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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 7 febbraio 2014


Oscar Sanguinetti

Cento anni fa, la Prima Guerra Mondiale
Appunti "preventivi" per una memoria non ideologica




"Così, tra mille anni – pensa Berecche – questa atrocissima guerra, che ora riempie d’orrore il mondo intero, sarà in poche righe ristretta nella grande storia degli uomini; e nessun cenno di tutte le piccole storie di queste migliaia e migliaia di esseri oscuri, che ora scompaiono travolti in essa […] Nessuno saprà. Chi le sa, anche adesso, tutte le piccole, innumerevoli storie, una in ogni anima di milioni e milioni di uomini, di fronte gli uni agli altri per uccidersi? [...] Che resterà domani dei diari della guerra su per i giornali, ove una minima parte di queste piccole innumerevoli storie sono appena, in brevi tratti, accennate? […] No: questa non è una grande guerra; sarà un macello grande, una grande guerra non è perché nessuna grande idealità la muove e la sostiene".

Luigi Pirandello

(Berecche e la guerra, in Idem, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, Premessa di Giovanni Macchia, 2 voll. Mondadori, Milano1985, I Meridiani, vol. II, pp. )

"Far festa perché? La nostra Italia esce da questa guerra come da una grave e mortale malattia, con piaghe aperte, con debolezze pericolose nella sua carne, che solo lo spirito pronto, l'animo accresciuto, la mente ampliata rendono possibile sostenere e svolgere, mercé duro lavoro, a incentivi di grandezza. E centinaia di migliaia del nostro popolo sono periti, e ognuno di noi rivede, in questo momento, i volti mesti degli amici che abbiamo perduti, squarciati dalla mitraglia, spirati sulle aride rocce o tra i cespugli, lungi dalle loro case e dai loro cari. E la stessa desolazione è nel mondo tutto, tra i popoli nostri alleati e tra i nostri avversari, uomini come noi, desolati più di noi, perché tutte le morti dei loro cari, tutti gli stenti, tutti i sacrifizi non sono valsi a salvarli dalla disfatta. E grandi imperi che avevano per secoli adunate e disciplinate le genti di gran parte dell'Europa, e indirizzatele al lavoro del pensiero e della civiltà, al progresso umano, sono caduti; grandi imperi ricchi di memorie e di glorie; e ogni animo gentile non può non essere compreso di riverenza dinanzi all'adempiersi inesorabile del destino storico, che infrange e dissipa gli Stati come gli individui per creare nuove forme di vita"

Benedetto Croce

(La vittoria, in Pagine di guerra, Laterza & Figli, Bari 1928, pp. 291-292)



I

l 28 giugno 2014 ricorrerà il centesimo anniversario dell’attentato di Sarajevo, in Bosnia, in cui perì, insieme alla moglie morganatica, l’erede al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando di Austria-Este (1863-1914), che fu la scintilla, la causa occasionale, dello scoppio del primo conflitto mondiale.

Le ricorrenze sono coincidenze cronologiche che il calendario, nella sua meccanica archiviazione del tempo passato e nella sua prospezione sul tempo a venire, ci segnala e che ci richiamano alla memoria eventi passati. Quando la metaforica "spia rossa" si accende — per chi sappia osservare — nel riquadro dell’anno in corso o degli anni a venire, ci sentiamo spinti a rimettere a fuoco, a rimeditare quegli eventi, sia per se stessi, sia per derivarne qualche luce per meglio illuminare altri eventi e per trarre dal "combinato disposto" — come si usa dire da qualche tempo in qua — delle due memorie qualche utile insegnamento per l’oggi.

Quando, poi, la ricorrenza si riferisce a un plesso di eventi così importante e tragico come quello che ha inizio con le micidiali revolverate del terrorista bosniaco filo-serbo — l’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte di Vienna, formalizzata nel 1908, non è mai stata digerita dai panslavisti serbi — Gavrilo Princip (1894-1918), questa operazione pare del tutto doverosa.

L’estate del 1914 — e molta letteratura, storica e non, lo conferma — apre, infatti, una pagina di vitale importanza nella secolare biografia del Vecchio Continente, inclusa, in particolare, quella della nazione italiana. Una pagina — o, meglio, se mi si consente il bisticcio di parole, un "voltar pagina" — i cui effetti ancora oggi non si sono del tutto dissolti e di cui, attraverso la spinta di nuovi e altrettanto gravi eventi in cui essi si sono innestati, il nostro Paese e il continente europeo ancora risentono ai nostri giorni. Se la storia contemporanea è definita come la storia dei processi di sviluppo — o di regresso — della civiltà che sono ancora in essere nel momento in cui ci si pone (1), la Grande Guerra appare proprio come un fenomeno squisitamente di storia contemporanea.

Trattandosi di una guerra, ossia di una grave patologia del passato, nel riaprirne il dossier, l’accostamento migliore mi pare sia quello chi esamina una cartella clinica per conoscere di quali mali abbia sofferto un individuo al fine di capire meglio le cause — se ve ne sono — dei mali di cui soffre al presente e, potenzialmente, per poterli curare più efficacemente. I dati registrati in questa "cartella clinica", la memoria che vi è condensata dell’immane tragedia consumatasi un secolo fa, nonostante le migliaia di sacrari e di monumenti ai caduti sparsi in ogni dove per le contrade d’Italia e — meno — d’Europa, tendono fatalmente a scolorire e a scomparire dal bagaglio culturale di cui è dotato il cittadino medio.

Il centenario della guerra 1914-1918 — per noi italiani più breve di un anno — è un occasione, almeno sulla carta, per ovviare in certa misura a questo trend dispersivo. Rileggere questa pagina oggi, alla luce della storia successiva, tenendo conto che ogni generazione aggiunge — o potrebbe aggiungere, se non dissipasse sempre più la sua capacità di ricordare e il suo interesse al passato: il barbaro, il selvaggio, è quello che vive in un eterno presente — inevitabilmente un pizzico di saggezza o di "senno di poi" in più, ripercorrere con gli occhi di oggi, cioè alla luce di una cultura — ovvero di un giudizio sul reale — che non è più quella dei nostri padri o dei nostri nonni — la tragedia svoltasi cento anni or sono, consente di inquadrare e di comprendere meglio — per confronto, aggiungendo e cancellando — il senso di quanto avvenuto e soprattutto di trarne qualche indicazione utili a meglio comprendere le ragioni del presente e a formulare pronostici meno peregrini per il futuro.

