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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 13 giugno 2006









Genova nel Settecento


Alessandro Massobrio



I l secolo diciottesimo a Genova si può far cominciare qualche anno prima del millesettecento, per una infinità di ragioni, la prima delle quali è senz’altro rappresentata dall’artiglieria di re Luigi XIV (1638-1715).

L’artiglieria da marina di Luigi XIV, detto familiarmente negli ambienti della reggia di Versailles il Re Sole, gioca infatti un ruolo importante nell’ingresso della Repubblica nel mondo dei nei e delle crinoline. E lo gioca per il semplice motivo che con le sue palle di piombo, con le sue sventagliate di colubrine, con qualche edificio abbattuto e con qualche altro sventrato, rimarca con forza che anche la Liguria, anche Genova, d’ora innanzi, è chiamata a esistere — se esistere vuole — nell’orbita del mondo e della cultura francese.

È vero, come fa notare orgogliosamente lo storico Federico Donaver, che dopo e nonostante il bombardamento marittimo del 17-22 maggio 1683, Genova fu l’unico Stato che non s’inchinò a domandare a grazia al monarca francese, dimostrando così che i liberi abitanti di una debole città avevano più decoro e più coraggio che non l’Imperatore e i re, ma è anche vero che da quel momento comincia per la Repubblica una progressiva presa di distanze dal mondo spagnolesco del secolo decimo settimo.

Quel secolo decimo settimo, che abbiamo imparato a conoscere come il «siglo de los genoveses», era ormai irreparabilmente togato e noioso rispetto alla nuova aria che giungeva dalla Francia dei Lumi. Via dunque i parrucconi folti di boccoli, via gli abiti scuri e le ampie gorgiere, che avevano costituito per tutto il Seicento una sorta di divisa per il patriziato ligure, e via soprattutto quelle leggi suntuarie, che ponevano un limite allo sfarzo, esibito sotto gli occhi del popolo muto e bue.

La nuova moda, che il refolo d’aria francese introduceva a Genova, agitava le crinoline delle dame e le parrucche incipriate dei cavalieri. Birichinamente si divertiva a sfogliare le pagine dei libri di François Arouet «Voltaire» (1694-1778) e di Charles de Montesquieu (1689-1775) e spingeva i borghesi, ad imitazione dei nobili, a cingersi di uno spadino, di cui mai e poi mai avrebbero fatto uso.

Ambasciatori del nuovo ordine di cose giunsero in città e in città sostarono per qualche tempo non pochi gentiluomini, di cui le cronache riportano vita e miracoli. Tra i primi, vi fece tappa Giacomo Casanova (1725-1798), che ebbe anche in riva al Tirreno amori non diversi da quelli che aveva avuto sulle coste dell’Adriatico. Poi l’altro avventuriero, Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro (1743-1795), che — narrano le cronache — fu al centro di uno dei tanti intrighi della sua esistenza. Infine, addirittura lui, Jean Jacques Rousseau (1712-1778), sbarcato da un battello in odore di contagio e dunque ospitato — si fa per dire — sotto le volte del lazzaretto. In compagnia di molte pulci, alle quali cercò di spiegare — sembra, senza riuscirci — come la vita alla stato di natura, libera e solitaria, sia assai preferibile rispetto a quella parassitaria, sopra la cute umana.

Last but not least, scese a Genova addirittura un mandarino cinese. Si chiamava Sin-ho-ei, nome che doveva aver inventato dopo una crisi di singhiozzo. Non si trattava, infatti, di un suddito del Celeste Impero ma, come al solito, di un suddito d’oltralpe, certo Ange Goudar (1708-1791?), che, sfruttando la moda esotica, inaugurata da Montesquieu con le sue Lettere persiane, pensava di conquistarsi la celebrità con una analoga serie di lettere genovesi.

