari e totalitari nell’Europa fra le due guerre cfr. Juan J.[osé] Linz, Fascismo, autoritarismo, totalitarismo. Connessioni e differenze, trad. it. (dall’ingl.), Ideazione, Roma 2003.

[60] Benedetto XV, Enciclica Pacem Dei munus. La riconciliazione cristiana di pace, del 23-5-1920, in Enchiridion delle Encicliche. 4. Pio X. Benedetto XV (1903-1922), cit., pp. 556-573 (p. 557).

[61] Cfr. J. F. Pollard, op. cit., p. 122.

[62] Su questo punto, oltre alle storie del movimento cattolico e della democrazia cristiana, cfr. il recente e originale contributo di Giovanni Sale S.I., Don Sturzo, il card. Gasparri e la fondazione del Ppi, in La Civiltà Cattolica, anno CLVII, vol. I, quad. 3733, 7-1-2006, pp. 12-23.

[63] Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Il messaggio di Fatima, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000. Una panoramica, con i testi dei dialoghi fra la Vergine e i pastorelli, in Antonio A.[ugusto] Borelli Machado, Le apparizioni e il messaggio di Fátima secondo i manoscritti di suor Lucia, prefazione di Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), trad. it., Cristianità, Piacenza 1977, con appendici.

[64] Benedetto XV, Enciclica Maximum illud. La propagazione della fede cattolica in tutto il mondo, del 30-11-1919, in Enchiridion delle Encicliche. 4. Pio X. Benedetto XV (1903-1922), cit., pp. 978-1007.

[65] Cfr. J. F. Pollard, op. cit., pp. 215-216.

[66] Cfr. ibid., pp. 216-223.

[67] Benedetto XV, Enciclica In praeclara. Nel sesto centenario della morte di Dante Alighieri, del 30-4-1921, in Enchiridion delle Encicliche. 4. Pio X. Benedetto XV (1903-1922), cit., pp. 704-719.

[68] Cfr. J. F. Pollard, op. cit., pp. 170-173.

[69] Il brano del discorso del card. Siri è citato in mons. Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano e già arcivescovo di Genova, Prefazione, in J. F. Pollard, op. cit., pp. 5-8 (p. 5).




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