* * *

La lente d’ingrandimento della storia è in grado di fornire letture più accurate e verosimili solo nella misura in cui è alimentata da nuove testimonianze, nuovi documenti, nuovi materiali. E la ricerca storica odierna è ancora lungi dal proporre letture definitive di un evento così complesso come la prima guerra mondiale, in quanto, trattandosi di un fenomeno che ha coinvolto milioni di uomini e società e Stati di mezzo mondo, le fonti, pubbliche ma soprattutto private, non saranno mai esaurite. Si può solo dire che a misura che nuovi dati affluiscono, la messa a fuoco è sempre migliore, ancorché mai risolutiva.

Quanto alle testimonianze dirette — così preziose per lo storico contemporaneo — sono finite perché i protagonisti del conflitto — combattenti e civili coinvolti — sono ormai tutti morti e, quindi, ciò che resta delle memorie vive e personali di essi è "congelato" nelle interviste scritte e registrate nel secolo scorso. Peraltro, molti dei documenti pubblici devono ancora essere portati alla luce e adeguatamente elaborati. E le testimonianze individuali — diari, ricordi, racconti dei padri e dai nonni, lettere, fotografie — probabilmente giacciono tuttora a migliaia negli archivi e nei cassetti delle famiglie europee. Anche se parecchio materiale di quest’ultimo tipo è stato finora pubblicato, specialmente da parte di case editrici specializzate — come da noi la Mursia e la Goriziana —, di sicuro molto affiorerà negli anni della ricorrenza, anche perché sono stati allestiti diversi portali telematici proprio con lo scopo di stimolare la raccolta e la messa a disposizione del grande pubblico di tali materiali.

Gli storici si sono accostati al fenomeno della Grande Guerra fin da subito, mossi inizialmente dall’esigenza di stendere versioni dei fatti che fissassero, magnificandola, la memoria della vittoria — nel campo dell’Intesa —, per collaborare a erigere le mille lapidi ed edificare i mille "luoghi della memoria" sparsi per le piazze e i parchi di ogni remoto anfratto della Penisola, nonché per suffragare i politici nel loro sforzo di massimizzare la vittoria o di minimizzare la sconfitta. A quest’ultimo riguardo, in Italia — ma non solo da noi — la prima stagione storiografica ha senza dubbio risentito della pressione di una politica intesa a costruire il mito della "vittoria mutilata", a giustificare l’atteggiamento punitivo contro i vinti, oppure, ancora, a rafforzare il sentimento nazionale.

Passato il momento di maggior eterodirezione, le scienze storiche sono incappate, purtroppo, nell’"età delle ideologie" e così le diverse letture raramente hanno potuto esimersi da torsioni e da vincoli. Con buona approssimazione, per quanto riguarda l’Italia, oltre che di una lettura "ufficiale"-mitologica, si può parlare di una storiografia "di tendenza" quadripartita, a sua volta divisa in due linee interventistiche e due linee neutralistiche: nel primo novero, enfatizzante, la lettura nazionalista e fascista — esponente tipico ne è Gioacchino Volpe (1876-1971) e la tesi di fondo: guerra come compimento dell’Unità — e di una lettura democratico-socialista — Gaetano Salvemini (1873-1957): guerra di popolo, che rompe il monopolio liberale del potere —; nel secondo, critico, la lettura marxista — Antonio Gramsci (1891-1937): guerra imperialistica, che però contribuisce a formare un popolo "contro" e una coscienza di classe — e, infine, la lettura liberale — Benedetto Croce (1866-1952): guerra come malattia dello spirito e ferita della nazione risorgimentale.

Il mito dell’"Italia del Piave e di Vittorio Veneto" sarà fondamentale nell’auto-legittimazione del regime mussoliniano, che si proporrà come vindice dell’ingiustizia di Versailles e attuatore ultimo del Risorgimento. Ma, riveduto e corretto con l’aggiunta del capitolo "secondo Risorgimento", continuerà a essere indossato anche in anni repubblicani, quanto meno fino ai primi anni 1960, quando, con l’avvento al governo dei socialisti, nella memoria pubblica si darà più spazio — quando non esclusivo — alle correnti revisionistiche "di sinistra", di cui sono espressione i libri di Emilio Lussu (1890-1975) e di Carlo Emilio Gadda (1893-973) e s’imporrà la storiografia marxista-gramsciana alla Giorgio Candeloro (1909-1988), sì che il Piave mormorerà sempre più flebilmente.

Solo verso la fine del secolo scorso la saggistica, specialmente in area anglosassone, ha cominciato a produrre lavori di carattere generale meno inficiati da influenze esterne o più distintamente ideologico. A essa ha fatto da pendant una fioritura di studi, narrazioni e memoriali di ambito locale o specialistico — talora tradotte dalla lingua dell’ex nemico —, che hanno contribuito non poco a ridisegnare il volto e a riequilibrare la lettura del conflitto.

Nonostante la lunga impasse deformante iniziale — operante soprattutto da noi e assai meno nell’area di cultura anglosassone, meno profondamente ideologizzata —, cento anni di storiografia hanno fatto sì che molti dati siano ormai stabilmente acquisiti e qualche giudizio — perché fondato e condiviso — sia reso ormai meno precario. Per questo, pur inchinandosi alla perenne provvisorietà delle valutazioni storiografiche — strettamente correlate, come detto, alle fonti esistenti —, è possibile individuarne i caratteri principali e fornire qualche elemento interpretativo — ancorché sommario ed esposto in maniera didattica, ergo, forse letterariamente poco attraente— della genesi e dello svolgersi di questo evento-chiave della storia del mondo.

Scopo immediato è altresì quello di fissare dei "paletti" per arginare, incanalandolo in maniera appropriata — con particolare riguardo all’opinione presunta di chi ci legge —, quanto sta per pioverci addosso quest’anno e nei prossimi quattro.