In effetti, quanto cercava ottenne. L’epistolario di Sin-ho-ei, fatto recapitare all’altro non meno celebre mandarino Sciam-pi-pi e poi puntualmente dato alle stampe, forniva della Genova settecentesca un quadro quanto mai poco rassicurante. Vi si affermava, infatti, che la Repubblica era in effetti soltanto una città a cui il nome di repubblica era stato dato piuttosto abusivamente. E che per quanto la sua divisa araldica fosse «Libertas», l’unica libertà che vi si conoscesse era quella «[…] di due o trecento cittadini che hanno in effetti la libertà di tiranneggiare tutti gli altri».

Era in fondo, espresso in forma libellistica, come si usava in quei tempi di libellisti, il ritratto della vecchia Repubblica aristocratica, in fase avanzata di decadenza. Un ritratto impietoso e non sempre veritiero. Che nascondeva, sotto alcuni lineamenti deformati parodisticamente, molti tratti nobili e venerabili, che la nuova generazione, nutrita di razionalismo illuministico, si credeva in dovere di disprezzare soltanto perché antichi.

In effetti, la città, che allora contava intorno ai centomila abitanti e che con l’acquisto di Finale aveva esteso la propria signoria su tutta la Liguria, da Ventimiglia a La Spezia, attraversava quella fase di torpore, in cui la Rivoluzione del 1789 colse molti Stati dell’antico regime.

Governata ancora secondo la costituzione promulgata da Andrea D’Oria (1466-1560) nel 1528 — un Maggior Consiglio di quattrocento membri, sorteggiati ogni anno dal Libro d’Oro della nobiltà e un Consiglio Minore di cento, estratti a sorte dal Maggiore —, la Repubblica, con il trascorrere dei secoli, aveva sempre più assunto i lineamenti di una oligarchia, sui quali s’ingrifasse il naso aquilino del potere monarchico.

Il monarca era, nel nostro caso, il doge biennale, una sorta di ape regina perennemente chiusa nella propria cella. Geloso custode di un potere che, come quello dei tribuni della plebe di Roma antica, più che disporre, provvedeva a impedire che chiunque si prendesse l’arbitrio di disporre.

Un potere dunque d’interdizione, che avrebbe rallentato non poco l’azione dell’esecutivo, in un secolo in cui di decisioni rapide ed energiche — dalla ribellione della Corsica all’invasione delle armate giacobine francesi — ci sarebbe stato bisogno assoluto.

Quanto alla nobiltà, che costituiva la struttura portante dell’intero edificio sociale, occorre dire che quanto più essa era ormai priva del nerbo d’un tempo tanto maggiormente era avvertita dal popolo minuto come l’incarnazione stessa dello Stato. È vero che i patrizi si segnalavano, almeno per la gran parte, come dediti soprattutto alla frequentazione dei salotti galanti e al nuovo gioco, importato naturalmente da Parigi, del «biribis». Ciononostante la devozione della gente minuta — artigiani, «bisagnine» [le contadine che portavano le erbe ai mercati, ndr], piccoli commercianti, operai — stava tutta dalla sua parte. Emarginando, in una sorta di limbo di indifferenza o magari di sospetto, quella nascente borghesia, che, seppure con qualche difficoltà, stava affermandosi anche a Genova.

La borghesia dei medici, degli avvocati, degli speziali, puntualmente iscritti a qualche loggia massonica o comunque di ispirazione illuministica e tendenzialmente anti-cattolica. All’interno della quale venivano portati a piena maturazione quei bacilli giansenistici, che sin dal diciassettesimo secolo erano presenti nella società genovese e di cui alcuni sacerdoti delle Scuole Pie si erano fatti e si facevano portatori.

Ma qual era il collante che saldava insieme popolo e aristocrazia, come poi si sarebbe visto nel corso delle giornate del «Viva Maria» nel 1797, quando la gente di Valpolcevera e di Fontanabuona sarebbe insorta, in difesa della sua fede e della sua tradizione civile, proprio contro coloro che venivano a predicarle in casa una uguaglianza e una libertà che non soltanto non aveva mai conosciuto, ma neppure mai sentito nominare?

