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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 3 aprile 2013


Francesco Pappalardo

I «costi» del Risorgimento italiano.
Come il Regno di Sardegna ha finanziato la «conquista del Sud» con i soldi dei meridionali



Gli studi sul Mezzogiorno d’Italia e sulla nascita della cosiddetta Questione Meridionale si sono arricchiti grazie all’intervento di un economista di fama internazionale, Vito Tanzi, che ha affrontato l’argomento da un punto di vista non convenzionale nel suo volume Italica. Costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia (Grantorino libri, Torino 2012, 296 pp., € 20).

Di origini pugliesi ma trasferitosi negli Stati Uniti in giovane età, Tanzi si è laureato in economia presso la George Washington University, nella capitale federale, e ha conseguito il dottorato, pure in economia, all’Università di Harvard, nel Massachusetts. Ha insegnato discipline economiche all’American University di Washington; ha lavorato nel Fondo Monetario Internazionale, di cui ha diretto il Dipartimento di Finanza pubblica dal 1981 al 2000; ed è stato consulente della Banca Mondiale, delle Nazioni Unite, della Banca Centrale Europea e del californiano Stanford Research Institute. Senatore in Italia dal 2001 al 2006, è stato sottosegretario di Stato all’Economia e alle Finanze dal 2001 al 2003 nel secondo governo Berlusconi. Fra le sue opere in italiano — oltre a contributi a volumi collettivi —, Globalizzazione e sistemi fiscali (Banca Popolare di Etruria, Arezzo 2002) e Questione di tasse. La lezione dell’Argentina (con Prefazione di Francesco Giavazzi, EGEA, Milano 2007), nonché, con Ludger Schuknecht, La spesa pubblica nel XX secolo. Una prospettiva globale (trad. it, Firenze University Press, Firenze 2007), nella quale si dimostra che, quando la spesa pubblica supera il trenta per cento del prodotto interno lordo, ogni somma in più nel passivo dello Stato finisce per avere rendimenti decrescenti.

Studioso dell’Unione Europea e soprattutto del processo di armonizzazione fiscale avviato dai Paesi membri, ha collaborato a un’opera sugli aspetti economici dell’unificazione italiana, ampliando poi il suo contributo e pubblicandolo autonomamente (1), nella convinzione che "l’Unificazione italiana poteva offrire una specie di specchio storico per comprendere il processo di integrazione europea" (p. 4). Tanzi ritiene, infatti, che la costruzione dell’unità europea stia incontrando difficoltà simili a quelle affrontate centocinquant’anni fa nella Penisola italiana, dove gli Stati preesistenti, caratterizzati da leggi e da sistemi economici e tributari molto differenti, sono stati messi insieme a tavolino e trasformati quasi repentinamente in uno Stato unitario. Il suo obbiettivo, dunque, è quello di osservare gli avvenimenti risorgimentali sotto il profilo dei costi e dei benefici, con l’avvertenza che il problema non è rappresentato dall’unificazione in sé, ma da alcune delle decisioni prese nei momenti cruciali da persone che avevano una limitata conoscenza del Paese o che erano animate da pregiudizi di natura ideologica. "Ci sarà resistenza — osserva — a quest’uso della metodologia economica da parte di persone che credono che ci sono obbiettivi che sono così importanti e sacri che non possono e non devono essere sottoposti a questo criterio quasi contabile. Bisogna riconoscere che quest’attitudine è in essenza quella del fondamentalismo, che può essere religioso o d’altro genere. Il fondamentalismo assume e richiede che alcuni obbiettivi devono essere inseguiti senza considerazione dei costi, in vite umane od in moneta" (p. 120).

L’opera parte da alcune premesse: a) nel secolo XIX "[...] sarebbe stato difficile identificare molte caratteristiche comuni o legami sentimentali e patriottici" (p. 14) fra gli Stati italiani: "a parte il fattore geografico, l’elemento comune più importante era che tutta la penisola italiana aveva fatto parte del nucleo centrale dell’impero romano" (ibidem); b) a quella data la Penisola comprendeva sette Stati, caratterizzati da tradizioni e da storie differenti; c) Casa Savoia coltivava l’ambizione di espandere il Regno di Sardegna verso la Pianura Padana piuttosto che quella di unificare la Penisola; d) il Risorgimento era stato un movimento principalmente di élite e, specialmente nel Mezzogiorno, l’appoggio popolare era stato molto ridotto; e) il Regno delle Due Sicilie non era governato da stranieri e l’invasione di uno Stato riconosciuto diplomaticamente da tutti i Paesi, incluso il Regno di Sardegna, non aveva alcuna legittimazione giuridica. "[...] bisogna chiedersi — osserva allora Tanzi — se, il modo in cui l’Italia fu unita era il solo modo possibile di farlo; e se non c’erano altre scelte migliori, che avrebbero potuto ridurre il costo, per i cittadini italiani, e specialmente per quelli del Meridione, che fu pagato" (p. 151).