1. La «Grande Guerra» è stata davvero «grande»

Gli eventi bellici del 1914-1918 e tutto quanto a essi di bene (poco) e di male (tanto) si è accompagnato — prigionie, internamenti, drammatiche condizioni di vita delle popolazioni, ristrutturazioni economico-industriali, mutamenti sociali, costruzione delle identità nazionali — e a essi ha fatto sèguito — elaborazione del lutto privato e pubblico, conservazione e celebrazione della memoria, progressi della scienza militare e della medicina, sviluppi tecnologici, guerre locali — hanno coinvolto il pianeta in una misura prima sconosciuta. Anche se l’epicentro è stato l’Europa nord-occidentale, il focolaio meridionale il fronte austro-italiano e il fronte secondario gl’immensi spazi al confine fra Imperi centrali e Russia, la guerra è stata combattuta in Estremo Oriente — il Giappone è alleato dell’Intesa —, come pure in Africa e nell’Asia russo-turca. Ma anche, e con grande accanimento, sugli oceani, dove si confrontano le flotte da guerra inglese e tedesca e dove i sommergibili del Reich affondano milioni di tonnellate di naviglio alleato. La Grande Guerra, nata come secondaria "guerra balcanica", diventa un conflitto "mondiale" anche perché coinvolge popoli dei quattro continenti — nordafricani, americani, australiani, neozelandesi, canadesi — e mobilita risorse attinte — dall’Intesa — ai quattro angoli del globo.

La dimensione, però, sotto la quale la guerra 1914-1918 emerge più drammaticamente come "grande" è il numero delle vittime fra i soldati che la combattono, fra i civili che la subiscono, fra coloro, civili e militari, che ne vivono le conseguenze nella carne e nella mente, come i milioni di vittime dell’epidemia post-bellica detta "la spagnola" e le migliaia di malati mentali. L’unità di misura da adottare in questo calcolo — che rimando ad altra sede — è, per la prima volta nella storia, non le migliaia o le decine di migliaia, e neppure le centinaia di migliaia, ma, tragicamente, il milione. Un dato che parla da sé, anzi urla, che quanto è accaduto in quegli anni disperati è stato qualcosa di non ordinario, di terrificante, una esperienza destinata a incidere in maniera determinante sull’organismo della civiltà occidentale, dal cui seno il morbo della guerra è scaturito. A prostrare l’Occidente non è solo la scomparsa di milioni di giovani e di padri di famiglia, non è solo l’immenso dispendio di risorse materiali, ma anche l’imprint profondo lasciato nella memoria, nella mentalità, nel senso identitario, nelle strutture sociali, nonché, infine, nel giudizio disincantato sui reggitori dei popoli che hanno mandato a morire legioni di uomini, imberbi e maturi, ricchi e poveri, fanatici e indifferenti, per vantaggi concreti del tutto meschini — tanto in sé, quanto più se confrontati con l’ecatombe avvenuta —, presto svaniti e spesso ottenibili per via diplomatica.

2. Scintilla e motore è il nazionalismo

Non si può non vedere nelle premesse e nello svolgimento del cataclisma bellico agire quello che è il "male del secolo", del XIX come del primo XX: il nazionalismo. Se nell’Ottocento una certa concezione moderna della nazione e una forma romantica di patriottismo spingono alla formazione di Stati nazionali in Europa e altrove — ai danni degl’imperi sovranazionali —, alla fine del secolo questa prima forma di nazionalismo è contaminata da nuovi motivi culturali, che la "raffreddano", facendola passare dal sentimento a elementi sempre più naturalistici e pseudo-scientifici. Il nazionalismo "classico" dei risorgimenti degenera allora sotto un duplice profilo.

Il primo riguarda i contenuti. Amare la nazione non significa più ricavare uno spazio di sovranità e di autogoverno per un popolo, ma sottrarre con ogni pretesto spazi e risorse ad altri popoli fino a spingere le rivendicazioni di sovranità al punto di ledere i diritti delle minoranze e combattere di principio gli Stati sovranazionali. E ancora, proseguendo su questo percorso, tendere all’egemonia regionale — come nel caso della Serbia sugli slavi, come a suo tempo del Piemonte sugli Stati italiani e della Prussia sui principati tedeschi — o continentale — la Germania sul Vecchio Continente e il Giappone sull’Asia Orientale.

Il secondo aspetto investe le radici culturali. Essere nazionalisti non vuole più dire amare la libertà e la fratellanza, bensì abbracciare visioni nuove, più "moderne", che riflettono le degenerazioni dell’ethos europeo: il darwinismo politico; il razzismo etnico-culturale neopagano — che ricollega la spinta all’egemonia al primato "storico" dei popoli arii e germanici, inclusi i franchi —; il razzismo biologico ed eugenetico — che fonda la supremazia sulla purezza del sangue —; l’antisemitismo "sociale" e complottardo che contamina la destra e macchia spesso anche la sinistra; la "lotta di classe" fra le nazioni: tendenze tutte che spingono alla "pulizia etnica" e al genocidio — il cui pendant interno è l’eutanasia degli "indegni di vivere".

3. La Grande Guerra è una guerra «totale», combattuta in maniera «moderna» e amorale

L’immagine del conflitto che ci è stata trasmessa gronda di gloria, di eroismi, immolazioni e martirî, di romanticismo patriottico. Non che tutto ciò non vi sia stato: la gloria, per chi ha vinto, e talora anche per chi ha perso, vi è stata e abbondante; gli eroi e i "martiri" sono stati molti, anche se non tutti dalla "nostra" parte; qualcuno ha anche combattuto ed è caduto sul campo coltivando sentimenti patriottici o dinastici. Ma la realtà più comune è stata un’altra.

Nella Grande Guerra "saltano" per la prima volta quei sempre più precari presìdi etici che hanno accompagnato la guerra in Occidente. Quelle "contromisure" che nel basso Medioevo avevano ridotto le forme della guerra e i diritti e le occasioni per combatterla a pochi casi e a brevi periodi, con impatto minimo sui civili. Erose dalle guerre moderne di supremazia e di religione — specialmente terribile la Guerra dei Trent’Anni — pur tuttavia all’alba del XX secolo qualche barlume di esse era rimasto, soprattutto nel comportamento di molti dei singoli e dei quadri ufficializi, ancora ispirato ai canoni della cavalleria. Se la ancor recente Convenzione firmata all’Aia, in Olanda, nel 1907 ed entrata in vigore nel 1910, qualche limite riesce a porre, si può dire nei fronti del primo conflitto mondiale che "pietà l’è morta": il cinismo, frutto del secolarismo e del depauperamento morale delle classi dirigenti in atto da oltre un secolo, prevale sulle regole che le sanguinose guerre a cavallo fra i due secoli avevano indotto ad adottare.

Nelle battaglie della Grande Guerra si muore in scontri di enormi moltitudini armate che a lungo si sono studiate dai bordi delle mille trincee. Oppure la morte arriva all’improvviso, anonima e ineluttabile, dal tiro di un cecchino o dallo scoppio di una granata che arriva dal cielo, magari sparata da decine di chilometri di distanza e che talora sprigiona un odore non sgradevole e diffonde una nebbia omicida.