Gli storici laureati, i professori universitari, i depositari della vulgata democratica e progressista, che sono soliti squadrare con tanto di cipiglio ogni rigurgito di quella che essi definiscono interpretazione revisionistica del passato, finiscono, in mancanza di più convincenti argomenti, per servirsi di una sola e invariabile etichetta. Quella cioè del «paternalismo» della classe dirigente genovese.

Una classe così disperatamente aggrappata ai propri privilegi ma, al tempo stesso, terrorizzata a tal punto da ogni possibile moto popolare, che quei privilegi potesse mettere in discussione, da finir di trattare bene o in ogni modo con umanità quelle masse, che intendeva ammansire. O comunque distrarre da pretese più radicali e sovvertitrici.

Questo, dunque, sarebbe il preteso paternalismo di un patriziato e di un governo, che, comunque stessero le cose, era amato da coloro che da quel governo erano amministrati. Ed era amato perché da secoli una tradizione di opere di carità e di misericordia corporale alleviava le condizioni dei più deboli e dei più infelici.

Genova, per esempio — come scrive Giulio Giacchero — nella sua Storia Economica del Settecento genovese (Apuania, Genova 1951) — possedeva un’organizzazione ospedaliera e assistenziale che, rapportata alla popolazione cittadina, non aveva confronti in Europa e una struttura corporativa e annonaria tale da assicurare al popolo minuto un umile ma sicuro tenore di vita.

L’ospedale di Pammatone e l’Ospedaletto, fondato nel Cinquecento da Ettore Vernazza (1470-1524), assicuravano a quasi duemila degenti condizioni di conforto e di igiene del tutto accettabili. L’Albergo dei Poveri, frutto del genio caritativo di Emanuele Brignole (1617-1678), provvedeva di un letto e di un piatto di minestra a quell’esercito di mendicanti e di senza stabile occupazione, che ancora verso la metà del Settecento si aggirava per le vie della città. Quanto alle imposte, sempre indirette e che non gravavano sui generi di prima necessità, consentivano una vita modesta ma non grama alla povera gente del centro storico. Le cui abitazioni crescevano — come incrostazioni calcaree fra i nobili panneggiamenti d’un gruppo marmoreo — ai margini della nuova urbanistica settecentesca.

E già, perché è proprio in questo secolo di decadenza politica ed economica che la Repubblica imprime sul volto di Genova quell’espressione di superba bellezza, che tutti i viaggiatori — dal presidente del Parlamento di Digione Charles De Brosses (1709-1777) al poeta Vittorio Alfieri (1749-1803) — non potranno non rimarcare. Il ponte di Carignano, l’abbellimento della Loggia dei Mercanti, i primi lavori di piazza Acquaverde, l’ampliamento di Pammatone e, soprattutto, la Via Nuovissima, che mette in comunicazione Balbi con la Strada Nuova, conferiscono alla città i nobili connotati della capitale. Innanzi a cui il mare, come un cicisbeo, piega il ginocchio in atto d’ossequio.

Per queste strada, nel cuore di queste piazze, sotto i portici di queste logge, si svolge una vita intesa e salottiera. Fatta di visite, di frequentazioni squisite, di carrozze, di lacchè, di biglietti segreti, di alcove misteriose, di boudoir impudichi. I «giovin signori» di pariniana memoria vivono il loro tramonto più splendido, sotto gli occhi del buon popolo di creuze [mulattiere, ndr] e di carruggi [stradine cittadine, ndr]. La cui vita è assai meno grama — come ho detto — rispetto a quella che sapranno dispensare prima la conquista napoleonica e poi l’unità d’Italia.

Ma facciamo conoscenza con questo popolano, che sinora abbiamo conosciuto solo per sentito dire. Un operaio adulto, un proletario, nel senso moderno del termine — come ci informa ancora Giacchero — lavora per il fisco una giornata ogni nove. Condizione certamente «non vessatoria» ma neppure così gratificante come si potrebbe pensare, se teniamo conto che pesa sul salario mensile il fitto di un «mezzano». Un appartamentino umido e freddo, ubicato per lo più nell’area circumportuale della città, in cui vivono tre o al massimo quattro persone, che si riuniscono un paio di volte al giorno intorno a un desco modesto ma abbastanza nutriente. La gente ligure predilige minestroni e pastasciutte, a cui alterna insalate, qualche bicchiere di vino e talvolta un po’ di formaggio.