Infatti, dopo l’Unità viene creata una realtà molto centralizzata — che prevedeva leggi e regolamenti uniformi per tutti i territori, caratterizzati invece da una vistosa disomogeneità — e con una struttura amministrativa gravosa, causa di notevoli difficoltà e di forti reazioni. Fra queste viene annoverato il brigantaggio, una resistenza armata a quelle che molti consideravano forze di occupazione. "L’occupazione delle forze garibaldine, seguita da quelle piemontesi, che, secondo molte testimonianze, fu pesante, caotica e sicuramente non rispettosa delle tradizioni locali, delle proprietà pubbliche e private, e di vari diritti dei cittadini, insieme al peggioramento della situazione economica, che, per molte persone, accompagnò immediatamente l’unificazione, insieme ad altri fattori, come per esempio l’attitudine di disprezzo che Vittorio Emanuele [II di Savoia (1820-1878)] dimostrò verso i napoletani, durante la sua breve visita alla città nel 1861, contribuirono, senza dubbio, ad ingrandire, se non a creare, il fenomeno" (p. 122). La lotta al brigantaggio è stata una specie di guerra civile che ha provocato decine di migliaia di vittime e che ha aggravato le precarie condizioni delle finanze pubbliche. In proposito Tanzi opera un parallelismo fra la guerra di conquista condotta dal Regno di Sardegna nei confronti degli Stati preunitari e la Guerra Civile nordamericana (1861-1865), iniziata proprio nel 1861, l’anno della nascita del Regno d’Italia (2), perché negli Stati Uniti d’America "le politiche che furono seguite dai vincitori del Nord, dopo la sconfitta del Sud, contribuirono anche a condannare il Sud ad un secolo di sottosviluppo e di povertà relativa. Per un lungo periodo, il Sud diventò il Mezzogiorno degli Stati Uniti" (p. 119).

Quando nasce lo Stato unitario vi sono poche differenze fra le condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno d’Italia, che lo studioso chiama convenzionalmente Sud, e quelle del resto della Penisola, "il Nord" (3). "Se c’erano differenze, erano sicuramente molto più modeste che negli anni successivi all’unificazione" (p. 97). Anche sotto il profilo culturale il Sud si presentava non come un’area arretrata o sottosviluppata, o un Nord mancato, ma piuttosto come una società dotata di una forte personalità storica e di un’inconfondibile fisionomia: "Non c’era mancanza di cultura, ma differenza culturale dalle regioni che avevano abbracciato la rivoluzione industriale, l’illuminismo e le lezioni politiche che erano state introdotte dalla rivoluzione francese" (p. 220). La rappresentazione del Mezzogiorno come un blocco di arretratezza economica e morale ha genesi e natura ideologiche ed è legata ai pregiudizi e all’ignoranza che spesso caratterizzavano gl’intellettuali e i politici di altre parti d’Italia o d’Europa. "Era un universo parallelo e non necessariamente inferiore, in vari aspetti, a quello del Nord. [...] È un comune errore confondere l’analfabetismo con la mancanza di cultura per le società tradizionali" (p. 221).

Tanzi, pour cause, prende in esame soprattutto gli aspetti finanziari dell’unificazione. Dopo il 1861 vengono addossati al Regno d’Italia gli enormi debiti contratti dal Regno di Sardegna per le "guerre d’indipendenza" e per lo sviluppo delle proprie province, esclusa però la Sardegna, "[...] che derivava pochi progressi dalla modernizzazione del regno che portava il suo nome" (pp. 186-187). Il presidente del consiglio, Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), pur incrementando notevolmente le entrate, aveva contratto forti debiti con banche straniere, soprattutto con la Casa Rothschild, e con altri ambienti finanziari di Francia e di Gran Bretagna. "Questi vincoli crearono o rafforzarono interessi economici, o almeno finanziari, da parte di questi due importanti paesi [...]. In un certo senso i creditori diventarono soci nell’impresa e sostenitori indiretti delle attività politiche di Cavour e degli obbiettivi del Risorgimento. I creditori continueranno a fare grandi guadagni in Italia negli anni futuri, finanziando le grosse spese dei governi dell’Italia Unita" (pp. 190-191).