Gli Stati Maggiori mandano a morire gli uomini in massa, a migliaia, su terreni impossibili e svantaggiati, solo per conquistare poche decine di metri di terreno, poi subito riperso. Non ci sono tregue, neppure per Natale: la sospensione delle ostilità sul fronte francese, nato spontaneamente fra le truppe di entrambi gli schieramenti nel dicembre del 1914, sarà stroncato con pesanti punizioni. Si combatte di giorno e di notte, alla luce dei bengala; d’inverno e d’estate; nelle pianure e sulle cime più impervie; sui mari e nei cieli. Ci si uccide a migliaia in assalti e duelli alla baionetta e all’arma bianca; si impiegano ordigni atroci come i lanciafiamme e i gas asfissianti, che uccidono in maniera cieca, anonima e bestiale; si lanciano granate ad alto potenziale esplosivo e si disseminano i campi di mine in grado di uccidere e mutilare in maniera indiscriminata e massiccia; le armi moderne, le mitragliatrici e i cannoni a tiro rapido, falciano vite a centinaia. Si bombardano dal cielo tanto le fanterie, quanto le popolazioni indifese, e si silurano i navigli civili. Quando non si va a morire, si vive come topi nel fango e fra le cimici delle trincee, esposti alle intemperie e ai periodici bombardamenti, nell’acuto rimpianto dei cari lontani e rôsi dall’angoscia del prossimo attacco-suicidio.

Ogni tentativo di porre fine al massacro o, quanto meno, di attenuare la violenza scatenata, come accade nel 1917 con il famoso — ma non il primo, né l’unico — appello di papa Benedetto XV (1914-1922), cade nel vuoto. Il delirio nazionalista annebbia la coscienza di sovrani e generali. Nascono — anche se a inventarli sono stati gl’inglesi nella guerra contro i coloni "boeri" in Sudafrica pochi anni prima — i campi di concentramento: alcuni di quelli passati tristemente alla storia per l’uso che ne faranno i nazionalsocialisti, come Mauthausen e Theresienstadt, sono allestiti già nel corso del primo conflitto.

Particolarmente immorale e urtante pare il comportamento di tanti intellettuali e scienziati, di diversa estrazione, autori di falsi storici clamorosi che animeranno il nazionalismo più bieco e aggressivo e che propaleranno teorie false e omicide racchiuse in slogan deliranti del tipo di quello marinettiano "la guerra, igiene del mondo".

Questo carattere radicalmente "iniquo" che affligge e sfigura lo scontro bellico farà venir meno la fiducia dei popoli nelle élite e nel dopoguerra propizierà l’adesione in massa a ideologie e a programmi politici radicali e utopistici, apparentemente punitivi dei tradizionali detentori del potere e risolutori palingenetici di ogni problema sociale. In fin dei conti persone abituate per cinque anni a morire in massa non stupisce che continueranno a vivere "in massa"... Il nazionalismo esasperato degenererà nel delirio revanscista, pangermanista e razzista di Adolf Hitler (1889-1945), ma verdeggerà rigoglioso anche altrove, per esempio nelle creature di Versailles, come la Polonia e la Cecoslovacchia. Mentre nel socialismo, a lungo andare, finiranno per prevalere le tesi rivoluzionarie globali — neutraliste nei Paesi liberi e guerrafondaie nella "patria del socialismo", dal 1917 l’ex impero russo — del totalitarismo leninista.

4. La Grande Guerra è frutto sì del nazionalismo e della Realpolitik, ma anche dell’ideologia moderna

Nelle motivazioni che spingono al conflitto e che a esso danno forma durante il suo svolgimento si possono individuare almeno tre livelli.

Il primo è quello ufficiale. A scendere in guerra l’Austria-Ungheria è indotta dalla volontà di punire l’attentato di Sarajevo; la Russia vuole difendere la Serbia dall’Austria; la Francia, vendicare Sedan e riprendere l’Alsazia-Lorena; la Germania, bloccare la Russia alleata della Serbia; l’Italia, compiere l’unità territoriale; Inghilterra e Stati Uniti, portare la libertà ai popoli delle autocrazie.

Ma esiste, e si rivela ben più determinante, una "hidden agenda", come dicono gli anglosassoni, un’"agenda nascosta" in cui domina la Realpolitik. L’Inghilterra entra in guerra per impedire che la Germania conquisti la definitiva egemonia tecnica, militare, industriale e culturale — come era nella realtà dei fatti — in Europa e per contenere la concorrenza tedesca nelle colonie e sugli oceani. La Germania cercare il suo Lebensraum, uno spazio di espansione anche territoriale verso est, in direzione dell’Ucraina. L’Austria-Ungheria deve ridimensionare il nazionalismo serbo e bloccare l’influenza russa sui nuovi Stati balcanici. La Francia vuole anch’essa contenere la Germania, e non si fa scrupolo di scatenarle addosso la Russia. L’Italia contende all’Austria l’influenza sui Balcani ed è attratta dalla conquista dell’egemonia sull’Adriatico e di ulteriori brandelli di Impero Ottomano nel Mediterraneo orientale. La Russia vuole anch’essa appropriarsi di ulteriori territori ottomani ed egemonizzare il mondo slavo. Gli Stati Uniti, infine, si muovono per espandere la loro influenza imperiale anche sull’Europa.

Esiste altresì un terzo livello ed è l’agenda delle lobby. Se ne possono individuare almeno quattro, non tutte con il medesimo potere d’influenza sui governi.

La lobby massonica radicale, probabilmente la più forte nell’Intesa, quella del Grande Oriente, ha nei suoi piani, e non da poco, la distruzione delle autocrazie "feudali" — germanica, austro-ungarica, ottomana e zarista — e l’espansione della democrazia universale. Ed è un disegno che riesce: nel 1919 tre imperi non esistono più e il quarto, l’impero dei Romanov, è caduto già nel corso della guerra nelle mani di Lenin (1870-1924); agl’imperi subentrano regimi repubblicani più o meno "avanzati".