Nella carne ci si imbatte raramente; in compenso non mancano, nei giorni di festa grande, ravioli, cima, frixeu [frittelle, ndr] al baccalà e torta pasqualina. Quanto al pesce, è ovviamente di casa anche sulle tavole più povere.

Al mattino ci si leva presto per andare al lavoro. Il nostro operaio veste con estrema semplicità abiti di canapa mista a lana, per lo più tessuti in casa. Alle donne, invece, a sentire De Brosses, spetta una qualche pretesa di civetteria. Soprattutto nelle grandi occasioni, per esempio, durante quella della processione delle Casacce [le confraternite, o «casate», ndr], durante la Settimana Santa, in cui anche il povero più povero non lo è al punto da non addobbare finestre e balconi con tovaglie o coperte ricamate.

Le belle genovesi si inginocchiano devotamente al passaggio dei pesanti Cristi, che ondeggiano contro l’azzurro del cielo. Mentre coloro che li reggono, i cristesanti, compiono prodigi di forza e di destrezza, per guidarne verticalmente l’incedere. Ma fra coloro che la processione ha richiamato ai margini della strada non vi sono soltanto gli uomini e le donne del popolo minuto.

Se penetriamo con lo sguardo in mezzo a questa tavolozza così densa di colori, non ci sfuggirà il nero dell’abito, come si diceva a Genova, «alla spagnuola», di qualche signore di mezza età o l’azzurro e oro di certe dame, tutte nastri e crinoline, che seguite dal proprio cavalier servente, si dirigono, verso un posto privilegiato. Dove poter seguire, da dietro l’occhialetto, lo snodarsi della processione.

Il fatto è che Genova, nonostante l’influenza sempre più tangibile della Francia, nonostante l’illuminismo trionfante, nonostante quel sorriso scettico che va tanto di moda fra chi ha appena imparato a leggere qualche romanzo o ad arrotare la erre, rimane sempre e comunque la città della Vergine Santissima. La città delle mille edicole mariane. La città che conta, all’interno della sua cerchia urbana, la bellezza di 244 monasteri.

Ovunque il forestiero volga il passo, nei vicoli del centro storico o nelle estreme propaggini della periferia, dove la campagna sembra ancora minacciare l’insediamento umano, è inevitabile che gli si faccia incontro qualche sacerdote, qualche frate, qualche suora di vita attiva. Fra le prime cui il genio inesauribile della Chiesa ha dato vita per alleviare le pene di coloro che soffrono.

Voglio ora tratteggiare, sia pure per sommi capi, il non sempre idilliaco rapporto che vige tra potere religioso e potere civile, fra doge e Serenissimi da una parte e arcivescovo e capitolo dall’altra. Perché, se Genova è — e lo ripetiamo ancora una volta — la città di Maria Santissima, ciò non toglie che partecipi anch’essa, come molte altre capitali dell’Italia e della stessa Europa, di quel giurisdizionalismo, che sarà magari malattia «da sacrestani», ma è malattia comunque noiosa e spesso cronica. Che un principe trasmette al proprio discendente e un doge al doge che lo segue.

Il senato della Repubblica, dunque, sorveglia Santa Madre Chiesa. Cerca di limitarne i privilegi e quando non riesce a limitarli, si dedica, anima e corpo, ad azzuffarsi con lei in questioni, diremmo noi, di lana caprina, di onori e precedenze. Dimostrando così al colto e all’inclita che doge e Serenissimi, nel corso di questo Settecento, tutto cipria ed inchini, un gran da fare probabilmente non dovevano averlo. A parte, s’intende, incipriarsi e inchinarsi reciprocamente.