Il nuovo Stato unitario nasce, dunque, con un debito pubblico significativo e con un disavanzo perenne nei conti pubblici, che condizionano le scelte economiche dei governi italiani, costretti fra il 1862 e il 1900 a spendere in media, per gl’interessi sul debito, il 42 per cento delle entrate tributarie nazionali, nonostante l’incremento di queste ultime: infatti, "le tasse erano aumentate molto di più della spesa pubblica che sarebbe stata utile alla gente ed all’economia del Sud" (p. 190). Nel 1866 viene introdotto il corso forzoso della moneta, che quindi non è più convertibile in oro, e il deficit statale è finanziato emettendo moneta in misura superiore alle riserve di metallo prezioso possedute dalla Banca d’Italia. Il corso forzoso ha un impatto negativo sul costo del debito, sulle importazioni e sulle attività economiche in genere; diventa più difficile per le imprese private pagare in lire oppure ottenere garanzie di credito ed è necessario ricorrere a pagamenti anticipati; il tasso d’interesse effettivo triplica nel giro di pochi anni, riducendo le risorse finanziarie a disposizione del governo. "È facile vedere in quest’esperienza quello che successe alla Grecia nel 2011 ed in Spagna nel 2012" (p. 193).

Le conseguenze negative dell’unificazione colpiscono soprattutto il Mezzogiorno, anche a causa di altre circostanze: a) l’appropriazione dell’oro del Regno delle Due Sicilie da parte dei nuovi arrivati; b) il forte aumento delle tasse nel Sud — dove il livello impositivo era piuttosto basso — per equipararle a quelle imposte nel Regno di Sardegna; c) la rapida applicazione al Paese dei bassi dazi doganali del regno sardo, con danni irreparabili all’industria del Sud, fino ad allora protetta da elevate barriere daziarie; d) la soppressione di ogni ente morale ecclesiastico e l’incameramento dei relativi beni, che distrugge la rete di welfare creata dalla Chiesa a sostegno dei più deboli; e) la nascita del fenomeno emigratorio, sia verso il Nord sia verso l’estero e specialmente nelle Americhe, che all’inizio coinvolge principalmente le maestranze più qualificate; l’adozione di programmi economici "[...] fatti su misura, da politici e burocrati, che risiedevano a Roma e che volevano industrializzare il Mezzogiorno con sussidi pubblici e con piani di sviluppo, immaginati a tavolino da gente che conosceva poco l’economia e molto la politica" (p. 253); e) il declino economico e culturale di Napoli, una delle più grandi città d’Europa con Londra e Parigi, che avrebbe meritato invece di essere la capitale della nuova Italia. "[...] l’opposizione contro gli "stranieri", che aveva contribuito anche al brigantaggio, fu seguita da un fatalismo che in anni futuri convincerà molti cittadini del Sud ad abbandonare l’Italia. Quelli che restarono si rassegnarono alle nuove condizioni e cominciarono a guardare al governo per la soluzione dei loro problemi economici.

"[...] Si passò presto dal problema di come unificare l’Italia politicamente e liberarsi dalle occupazioni straniere, a come integrare il Mezzogiorno economicamente e socialmente con il resto del paese e come fare gli italiani" (pp. 200-201).

La scelta centralizzatrice compiuta nel 1861 dallo Stato italiano è opposta a quella compiuta dai Paesi nati dall’unificazione di territori con tradizioni differenti, come gli Stati Uniti d’America, l’Impero Germanico, la Confederazione Svizzera e i Paesi Bassi, dove le responsabilità affidate inizialmente al governo centrale erano molto ridotte. Tanzi ritiene che la creazione di una confederazione di Stati, con il trasferimento graduale del potere a un governo federale, avrebbe risparmiato al Paese molte sofferenze. "Ovviamente — precisa —, questo è uno scenario da "what if" ["che cosa accade, se…" (ndr)]; è impossibile sapere cosa sarebbe accaduto nella realtà, se questo scenario alternativo fosse stato seguito. Ma sappiamo i costi dell’alternativa che fu scelta" (p. 121).