Il pangermanismo radicale, particolarmente forte nei circoli politici e militari del Reich, mira a riunire i tedeschi in un solo Stato e paventa che una pace non vittoriosa allontani il sogno che negli anni della guerra è realtà, quanto meno sotto condominio austro-tedesco. Questo disegno sarà sconfitto e le minoranze tedesche oltre confine si moltiplicheranno — in Italia, in Cecoslovacchia, in Polonia, in Francia —: i pangermanisti dovranno attendere il trionfale Anschluss hitleriano del 1938 e le altre annessioni del Terzo Reich per coronare il loro sogno.

Ancora, vi è la lobby liberal e finanziaria americana che mira a sostenere ed espandere la democrazia anglosassone in Europa, vede nel conflitto una fonte sterminata di profitti e un’occasione per reimpostare gli scambi internazionali su basi liberali, proponendo altresì la costituzione di una istanza "laica" di arbitrato fra le nazioni: la Chiesa, che pur non ha smesso lungo tutto il conflitto di coltivare l’aspirazione di tornare al ruolo di istanza suprema di pace svolto nel Medioevo, sarà esclusa completamente da Versailles.

Infine, la lobby comunista che vuole approfittare della guerra per fare la rivoluzione, disegno pienamente riuscito in Russia e, nel 1918, apparente assist alle potenze della Triplice, anche se, già nel 1919, l’Unione Sovietica inizia a esportare la sua rivoluzione negli Stati europei.

Se ai primi due livelli si opera essenzialmente con le armi e con la diplomazia, la terza agenda vede giocare un ruolo di primo piano il nascente "quarto potere", la stampa, che si rivela determinante tanto nello scoppio della guerra quanto nelle sue maggiori "svolte" — l’ingresso dell’Italia e degli Stati Uniti nel conflitto —, nonché nel mantenere vive le passioni anche quando i popoli avrebbero cercato una tregua.

Per completezza di quadro, occorre nominare anche le lobby sfavorevoli al conflitto, che però non riusciranno ad avere sufficiente voce in capitolo. Fra di esse la rete delle dinastie e delle aristocrazie europee, spesso mescolate alla diplomazia — come rivela il tentativo di Carlo d’Austria (1887-1922), tramite il cognato, suddito belga, Sisto di Borbone-Parma (1886-1934), di sondare l’Intesa in vista di una tregua nel 1917 —, quasi tutte imparentate fra loro a dispetto delle frontiere; e, non ultima, la Santa Sede, che però dovrà prendere atto del totale e cordiale allineamento degli episcopati e dei movimenti cattolici nazionali ai rispettivi governi e limitarsi ad appelli alla pace rivolti erga omnes e sempre più accorati.

5. La Grande Guerra è una colossale frattura storica, sotto molteplici angolature

La guerra del 1914-1918 segna un passo avanti nel cammino della modernità nel mondo occidentale: ciò che sopravvive nelle strutture dell’Europa premoderna crolla definitivamente, mentre s’incrementa il controllo sociale da parte degli Stati, nasce la civiltà di massa e il secolarismo riceve un ulteriore e forte impulso. Infine, la guerra è il terreno di coltura della Rivoluzione comunista, che s’insedia in Russia e nel suo impero e da lì minaccia l’Europa libera e il mondo.

In generale, dopo il 1918 gli scenari della lotta per il potere mondiale si ampliano: al di fuori degl’imperi coloniali europei emergono nuove potenze, come Giappone e Stati Uniti; l’immensa Russia, il cui imperialismo classico è stato indossato e rivivificato dall’internazionalismo socialista, sta per riassumere anch’essa un ruolo di potenza euroasiatica.

Ma il potere reale tende invece a concentrarsi ulteriormente: la finanza si globalizza e s’incentra su Londra e New York, il capitalismo industriale dipende sempre più dalla finanza; le economie industriali divengono sempre più interdipendenti e assetate di nuove e più ingenti risorse naturali; il peso pubblico delle istanze religiose diminuisce, tanto all’interno degli Stati, quanto nell’ordine internazionale; e nella cultura conquistano nuovo terreno istanze naturalistiche e ateistiche; le scienze tendono a sostituirsi alla morale e l’irrazionalismo irrompe nelle arti; le classi sociali sono rimescolate.

Possiamo dire che la Grande Guerra si chiude con un progresso e un’accelerazione del fenomeno rivoluzionario che da secoli attanaglia ciò che fu la cristianità occidentale. Il mondo dei primi anni 1920 è un mondo assai diverso, dove il cambiamento si attua più velocemente, rispetto a quello di anteguerra. Un mondo percorso da fremiti che fanno barcollare anche gli assetti formatisi nei cento anni successivi alla Rivoluzione del 1789, sì che la ristrutturazione del potere che avrà luogo proprio in quegli anni porterà a forme di politica — il collettivismo comunista aggressivo e i totalitarismi e gli autoritarismi anticomunisti nati per reazione al "pericolo rosso" — assai lontane da quelle ottocentesche.

Guerra e rivoluzione sono in effetti intrecciate da secoli, in un rapporto di causa-effetto biunivoco: la guerra genera la rivoluzione e la rivoluzione genera la guerra. Lutero scatena la terribile guerra dei contadini in Germania e la Francia rivoluzionaria genera il ciclo delle guerre napoleoniche. Ma la guerra franco-prussiana del 1870 si conclude con le immani stragi della Comune di Parigi del 1871 e la guerra russo-giapponese del 1905 porta alla "piccola" rivoluzione di San Pietroburgo.

Così pure la Grande Guerra si chiude con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 e con i moti comunisti in Germania, Austria e Ungheria del 1919-1920: solo il "miracolo della Vistola" nel 1921 ne impedirà la saldatura con l’avanzata dell’Armata Rossa nel cuore del vecchio Continente.

Dunque, la guerra spazza via vecchi contrafforti decrepiti e accelera drammaticamente la marcia degli eventi verso nuove e ulteriori occasioni di conflitto.

Ciò che colpirà di più la fantasia dei letterati sarà la caduta della monarchia danubiana, emblema del vecchio mondo e, tutto sommato, realtà amata dai suoi sudditi, o almeno apprezzata da molti come regime ordinato ed equilibrato. Le note della Radetzkymarsch — per alcuni il simbolo sonoro stesso dell’Impero "defunto", così come Francesco Giuseppe (1830-1916) lo era stato come figura sovrana — si riudranno solo nei capodanni viennesi a uso dei turisti asiatici e russi e la Cripta dei Cappuccini rimarrà deserta dell’ultimo regnante legittimo degli Asburgo, il beato imperatore Carlo. Due emblemi cui corrispondono altrettanti titoli di uno dei più efficaci cantori della Finis Austriae, il romanziere ebreo Joseph Roth (1894-1939).