Incominciamo dal «berrettino» o «calottino», insomma quello zucchetto che i sacerdoti di una volta indossavano anche in chiesa. Toglierselo e tenerselo avvitato al cocuzzolo in presenza dei senatori? Qualcuno dirà: una sciocchezza. Ma se una sciocchezza simile si mette in conto a un’altra sciocchezza come quella del baldacchino dogale — dove collocarlo, all’interno di San Lorenzo: accanto, ai piedi, di lato all’altare? — la cosa comincia ad acquisire le dimensioni dell’affare di Stato. E se poi a tutto questo si aggiunge la storia dei canonici, che, per non aver voluto, nel corso della benedizione della città del 1731, inchinarsi dinanzi agli Anziani, furono lasciati fuori porta fino a notte fonda, ebbene, qui si sfiora la lotta per le investiture. Uno scontro fra Stato e Chiesa di proporzioni epocali.

E meno male che l’arcivescovo Giuseppe Maria Saporiti — in carica dal 1746 al 1767 —, uomo tutto d’un pezzo ma non privo di savoir faire settecentesco, sapeva, in queste circostanze, allentare e tirare a tempo opportuno le briglie del cavallo di San Giorgio. Altrimenti le imprevedibili sgroppate dell’animale avrebbero mandato a gambe all’aria questo microcosmo ancien régime, che viveva preoccupato soltanto delle proprie zuffe da cortile. Incurante se il macrocosmo intorno a lui avesse intenzione di crollare o meno.

Di un fatto comunque i catoni dei crimini commessi del dispotismo della curia romana possono alleggerirsi le coscienze. Se a Genova l’Inquisizione fu sempre all’acqua di rose, nel Settecento poi alle rose ci possiamo aggiungere le violette primaverili. Tanto è vero che — secondo testimonianza almeno dell’astronomo francese Joseph Jérôme Lefrançais de Lalande (1732-1807) — sembra che, nella prima metà del secolo, un solo prigioniero fosse ospitato nel convento di San Domenico. Proprio dove oggi si trova il teatro Carlo Felice.

Perché vi fosse ospitato non lo sappiamo, ma sappiamo invece con sicurezza che il Sant’Uffizio operava poco e a fatica, contrastato e ostacolato com’era dal Serenissimo Senato della Repubblica. A cui pareva cosa poco simpatica che i preti di Roma venissero a ficcare il naso nelle cose di «Zena».

Si sa comunque di berretti gialli, imposti ai componenti della comunità israelitica cittadina, di qualche libro di provenienza massonica bruciato dal boia sulla pubblica piazza e di un prete, meglio, di un abate, certo Bartolomeo Maggiolo di famiglia polceverasca — di Murta, per la precisione — che fu al centro, verso il 1779, di un caso di presunta possessione demoniaca.

Il suo «possessore», che con voce tonante si faceva chiamare Asmodeo, era in grado di costringere la propria vittima a parlare i più diversi idiomi, specialmente se si trattava di lingue dimenticate o mai conosciute e a emettere vaticini, che ai più parevano senza senso.

Si mosse l’Inquisizione, si mosse l’arcivescovo Giovanni Lercari — in carica dal 1767 al 1802 —, si mossero celebri esorcisti anche da extra moenia. Niente da fare: Asmodeo faceva resistenza. Solo l’8 settembre, giorno della Natività di Maria, dopo lunga contesa, lo spirito della tenebre si dichiarò sconfitto.

Molti anni dopo, patrizi e sacerdoti, che la bufera rivoluzionaria aveva condotto esuli lontano dalla patria, si sarebbero ricordati dell’abate Maggiolo, soprattutto per quelle oscure profezie che nessuno, sul momento, aveva saputo interpretare. Quando Asmodeo brontolava di «libertà comune» o dei lamenti di «Genova gallicizzata», c’era stato qualcuno che aveva ironizzato su quel bravo diavolo che doveva aver ingollato un bicchiere di vino di Gavi di troppo.

Si trattava invece dell’epilogo sulfureo di un secolo che si era aperto con l’odor di salnitro degli obici. Cui graziosamente il Re Sole aveva ordinato di vomitare le proprie fiamme su Genova.



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