Il centralismo viene adottato per motivi ideologici — l’influenza della cultura rivoluzionaria nel Regno di Sardegna — e per motivi pratici, cioè per la precarietà della nuova creazione statale, per la resistenza in atto nelle province meridionali e per la necessità di condividere il debito pubblico sardo con le altre parti d’Italia. "La scelta dell’organizzazione statale fatta all’inizio — sostiene l’economista — è stata possibilmente una delle cause e forse uno degli errori più importanti, che ha reso l’unità d’Italia un’impresa in parte incompiuta" (p. 36). Poiché il centralismo politico-amministrativo di tipo francese aveva poche possibilità di riuscire bene in Italia, come la storia ha mostrato in centocinquant’anni, "la scelta iniziale di un governo federale, o anche di uno confederale, di uno Stati Uniti d’Italia, avrebbe ridotto i costi, anche se il risultato finale, di un’Italia veramente unita, sarebbe stato probabilmente raggiunto più tardi, in un periodo più lungo. Le politiche adottate dopo l’unificazione sicuramente non erano adatte a creare l’Italia che molti patrioti risorgimentali avevano sognato. Crearono invece un’Italia che geograficamente e politicamente era unita ma economicamente, e forse anche socialmente, era disunita" (p. 257).

Buona parte della spesa pubblica — più alta della media europea, allora come oggi — viene assorbita per anni dagl’interessi sul debito e dunque sacrificata per fini improduttivi. Inoltre, osserva Tanzi, poiché le decisioni importanti vengono prese nella capitale o comunque da strutture accentrate, i politici di livello locale non si sentono responsabili di quel che succede nei loro territori e si abituano ad attendere che il governo centrale risolva i loro problemi. "Una struttura federalista avrebbe anche convinto i cittadini delle diverse regioni che quello che succede localmente è anche in buona parte la responsabilità dei leader e dei cittadini a livello locale, e che non può essere completamente attribuito ai politici che operano a livello nazionale. La scelta unitaria diede una buona scusa ai politici locali di attribuire i problemi delle loro province al governo nazionale e non alle loro politiche" (p. 172).

"Un’Italia confederale, o forse anche federale — prosegue —, avrebbe potuto permettere il mantenimento di tariffe che potevano essere differenti da regione a regione, almeno per un periodo di transizione di qualche anno, usando le dogane che esistevano tra gli stati italiani pre-unitari. La scelta unitaria impedì questa possibilità" (p. 252). Anche il trasferimento del debito sarebbe stato impossibile in un sistema confederale e molto difficile in uno Stato federale. Ma al momento dell’Unità il regno sabaudo rischiava di fallire e dunque i conquistatori non ebbero dubbi: come si legge nella quarta pagina di copertina, "il Regno di Sardegna fu salvato dal fallimento grazie all’unificazione, che trasferì i suoi debiti sull’Italia".

Francesco Pappalardo

Note:

(1) Cfr. Vito Tanzi, Italica. Costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia, Grantorino libri, Torino 2012. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera. Non si può non segnalare la metodica e completa assenza di editing del testo, che risente della lunghissima permanenza dell’autore negli Stati Uniti.

(2) Analogo parallelismo viene compiuto dall’americanista e storico militare Raimondo Luraghi (1921-2012): "L’effetto della guerra fu la riduzione del Sud a colonia, qualcosa di simile a quello che secondo le denunce dei nostri meridionalisti accadde in Italia dopo il Risorgimento" (Storia della guerra civile americana, Rizzoli, Milano 2009, p. 1.282).

(3) Cfr. Stefano Fenoaltea, I due fallimenti della storia economica: il periodo post-unitario, in Rivista di politica economica, vol. 97, n. III-IV, Roma marzo-aprile 2007, pp. 341-358; e Vittorio Daniele e Paolo Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia (1861-2011), Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2011, secondo cui "prima dell’Unità esistevano differenze fra aree all’interno della nuova nazione, ma non c’era un vero divario economico fra Sud e Nord" (p. 7) e l’industrializzazione postunitaria è stata "la causa immediata delle ineguaglianze di sviluppo" (p. 8).


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