* * *

All’interno degli Stati la guerra produce fenomeni di riposizionanento sociale, destinati a modificare i rapporti fra classi, ceti, gruppi, status e culture. Nelle trincee le differenze regionali, d’istruzione, di cultura regionale, di classe si annullano; nelle retrovie del fronte è intensa la presenza dell’elemento femminile: infermiere, dame della Croce Rossa, animatrici di luoghi di riposo e di ritrovo. Nelle città la produzione industriale viene convertita in industria bellica e il personale di produzione militarizzato; nelle città gli uomini al fronte sono sostituiti dalle donne nelle fabbriche e nei servizi pubblici; gli alimenti e i beni contingentati; diverse zone spopolate e le popolazioni sottoposte a internamento; i porti assoggettati a blocco incrociato. I diritti civili vengono sospesi, imposta la censura e la dialettica politica bloccata. I governi raffinano i loro strumenti di controllo sociale, che useranno in seguito nella costruzione dei vari regimi totalitari e autoritari che vivranno fra le due guerre. Le distanze fra le classi diminuiscono. L’uomo, nell’ottica del potere, è sempre più spogliato del peso — e della tutela — dei rapporti familiari e del suo ruolo: conta solo come individuo, come unità numerica, come voto — dove si vota —, come consumatore e, nei totalitarismi, come micro-ingranaggio di apocalittici progetti d’ingegneria sociale.

Con la guerra antiche mentalità sono spazzate via; intere élite e classi dirigenti civili e militari scompaiono; i gruppi legittimisti, intransigenti e conservatori vero nomine sono ridotti a circoli sparuti e insignificanti. Anche se le istituzioni coltivano ancora il romanticismo e l’idealismo liberale, il positivismo moderno, amorale e naturalistico, la cultura delle scienze e della tecnica — in tutte le sue declinazioni, dalla tecnocrazia al darwinismo evoluzionistico —, diventa la cultura sociale dominante.

6. La Grande Guerra è il preambolo della Seconda

Versailles — dove, come detto, pare su richiesta dell’Italia nel Patto di Londra del 1915, non risuonerà la voce della Santa Sede — disegnerà una carta dell’Europa fatta apposta per riaccendere i conflitti sopiti nel 1918. La durezza delle sanzioni contro i vinti, le sue creature politiche artificiali e le sue promesse non mantenute, segneranno la ripresa e l’ascesa del revanscismo tedesco che rivendica la Renania, l’Alsazia-Lorena e Danzica; l’avvio di una politica ipernazionalistica nel cuore del continente, in Polonia e in Cecoslovacchia; la nascita del regime autoritario fascista in Italia; l’espansionismo nipponico verso la Cina e l’Oceania. E vent’anni dopo Versailles l’Europa e il mondo cadranno così in un secondo ancor più terribile conflitto, dove ancora le hidden agendas giocheranno ancora un ruolo primario.

Lo storico tedesco Ernst Nolte ha chiamato le due guerre mondiali "la guerra civile europea", vedendole cioè un unico grande e terribile scontro intestino fra le potenze del Continente e i loro alleati extraeuropei, in cui culminano tutte le tensioni e i processi avviati nel mondo occidentale dalla Rivoluzione francese, se non addirittura dalla nascita degli Stati moderni dopo le guerre di religione. E, anche nel caso del secondo conflitto mondiale, non si può non prendere atto dell’ulteriore balzo in avanti del processo rivoluzionario: cadrà l’impero nipponico, l’ultimo impero "feudale" e militarista rimasto sulla faccia del globo; cadranno i Savoia che hanno vinto la Prima Guerra; la Germania, riottosa, sarà denazificata, smembrata e in parte sovietizzata; mentre altri settanta milioni di europei subiranno il degrado sociale provocato da cinquant’anni di "socialismo reale".

Che, al di là della Realpolitik, abbia giocato ancora un ruolo importante l’ideologia lo rivela lo scontro apocalittico fra Terzo Reich e Urss, che sarà appunto chiamato un Kampf um eine Weltanschauung, uno scontro fra ideologie, nella fattispecie fra socialismo nazionale e socialismo internazionalista; l’annientamento voluto della Germania e del Giappone, del quale ultimo le due bombe atomiche sganciate nell’agosto del 1945 sono state, pare, solo un inutile e tremendo acceleratore. Così pure l’alleanza delle democrazie con l’Urss, che porterà l’Armata Rossa sul fiume Elba e costerà la spaccatura del mondo in due blocchi per cinquant’anni. Forse vale la pena notare che, se sarà la miopia dello Stato Maggiore del Kaiser, nel 1917, a rispedire Lenin da Zurigo a Pietrogrado, dove pochi mesi dopo creerà la più colossale organizzazione rivoluzionaria mai ideata da mente umana, sarà Frankin Delano Roosevelt (1882-1945) a tenere in piedi il regime di Joseph Stalin (1878-1953) che solo quattro anni dopo la vittoria su Hitler riporterà i marines a morire oltre mare in Corea.

7. Il mondo di oggi è «figlio» della Grande Guerra e della «guerra civile europea»

I processi che attraversano il mondo contemporaneo non sono comprensibili senza tornare al grande strappo, al grande "shock" che il mondo ha subito cento anni fa e alla replica della tragedia che ha luogo fra il 1939 e il 1945. Non si può diagnosticare lo stato di salute di un organismo — fare un check-up — senza una anamnesi che individui i morbi, le patologie, gl’interventi chirurgici che l’organismo ha subito nel tempo. Il mondo di oggi risente ancora di questa crisi della sua "mezza età": l’Europa non è più stata in grado di ricostituire il patrimonio umano e civile che allora è stato distrutto o dissipato. Il conflitto ha disperso capitali di saggezza e di "buone prassi" e ha bruciato i tessuti connettivi della convivenza fra le nazioni e le classi: il secondo conflitto mondiale, la Guerra Fredda — che diventa caldissima in Corea prima e in Vietnam poi — che intronizza le due ideologie sorelle e avversarie, il liberalismo e il marxismo, alla testa dei blocchi; la decolonizzazione; la miriade di conflitti regionali — in Medio Oriente, in Africa, in Jugoslavia — sono solo ricadute del morbo, corollari, sviluppi di quel terribile Big Bang.

Solo dopo il 1989 lo scenario in Occidente inizia a mutare: l’Europa non ricade più nel conflitto chiusosi nel 1945, ma le tensioni e spinte egemoniche che sorgono al suo interno riaffiorano sotto il manto dell’Unione Europea; nuove dinamiche bloccate "dai blocchi" lo coinvolgono — l’emigrazione, la demografia, le grandi organizzazioni criminali, le "lotte civili" —; dopo la rottura dei blocchi, l’America pare restare sola a dominare il mondo, ma nuovi soggetti — l’India e la Repubblica Cinese — e nuove culture religiose — l’islam e l’induismo — si affacciano come protagonisti della scena mondiale e la rimettono in movimento anche in termini di conflitti; sorge intanto la grave minaccia del terrorismo islamico internazionale che genera i conflitti regionali in Iraq e in Afghanistan e sconvolge le tradizionali coppie "amico-nemico" — esemplare è a riguardo il conflitto intra-islamico fra Stati e gruppi filo-sciiti e filo-sunniti — in Africa, nel Medio Oriente, in Asia.

Come si vede da questo succinto richiamo cronologico, la Prima Guerra Mondiale segna l’uscita dell’Europa dal centro del mondo e dalla storia, mentre la Seconda la sanziona. La politica, la lotta per il dominio sul globo, si sposta; i suoi "fuochi" diventano le superpotenze continentali; e il mondo bilaterale cede al mondo multilaterale odierno. L’Europa del terzo Millennio, anche se unita, pacificata e prospera, rimane tuttora fuori dalla storia.

8. L’Italia e la Grande Guerra

Quando si parla di Grande Guerra degl’italiani — ma immagino sia così anche per le altre nazioni — si evocano quasi sempre memorie care: chi di noi non ha avuto fra i nonni o i bisnonni — e forse oltre… — un fante, un artigliere, un marinaio fra i combattenti e magari conserva la fotografia di lui in uniforme o al campo? E tanti nomi di eroi risuonano — anche se l’eco si va spegnendo — ancora nella nostra memoria: combattenti come Enrico Toti (1882-1916) o martiri "irredenti" come Damiano Chiesa (1894-1916), Cesare Battisti (1875-1916), Fabio Filzi (1884-1916), Nazario Sauro (1880-1916). Oppure —ma quanti lo conoscono? — il nome del ventenne udinese Riccardo Di Giusto (1895-1915) del battaglione alpino "Cividale", primo caduto italiano in combattimento della Grande Guerra, colpito mentre varcava il confine nell’Udinese, vicino a Caporetto, nelle prime ore del 24 maggio 1915. O, infine, chi non si commuove osservando, nel centro di Roma, l’ultima dimora del Milite Ignoto, forse il cuore autentico del culto della patria "sacra"?

Ci si muove, dunque, su un terreno minato dal sentimento ed è talvolta un compito ingrato descrivere la realtà quale è stata veramente. Però, nel caso del nostro Paese, forse più che in altri, l’oleografia non giova e le care memorie nascondono realtà davvero lontane dall’aurea benefica e gloriosa con cui le si è ammantate.

L’Italia poteva non fare la guerra; ha voluto farla per ragioni di potenza, piuttosto che d’indipendenza; per molti è stata vista come un "lavacro nel sangue", come un "sacro olocausto" da cui sarebbe stata finalmente forgiata la nazione dopo i mediocri successi in questo campo conseguiti dal Risorgimento e dall’"età dei notabili". E l’ha voluta fare per un tornaconto piccolo — qualche lembo di terra in più di quanto l’Austria-Ungheria ci avrebbe concesso per via diplomatica — abbandonando clamorosamente, a guerra iniziata e già diventata in salita per la ex Triplice — nel maggio del 1915 il Belgio ha resistito e il fronte occidentale si è incagliato sulla Somme —, i propri alleati. Non si contano i voltafaccia dei politici e degl’intellettuali italiani, "laici" e cattolici — da Mussolini a Gaetano Salvemini (1873-1957), da don Luigi Sturzo (1871-1959) a Filippo Meda (1869-1939), da padre Agostino Gemelli (1878-1959) a Leonida Bissolati (1857-1920) —, che, da pacifisti, nel giro di pochi mesi passano all’interventismo più rigoroso e, non di rado, intollerante. Subisce due pesanti sconfitte, nel 1916 sugli Altipiani e nel 1917 a Caporetto; grazie all’eroismo della Quarta Armata nel 1917 resiste sul Piave all’esaurirsi dell’offensiva nemica e nel giugno del 1918, nella Battaglia del Solstizio — 90.000 morti italiani e 150.000 austro-tedeschi — riesce a resistere ancora, grazie al supporto di undici divisioni franco-inglesi, ricacciando il nemico oltre il Piave. A Vittorio Veneto — 1.100.000 italiani, inglesi, francesi, cecoslovacchi, statunitensi contro 800.000 imperiali; esito: 36.000 morti contro 90.000 —, nell’ottobre-novembre del 1918 gli Alleati combatteranno contro un esercito valoroso ma ormai in fase di disgregazione come conseguenza della decomposizione dell’Impero e della ribellione delle popolazioni civili affamate. Il 27 ottobre, nel pieno dello scontro, all’inizio tutt’altro che favorevole agl’italiani, l’imperatore Carlo ha già chiesto l’armistizio e una pace separata, abbandonando l’alleato tedesco al suo destino, all’Intesa e, il giorno dopo, diverse divisioni austriache hanno rifiutato di combattere e iniziato il ripiegamento. Fino al 30 ottobre la situazione rimane fluttuante e solo il 1° novembre gl’italiani avranno la sicurezza dell’imminente vittoria.

Scegliendo l’Intesa, nel 1915, l’Italia s’illude di poter prendere i classici due piccioni con una fava: conquistare Trento e Trieste, "mettersi in sicurezza", arrivando al Brennero, dall’Austria-Ungheria, sostituirla nell’egemonia sul mondo adriatico e fare altrettanto con la Turchia nel Mediterraneo orientale. E per coltivare questa prospettiva non esita, dopo un serrato mercanteggiamento con i due fronti, a rompere l’alleanza con le due potenze alle quali è legata dal 1882 e che l’hanno appoggiata contro la Turchia in occasione della conquista della "quarta sponda", nel 1911-1912.

L’apertura di un fronte a sud-est, sebbene minore, sarà in effetti fatale all’Austria-Ungheria, perché la costringerà a distogliere forti contingenti di truppe dal fronte carpatico-russo per convogliarli sulle Alpi orientali. Tuttavia il costo per raggiungere quel "di più" rispetto all’offerta di Vienna del 1915 — e cioè confine al Brennero, spaccando in due l’antico Tirolo, e concessioni, peraltro risultate pressoché nulle, sulla Dalmazia — è stato decisamente sproporzionato: circa seicentomila caduti e un milione di feriti e mutilati per appropriarsi di due piccole province è realmente uno sproposito. Senza dimenticare che il sostanziale tradimento dell’alleato porrà il Paese in una cattiva luce sia fra i vinti, sia fra i vincitori, menomandone a lungo l’onorabilità.

La nostra formazione scolastica diffonde ancora — ai miei tempi il mito del Piave alle scuole elementari era davvero una presenza diffusa e ingombrante — luoghi comuni del tipo: è stata "una guerra di vitale importanza", mentre in realtà quello italiano è un teatro bellico tanto sanguinoso quanto periferico; si è trattato della "quarta guerra d’indipendenza": sarebbe utile chiedere ai sudtirolesi che cosa ne pensano; l’Italia ha subito l’"aggressione austriaca", mentre si sa che l’ultima cosa che l’Austria desiderasse era uno scontro con l’ex alleata; le caricature di "Cecco Beppe" e "Guglielmone" sono ancora un luogo comune, almeno per la mia generazione, mentre Francesco Giuseppe ha goduto ovunque buona fama di padre dei suoi popoli e Guglielmo II di Hohenzollern (1859-1941) è stato uno dei maggiori modernizzatori del Reich; l’Italia si è mossa a causa dell’"anelito" dei trentini e dei giuliani di unirsi all’Italia: in realtà ne combatteranno disciplinatamente molti di più sotto l’aquila bicipite che non sotto il tricolore; Caporetto è stato colpa del pacifismo del papa, mentre risale al modo di trattare i loro soldati dei generali italiani; la cattiveria del nemico era proverbiale: il nemico è spesso un pacifico Kaiserjäger tirolese, mentre il suo imperatore e comandante supremo è un futuro beato della Chiesa cattolica; e così si potrebbe proseguire a lungo.

9. Conclusioni

Sicuramente il lungo centenario — terminerà solo nel 2018 — riporterà alla ribalta l’evento sia in sede storiografica, sia sulla scena mediatica. Sicuramente il generale scetticismo — se non indifferenza — verso la cultura storica che permea la maggioranza degl’italiani dovrà subire qualche attentato da parte di ritorni di cattivo patriottismo, veicolati da storici di variegata estrazione e da istituzioni sorde a ogni contributo della ricerca che solo sfiori — o si pensa che sfiori — gli stereotipi che fondano la legittimità dello Stato unitario e l’identità nazionale convenzionale. Oppure gli toccherà patire di revisioni del cliché in nome di linee culturali apparentemente più aggiornate e "scientifiche" che in realtà non solo altro che ulteriori luoghi comuni prodotti da prospettive ideologiche "alternative", già invecchiate e superate. Se torneranno a echeggiare le note della — peraltro sempre commovente, se si pensa alle migliaia di italiani caduti lungo le sue rive — "leggenda del Piave", non mancheranno neppure le immagini a forte impatto emotivo degli "uomini contro" di lussuiana (2) memoria, né ci si asterrà dal citare in chiave pacifistica — cosa che non è, in quanto Benedetto XV si asterrà dal giudicare "giusto" il conflitto, ma neppure lo dichiarerà "ingiusto" — la famosa "inutile strage" denunciata dal pontefice genovese.

Ciononostante l’auspicio è che la rivisitazione della Grande Guerra avvenga con serietà ed equilibrio, di cui non mancano esempi anche nelle rievocazioni degli anni del cinquantenario e anche più recenti.

Da un punto di vista sanamente revisionistico, che è quello intrinseco alla "buona" storia e che anima la nostra rivista e presiede alle nostre ricerche sulla storia patria, rivisitare la Grande Guerra, nelle sue origini, nel suo svolgimento e nei suoi esiti significherà riportare alla luce specialmente tutto ciò che queste ondate deformanti hanno nascosto, ricuperare nuove tessere del mosaico ancora da completare, ma che — come accennato — restituisce già una fisionomia approssimata, ma probabilmente sufficiente per "farsi un’idea", per smentire i luoghi comuni invalsi, per dare un giudizio, provvisorio come tutti i giudizi storici, ma non a vanvera, né viziato da motivi extra-storiografici.

Molti sono i temi che andrebbero approfonditi o quanto meno la cui eco andrebbe doverosamente amplificata. Già diversi sono i contributi che consentono di gettare una luce meno tenue su quanto dolorosamente svoltosi negli anni della giovinezza dei miei nonni. Alcuni esempi, riguardo alla guerra italiana, sono l’omissione di aiuto riservata, per timore di diserzioni, ai prigionieri italiani da parte del governo di Roma; gli internamenti di sudditi austriaci di lingua italiana; l’influsso delle massonerie sulle "radiose giornate" del maggio 1915; la valutazione delle tattiche belliche adottate dai generali italiani sui vari fronti e degli spaventosi costi umani delle medesime; la verità su Caporetto 1917; la "leggenda" di Vittorio Veneto. Fra i libri si segnalano gli studi sull’impatto psichiatrico e psicologico sui sopravvissuti delle immani stragi e delle morti per gas e shrapnel (3); le più recenti memorie dei sopravvissuti; le testimonianze sulla guerra vista con gli occhi del nemico; e così via.

Come i tutti i viaggi nella memoria sarà opportuno disporre di una "bussola" che ci guidi e auspico che queste righe possano servire allo scopo.

Oscar Sanguinetti

Note:

(1) Cfr. "La storia contemporanea ha inizio quando i problemi che sono attuali nel mondo odierno assumono per la prima volta una chiara fisionomia" (Geoffrey Barraclough, An Introduction to Contemporary History, Penguin, Londra 1967, p. 20; trad. it., Laterza, Bari 1971-2011, Guida alla storia contemporanea).
(2) Il riferimento è al noto romanzo del 1937 dello scrittore sardo, fondatore del Partito d’Azione, Emilio Lussu (1880-1975) Un anno sull’altipiano (12a ed., Einaudi, Torino 2008).
(3) Cfr. Roberto Marchesini, Il paese più straziato. Disturbi psichici dei soldati italiani della prima Guerra Mondiale, con una mia Prefazione e una Presentazione di Ermanno Pavesi, D’Ettoris Editori, Crotone 2010.


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